Anna Chiara Cimoli
Da una parte, gli oggetti allineati negli spazi dell’associazione Askavusa: con mezzi semplici, senza grandi discorsi. Oggetti sopravvissuti, forse, a chi li possedeva, auto-esplicativi. Dall’altra, le pareti carta da zucchero del Museo della Fiducia e del Dialogo per il Mediterraneo, un roboante progetto il cui nome già suona eccessivo, inaugurato nel 2016 dal presidente Mattarella. Qui l’Amorino dormiente di Caravaggio sta per il piccolo Alan Kurdi, ma quello è un Amorino che dorme, questo era un bambino ed è morto, la metafora formale non regge. Queste le due facce del rappresentare la migrazione a Lampedusa, terra invasa dalla retorica del raccontare tanto, tutto, a tutti i costi: i fotografi, i registi, gli scrittori, in un balletto di arrivi e partenze che drena forze e restituisce poco all’isola e ai suoi abitanti.
Quali forme di rappresentazione possono abitare quella polarità con azioni di senso, che non si limitino a commuovere ma aiutino a capire, che facciano arrabbiare o pensare, che siano frammenti di una conversazione in divenire e non solo palliativi? Tanti hanno criticato Ai Weiwei per la ridondanza dei suoi gesti artistici che proiettano una luce forte sui migranti, tanti hanno parlato dell’attivismo come brand. Eppure, la questione è forse più complessa.
Gli spazi della cultura come luoghi di cittadinanza: in base a questo programma, a volte solo uno slogan, tanti lavorano nelle biblioteche, nei centri culturali, nelle scuole. Su un altro piano, questo lavoro si fa anche nel giardino del condominio inventando mostre e dispositivi per far incontrare le persone; anche negli spazi pubblici, al bar, ovunque sia possibile.
Ma il luogo che dovrebbe rappresentare – nel senso proprio di rendere plastiche, visibili – le tensioni del contemporaneo è soprattutto il museo. O no?
Il museo nasce, storicamente, come luogo vocato a corroborare l’identità nazionale; che tassonomizza oggetti, reperti, opere per ricostruire il mondo a partire da una prospettiva statuale. Una creatura europea, sorta per dire “noi”: un noi compatto, versus quegli altri rispetto ai quali sentirsi diversi, spesso superiori. Oggi, in tempi di populismi e di rigurgiti razzisti, in tempi complessi di identità intrecciate, che ne è di quella creatura mostruosa, quel pachiderma che dall’alto del timpano neogreco oggettivava l’universo, rendendolo mostra? Quali sintassi oggi, quali tropi, quali cabinets de curiosités per dire quanto è cambiato il mondo, quanto l’Odissea sia storia quotidiana che bussa alle porte, quanto le frontiere abbiano tenuto indietro intere generazioni di giovani che potevano andare e costruire cose importanti altrove, quanto lo hate speech non sia cosa di pochi pazzi ma minaccia reale?
Le responsabilità della cultura rispetto alla tardiva presa di coscienza della natura delle migrazioni (ci sono sempre state, ne siamo privilegiati superstiti: e perché non ce le hanno raccontate per bene, a scuola?) sono molte, e discendono da anni in cui la politica ha obliterato la vera natura del muoversi, facendolo ora invasione (l’arrivo della nave Vlora a Bari), ora, a partire da singoli episodi di cronaca, questione di sicurezza. Ciò che si muove nel mezzo – uomini e donne i cui figli si sono laureati in legge o in ostetricia, hanno aperto ditte, sono tornati in Albania, da lì sono andati negli USA e via dicendo – è stato rappresentato in modo tentativo, con ritardo, senza capirlo. Non possiamo dare la colpa ai pochi fondi, al poco tempo del mondo della cultura, che pure rappresentano un freno evidente. Forse eravamo distratti, guardavamo altrove. Sta di fatto che oggi sembrano superati e fuori tempo utile certi clichés che i musei ancora ripetono: gli oggetti dei migranti – le valigie, più recentemente i giubbotti salvagente e le coperte termiche – raccontati in modo emotivo e strappalacrime, la singola storia di successo (spesso imprenditoriale) come a dire “ecco, vedi?”, l’accento sui bambini, perché i bambini, si sa, fanno tenerezza.
Ma ci sono, in Italia e nel mondo, molti musei che lavorano diversamente. Che vuol dire con progetti educativi di lungo periodo, che integrano la migrazione dentro un racconto più vasto, che non “usano” i migranti facendo fare loro cose che non sanno fare (recitare, per esempio, se sono magari timidissimi), che retribuiscono correttamente il loro eventuale lavoro, che riflettono sulla formazione, che si interrogano sulla diversità culturale del proprio staff (punto dolente ma centrale), che cercano artisti capaci di dire, che sono più preoccupati di ascoltare che di parlare, che vanno a cercare le associazioni e i volontari e gli imam e i monaci buddhisti e i maestri di scuola.
Come ne Il cardellino, il romanzo di Donna Tartt del 2013, il museo è anche obiettivo sensibile: dall’attacco al Bardo di Tunisi lo sappiamo, una volta per tutte. Ma può essere anche un grimaldello, uno spazio di riscatto: penso al progetto “Museum without a home”, una mostra diffusa realizzata a Ioannina, in Grecia, per raccontare come gli abitanti si sono attivati per aiutare i rifugiati; penso alla riflessione di alcuni musei frontalieri come il Museion di Bolzano, che dedica un progetto educativo ai rifugiati.
Il Museum of Fine Arts di Boston regala la membership annuale alle famiglie dei “nuovi cittadini”; lo staff del Kiasma di Helsinki si è mobilitato percé la caffetteria offra il cibo avanzato ai rifugiati che protestano nella piazza antistante; molti musei statunitensi, e non solo, si sono mossi in forze contro il “Muslim ban” voluto dal governo Trump (il MoMa ha allestito in una notte alcune sale: via un Picasso, su un’opera dell’iraniano Charles Hossein Zenderoudi), e hanno risposto con statements e prese di posizione ai fatti di Ferguson e di Charlottesville.
Il museo può parlare a voce alta, se lo decide e lo vuole fare. Ma può anche fare il proprio mestiere con rigore, e il messaggio è altrettanto radicale: penso al lavoro di Louisiana, un museo vicino a Copenhagen, in cui si insegna il danese a minori rifugiati attraverso l’incontro con l’arte contemporanea, ai progetti pionieristici con gli adolescenti della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, ai musei che si scompaginano e si reimpaginano per includere il tema della diversità culturale, come il MAS di Anversa. E si potrebbero fare molti altri esempi.
Non sarà un museo a fermare le morti in mare. Non basterà, da solo, a formare le coscienze politiche degli elettori. Non metterà in bocca le parole giuste per far sentire a proprio agio i minori non accompagnati, a volte sperduti e traumatizzati.
Ma potrà contribuire a rendere più capaci di ascoltare e a mettere in dubbio le proprie certezze; potrà fornire dati quantitativi: spiegare, per esempio, com’è che gli immigrati pagano le nostre pensioni; potrà insegnare la lingua di arrivo in modo efficace attraverso i “realia” che espone; potrà far sentire partecipi di una storia in divenire, offrire uno spazio in cui dialogare, far emergere le tensioni. E poi, tante altre cosa potrà il museo: ospitare una riflessione permanente sul tema dello stereotipo e del pregiudizio, perché le frontiere della nostra mente sono spesso del tutto immateriali ma invalicabili. Formare personale di eccellenza tramite borse di studio e stages di alto profilo. Promuovere scambi con paesi che hanno bisogno di fortificare la coscienza del proprio patrimonio, e poi scambi di artisti, anche quelli. Estroflettersi, per capire meglio.
Qualche mese fa ho visitato una piccola mostra organizzata in un chiostro dell’Università Statale di Milano da Labanof, il Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense. Labanof, fra le varie cose, identifica i migrantimorti in mare attraverso il dna, non solo per dare loro un nome e una sepoltura, ma anche – lo ha spiegato bene Cristina Cattaneo, che dirige il centro – per prevenire quell’onda nera di malattia mentale che monta nei Paesi di emigrazione: quella dei parenti che non sanno se i loro familiari sono vivi o morti, e dove stanno. Annunciare una morte è, paradossalmente, meglio che lasciare in un limbo per anni, in termini di costo per la società: non è cinismo, è lungimiranza. La mostra lo raccontava, e collegava, attraverso il metodo di indagine, quelle morti in mare a quelle dei bambini lavoratori di qualche secolo fa, in Italia, quando si faceva la fame e i ragazzini, anche piccoli, lavoravano. Quell’affresco in forma di mostra era complesso e toccante e, anche se impaginato con mezzi semplici, entrava nel cuore di tanti temi della nostra storia, di una comune cattiva coscienza, di un oblio colpevole e miope.
Da dove ripartire? Siamo tutti, conservatori, operatori culturali, curatori, mediatori, alla ricerca di un paradigma nuovo; la crisi ci ha forse, paradossalmente, fatto bene, almeno nel senso di scuotere alcune certezze, alcune presunzioni.
Ci stagliamo con mezzi di fortuna contro uno sfondo molto complesso ed esigente, ma non possiamo stare a guardare. Io ripartirei dalla cucitura con la scuola, che forse certe cose le ha capite prima e meglio, nei migliori dei casi. Partirei dall’ascolto di chi frequenta, per esempio, le superiori. Dalle seconde generazioni, che hanno moltissimo da dire: farei curare una mostra a loro.
C’è tanto spazio per creare occasioni di ascolto, per una narrazione adulta della migrazione, per un rimescolamento di persone in base alla loro diversità ma attraverso temi di interesse comune (la genitorialità, il lavoro, il rapporto con il corpo e il tempo, il senso del pubblico e del privato, le declinazioni del fare politico). C’è spazio per rinegoziare che cosa il museo può o non può fare, poiché è uno spazio di educazione informale per eccellenza: c’è bisogno di spazi inclusivi e antiretorici, che esprimano senza timore la propria linea culturale, che aiutino a rileggere la storia e mettere in prospettiva, che invitino chi ne sa di più. Accoglienza vuol dire qui, con grande semplicità, invitare a entrare: e, tuttavia, declinare il proprio discorso in base alle competenze, alle curiosità e ai bisogni di chi vorrà entrare. In tutto questo, nell’umiltà di chi sperimenta e fa ricerca senza avere risposte, c’è una sensazione di urgenza che ci deve interpellare.