Il giorno in cui non sarebbe successo nulla

di Andrea Geniola

Secondo il governo spagnolo e la maggior parte di partiti statali (PP, PSOE e Ciudadanos) l’1 ottobre non sarebbe accaduto nulla. Questa la litania con la quale hanno trattato la questione nei giorni precedenti. Una previsione quantomeno avventata, almeno a giudicare dai fatti di queste ultimi tre giorni, di certo un desiderio rimasto inesaudito.

Il referendum di autodeterminazione celebratosi domenica 1 ottobre prima che essere valutato in base al risultato va osservato tenendo a mente due questioni a mio parere importanti. In primo luogo, in questo referendum era centrale la partecipazione. Vi hanno preso parte il 42,57% degli aventi diritto (i residenti in Catalogna con cittadinanza spagnola maggiori di 18 anni), per un totale di 2.260.000 persone. L’89,3% si è dichiarato favorevole alla costituzione di una repubblica indipendente, il 7,8% ha votato contro mentre i voti nulli o bianchi sono stati il 2,9%.

Una partecipazione eccezionale date le condizioni in cui si è svolta la consultazione e leggermente superiore a quella del referendum della consulta del 9 novembre 2014 (2.236.806).

Ovviamente a questi andrebbero aggiunti i voti sequestrati dei collegi chiusi nella mattinata di domenica, e che non si sono potuti contare, e quelli delle persone ferite e loro congiunti che non si sono potuti esprimere. E qui veniamo alla seconda questione, ovvero le particolari condizioni in cui il voto si è svolto.

Giovedì sera le AMPA (Associació de Mares i Pares d’Alumnes), le associazioni delle famiglie delle scuole pubbliche, prendono la decisione di occupare all’indomani i centri scolastici per evitarne il sequestro preventivo ordinato dalle autorità spagnole; come in Italia le scuole sono di solito sede di collegio elettorale. Le autorità, coordinate da un comando unificato d’ufficio sotto la Guardia Civil (i nostri Carabinieri), comunicano che alle ore 6h di domenica i collegi sarebbero stati sgomberati.

In realtà le AMPA, come soggetto giuridico, hanno podestà di svolgere (e di fatto svolgono) attività extrascolastiche di comune accordo con la direzione dei centri durante il fine settimana. Su questo escamotage legale e la grande agglomerazione di cittadinanza a difesa delle scuole si è giocata la partita fino all’alba di domenica. Frattanto i Comitati di Difesa del Referendum si coordinavano con le scuole occupate e a partire dalle 5 del mattino migliaia di persone occupavano già l’ingresso delle scuole, rendendone impossibile il sequestro. Alle 6h le AMPA abbandonavano le scuole e le consegnavano alle rispettive commissioni elettorali.

Sotto una pioggia incessante arrivano le urne e le schede referendarie, schivando controlli, sequestri e perquisizioni e vengono costituiti i seggi secondo le norme di legge. Alle 9h del mattino, all’apertura dei seggi le code nei collegi di Barcellona erano già chilometriche. Durante le prime ore le operazioni di voto si sono presentare subito difficili. Da alcune scuole arriva la notizia di pesanti cariche da parte della Policía Nacional e della Guardia Civil, che sequestrano urne e schede, mentre il blocco delle reti internet impedisce la gestione informatica del censo elettorale; nei giorni precedenti la Guardia Civil aveva occupato e preso possesso dei centri informatici della Generalitat che avrebbero dovuto gestire la consulta.

Alla fine della giornata elettorale il bilancio dei feriti sarà di 844 e 314.000 euro di danni nelle scuole.

A questo punto entra in azione il piano B della macchina referendaria. Viene aperto il censo elettronico per permettere agli elettori dei collegi attaccati di votare in quelli restanti e poter spuntarne i nominativi ugualmente e rendere così valido il voto. Ma a questo punto, mentre continua ad allungarsi il bollettino di guerra, nei collegi rimasti in piedi ci vogliono ancora due lunghe ore perché la Generalitat possa vincere la battaglia informatica contro le forze di sicurezza statali. Forse anche grazie alla massiccia presenza di mass media internazionali le immagini delle aggressioni poliziesche alle persone inermi sedute dinnanzi ai collegi fanno il giro del mondo e il pomeriggio trascorre con maggior tranquillità ma i presidi fuori dai seggi rimarranno attivi fino alla fine dello spoglio.

Catalan firefighters unfold a large banner with a ballot box and reading “Love Democracy” in front of the Museum of History of Catalonia on September 28, 2017 in Barcelona. / AFP PHOTO / LLUIS GENE

Al contrario di quanto garantiva da mesi il governo di Madrid, il referendum si è celebrato, anche se in condizioni assolutamente inedite per una consultazione di questo tipo sebbene illegalizzata dalle autorità. I collegi chiusi manu militari sono stati 336 su un totale di 2.702. Come ha fatto presente all’indomani la commissione di osservatori internazionali che ha seguito tutto il processo a partire dei primi di settembre, il referendum ha rispettato pienamente gli standard internazionali di garanzia, anonimato e rigore in materia di trattamento dei voti e tutto il processo è stato considerato estremamente corretto e trasparente.

La commissione, diretta e coordinata da esperti in processi elettorali e accademici di diritto e scienze politiche e promossa dall’Hague Centre for Strategic Studies di L’Aia, ha anche denunciato le assurde condizioni di intimidazione e vessazione in cui il processo elettorale si è dovuto svolgere.

In seguito alle immagini diffuse e alle testimonianze raccolte l’Alto Commissariato dell’ONU per i Diritti Umani ha deciso di aprire un’investigazione propria richiedendo alla Spagna di accogliere immediatamente i propri osservatori mentre le forze di polizia spagnole e il governo negano qualsiasi responsabilità e accusano i feriti di dire il falso. 24 ore dopo i fatti il numero dei feriti della polizia, che ne aveva dichiarati 12, è curiosamente balzato alla cifra quantomeno sospetta di 400.

Helena Catt ha parlato di “operazione di tipo militare pianificata con precisione” e ha affermato che la commissione ha potuto osservare “la persistenza nell’intenzione di voler votare, nonostante gli ostacoli e la paura”, che “non sono stati osservati casi di manipolazione del voto” e che pertanto “il processo dovrebbe essere rispettato”. Il diplomatico Daan Everts sottolineava che “la violenza utilizzata è stato qualcosa di deplorevole” mentre Bart Laeremans faceva osservare che “tutto ciò distruggerà la democrazia e va contro i trattati sui diritti individuali dell’Unione Europea”. Il parere del gruppo di esperti non è vincolante perché lo Stato non li ha riconosciuti ma si tratta di uno staff che ha alle spalle il monitoraggio di più di 300 processi elettorali in tutto il mondo.

 

 

Abbiamo letto e ascoltato in questi giorni osservazioni, opinioni, punti di vista, alcuni di condanna totale, altri di aperta approvazione per l’operato delle forze di sicurezza spagnole. A tale proposito sarebbe utile fare alcune considerazioni sulla base di alcuni dati che ci permettono una lettura più serena della realtà fattuale. I Mossos d’Esquadra hanno portato a termine 244 interventi, con sequestro di urne e schede, in cui non si è prodotto alcun ferito né atto di violenza. La Policía Nacional e la Guardia Civil, messe assieme, ne hanno chiuso 92 ma con il bilancio di cui sopra di 844 feriti.

Esistono tecniche di riduzione dei manifestanti pacifici ben definite e pienamente effettive: si prendono le persone di peso sedute a terra e, senza bisogno di essere bardati come dei guerrieri ninja, si trasportano fuori dal luogo da sgomberare.

I Mossos avevano l’ordine di fare questo e la loro catena di comando non ha inviato la famigerata BriMo (Brigada Movil) che ben abbiamo conosciuto nelle lotte sociali prima dell’ultima legislatura. I Mossos avevano anche ricevuto l’ordine di applicare le direttive con flessibilità ed evitare scontri in caso di grandi agglomerazioni di gente.

Al contrario Policía Nacional e Guardia Civil avevano ordini opposti e li hanno rispettati anche loro, come le registrazioni delle comunicazioni con i rispettivi comandi hanno mostrato in questi giorni. Sono stati inviati a terrorizzare la popolazione e in casi come quello di Aiguafreda sono disponibili le riprese video che mostrano la carica a freddo e l’uso di gas sulla popolazione inerme che stava pranzando in piazza. Una piazza che fino a domenica si chiamava Piazza della Costituzione e che il Comune ribattezzerà Piazza dell’1 Ottobre.

 

 

A giudicare dalle immagini diffuse in tutto il mondo si ha la sensazione di una particolare dedizione sadica da parte delle forze dell’ordine spagnole al momento della loro attuazione; una volta ridotta la persona da sgomberare questa non si può continuare a vessare e brutalizzare. Risulta altrettanto inspiegabile la lista dei danni nelle scuole, che non si ferma a porte, cancelli e vetrate d’ingresso ma che continua in uffici devastati, water e lavandini divelti, banchi, sedie, ecc.

Come spiegare allora questi atti vessatori e vandalici; le dita fratturate intenzionalmente una ad una ad una all’elettrice nel seggio della scuola Ramon Llull di Barcellona, l’infartuato caricato mentre veniva rianimato a Lleida, le manganellate inferte a freddo e direttamente al capo e volto, l’uso (bandito dall’UE) dei proiettili di gomma e che hanno lasciato un altro occhio sul selciato, ecc. Oltre quella degli ordini ricevuti, e quindi delle responsabilità politiche del governo di Madrid, una seconda spiegazione potrebbe essere quella del clima culturale in cui gli agenti hanno agito.

Da mesi oramai, se non da anni, si è costruita in Spagna una narrazione dei fatti catalani che segnala un nemico (il nazionalista o indipendentista catalano) che svolge quel ruolo di “folk-devil” di cui ogni società capitalista ha bisogno per scaricare al di fuori dalla comunità nazionale e lontano dagli interessi economici dominanti tutte le tensioni e le contraddizioni possibili.

Quindi l’indipendentista sarebbe diventato il responsabile della crisi economica, della frantumazione della nazione e financo del deficit di diritti civili e sociali. Nelle ultime settimane poi siamo giunti a veri e propri atti di aizzamento contro l’untore indipendentista. La partenza delle colonne di polizia e militari verso la Catalogna è stata spesso accompagnata da veri e propri atti di incitamento alla violenza. Fra tutte le immagini di Huelva dove un corridoio di folla sventolante bandiere spagnole intonava il classico “a por ellos” (“contro di loro”, usando un linguaggio casto) da stadio al passaggio dei fuoristrada della Guardia Civil.

Ma non sono stati solo i mass media a favorire l’instaurazione di un simile clima, il più delle volte con notizie inventate, amplificate o inesatte. Ci si sono messi anche gli accademici spagnoli con un manifesto in cui si inneggiava a far cadere sui responsabili del referendum tutto il peso della legge fino alle estreme conseguenze. Di certo il manifesto non voleva che si picchiassero gli elettori ma che si agisse legalmente contro i promotori del referendum. Ed è anche vero che non credo che agenti e militari siano dediti alla lettura dei manifesti scritti dagli accademici.

Ciononostante mi sarei aspettato un’attitudine più moderata da parte del mondo intellettuale e universitario, che avrebbe potuto svolgere un ruolo magari di mediazione, contribuire a ribassare la tensione, tendere ponti. Insomma, è in questo clima che è possibile dare una spiegazione all’eccessiva perizia adottata nel percuotere persone inermi all’ingresso (in fin dei conti) di un seggio elettorale, per illegale che questo potesse essere. Nel momento in cui picchiavano non vedevano una persona bensì un pericolo per la nazione che erano stati chiamati a difendere con tutto il popolo spagnolo alle loro spalle. Ed è in questi casi che ci può scappare il morto. E il G8 di Genova ci ha insegnato anche questo.

 

 

Ieri la società civile catalana è scesa di nuovo, testardamente, in piazza in una giornata dalle molteplici manifestazioni, contro la repressione poliziesca. Si è trattato in realtà di tre livelli di mobilitazione nella stessa giornata. In primo luogo, una “vaga general”, uno sciopero generale convocato dai sindacati di base e dall’associazionismo. In secondo luogo, una “aturada general”, uno stop totale di tutte le attività produttive e commerciali, amministrative e di trasporto, senza garanzia di servizi minimi eccetto le urgenze sanitarie. In terzo luogo, una giornata, l’ennesima, di mobilitazione studentesca.

La confluenza di queste tre mobilitazioni ha paralizzato la Catalogna durante quasi 24 ore in una serie d’iniziative di massa cui hanno partecipato circa 700.000 persone (la metà delle quali solo a Barcellona).

Una giornata in cui la magnitudine del blocco delle attività produttive è confermato dalla diminuzione dell’11% nel consumo elettrico. Alle manifestazioni e la chiusura dei commerci nei centri urbani si sono affiancati blocchi stradali in tutte le arterie principali del paese fatti da studenti e contadini con le macchine agricole, fino al punto che la Gendarmerie francese ha dovuto chiudere le frontiere. Una giornata di atti simbolici. File dinnanzi alle scuole violate per depositarvi mazzi di fiori. Proteste dinnanzi alla sede del PP di Barcellona. Un presidio di sdegno dinnanzi al commissariato centrale della Policía Nacional, dove hanno sfilato i 300.000 manifestanti di Barcellona durante tutta la giornata.

I reparti dei pompieri che garantiscono il servizio d’ordine delle manifestazioni. Affatto simbolica invece la cacciata dei reparti di polizia e militari spagnoli dagli hotel in cui erano alloggiati a Pineda de Mar e Calella. Dopo le proteste dei cittadini per i fatti di domenica i militari alloggiati a Calella si erano resi protagonisti lunedì sera di una serie deplorevole di aggressioni per le strade del paese, con abiti borghesi e armati di manganelli. Altrettanto deplorevole la manifestazione organizzata dagli agenti della polizia a Pineda de Mar, che hanno inneggiato alla nazione e urlato slogan come “que nos dejen actuar” (che ci lascino agire). I sindaci dei due centri hanno dichiarato queste forze di sicurezza non ben accette e i padroni degli hotel li hanno invitati ad abbandonare i rispettivi stabilimenti.

La giornata si chiudeva con due dichiarazioni significative che disegnano i contorni di una situazione d’altri tempi, sull’orlo di uno strano caso di eversione istituzionale in cui lo stato di diritto serve per annullare lo stato di diritto stesso. Il portavoce del PP Hernando ha affermato che lo sciopero era di tipo nazista e che le sinistre indipendentiste vanno cercando il morto. Una dichiarazione che più che altro sembra essere una macabra dichiarazione di intenzioni in vista dei prossimi giorni.

Ma a mettere la ciliegina sulla torta della giornata di ieri è stato il messaggio del Re Filppo VI a reti unificate. In un atto di incredibile irresponsabilità politica il monarca borbonico perde l’occasione che alcuni aspettavano per una mediazione pacificatrice.

Nel suo discorso, accolto a Barcellona da una salve di fischi e trenta minuti di “cassolada” e clacson delle auto, ha dato totale appoggio all’operato del governo, neanche una parola per i feriti (che pur sempre sono suoi sudditi), nessun riferimento alla possibilità di una riforma costituzionale né riconoscimento della plurinazionalità, accusato di slealtà la Generalitat e non ha pronunciato nemmeno una volta la parola dialogo.

Fin qui la cronaca di questi giorni ma come leggere questi fatti e cosa dal loro sviluppo e ragioni ci possiamo aspettare in futuro? Fino al discorso del Re, che ricordiamo è il Capo dello Stato e anche delle forze armate, gli analisti si stavano scervellando circa quali vie di mediazione e soluzione si potessero cercare. Il discorso del Presidente catalano Puigdemont lasciava presagire un’apertura che, sulla scorta della legittimità conquistata voto su voto e schivando le manganellate, portasse il governo di Madrid a un tavolo negoziale. Una speranza relativa, dato che la Legge del Referendum approvata dal Parlament di Barcellona prevedeva in caso di vittoria del Sì una dichiarazione di indipendenza, l’entrata in vigore della Legge di Transitorietà giuridica e l’apertura di un processo costituente attraverso elezioni specifiche.

Ma il discorso del monarca borbonico annulla qualsiasi possibilità di dialogo e mette la Generalitat dinnanzi a un bivio: o resa incondizionata con rinuncia su tutta la linea o repressione a vari livelli e intensità. Certamente quello in corso è uno scontro tra due istituzionalità, una vigente e l’altra in costruzione. Un processo molto interessante dal punto di vista storico-politico e giuridico-costituente ma in cui uno dei due contendenti lotta, per il momento, senza guantoni e con un braccio legato dietro la schiena.

Gli scenari da osservare sono molteplici. In primo luogo c’è quello internazionale, soprattutto europeo o dell’Unione Europea per essere precisi.

Durante la conferenza stampa di lunedì la Commissione Europea ha letteralmente ignorato durante 45 minuti la richiesta di una posizione chiara fatta dai giornalisti in sala stampa. Nessuno Stato europeo ha rivisto nemmeno di un passo l’appoggio incondizionato al governo di Madrid in pubblico.

C’è da aspettarsi che in privato alcuni capi di governo abbiano fatto presente a Rajoy che potrebbe risultare controproducente ripetere le immagini di domenica scorsa ma niente di più. Gli Stati europei temono di creare un pericoloso precedente di messa in discussione riuscita della legalità costituita. La Francia poi potrebbe avere l’interesse a non alimentare le speranze di una Catalogna indipendente per evitare che i tuttora limitati livelli di coscienza nazionale catalana nei Pirenei Orientali facciamo il salto dal folklore alla rivendicazione. Un intervento europeo sembra al momento improbabile.

L’UE va assomigliando sempre di più a un’alleanza di Stati uscita dal Congresso di Vienna piuttosto che un campo di valori e diritti universali. Ma da questo punto di vista la questione catalana sta interpellando l’UE sui suoi valori proprio perché, come osservava un giornalista durante la conferenza stampa della Commissione Europea, è difficilmente spiegabile che l’UE si intrometta negli affari interni di paesi esterni all’unione per criticarne l’operato e poi quando determinati fatti hanno luogo in un paese membro e contro cittadini europei, la cosa viene archiviata come “una questione interna” dello Stato in questione.

E ciononostante gli organismi di governo dell’UE sono, nel loro conservatorismo, anche molto pragmatici. Ed è possibile che il governo spagnolo si stia oggi indebitando di favori da restituire, come ammetteva tempo fa l’ex Ministro degli Esteri García-Margallo, in cambio di un appoggio sulla questione catalana. Una strategia effettiva ma che sul lungo periodo e con la situazione portata al limite dei processi repressivi potrebbe convertirsi in un autentico boomerang per Madrid. A livello spagnolo nulla sembra muoversi e l’adesione alla linea della difesa nazionale a oltranza adottata dal governo di Rajoy continua a trovare appoggio incondizionato e operativo da parte di PSOE e Ciudadanos; e questi ultimi chiedono l’immediata applicazione dell’articolo 155, che prevede la sospensione dell’autonomie.

I processi più recenti di secessione sono tutti legati a condizioni geopolitiche favorevoli che non si danno nel caso catalano.

Ma se è vero che queste non sembrano darsi a livello esterno quantomeno più aperta appare la questione a livello interno. E qui sarebbe necessario osservare più da vicino la complessità del movimento indipendentista. I grandi momenti di rottura di questa legislatura provengono da forzature ed accelerazioni impresse dalla sinistra indipendentista, la CUP, di cui il referendum (auto)vincolante di domenica è la prova più evidente. È il referendum che ha inserito elementi di accelerazione in questo processo e possibilità di rottura dello statu quo.

La situazione oggettiva e le contraddizioni reali insite in uno Stato decentrato giustapposto a una struttura e tradizione profondamente centraliste hanno portato quella che un tempo era la “buona gente d’ordine” del catalanismo a disobbedire, a mettersi ai limiti della legalità se non addirittura al di fuori di essa. Una realtà che li ha esposti alla repressione e ha fatto conoscere loro una parte delle realtà che difficilmente avrebbero capito se qualcuno gliel’avesse spiegata. Una delle possibili interpretazioni dello scivolamento degli eredi del pujolismo verso posizioni indipendentiste sta nel fallimento di tutte le vie intermedie e in un contesto in cui questi hanno avuto dinnanzi solo due vie: sottomettersi ai processi di ricentralizzazione provenienti da Madrid oppure intraprendere una via inedita e scomoda come quella della disobbedienza.

E dinnanzi alla necessità di gestire una crisi economica hanno optato per salire sul carro rigeneratore di un indipendentismo che non gli apparteneva affatto. Tutti gli elementi di contraddizione e conflitto che la nuova situazione repressiva ha inserito nella questione non possono che avere un’uscita di rottura e un orizzonte di allargamento a sinistra delle maggioranze sociali a favore di una soluzione che si allontana sempre di più dalla Spagna attuale.

Ad esempio il 26 settembre in seguito alla sospensione di fatto di parti consistenti dell’autonomia, nasce la Taula per la Democràcia (Tavolo per la Democrazia) come una struttura di coordinamento tra le entità della società civile indipendentista (ANC e Òmnium Cultural), i sindacati, il mondo dell’educazione e movimenti sociali. Dietro lo sciopero generale di ieri per esempio c’è la Taula e non la Generalitat. Allo stesso mondo, dietro la difesa dei seggi elettorali c’è stata la confluenza tra comunità educativa, associazioni di quartiere, ANC, Òmnium Cultural, Podem, “comuns”, CUP e movimento libertario. Una situazione in cui il tentativo di monopolizzare e cristallizzare verso l’alto il movimento indipendentista stabilizzandolo viene continuamente sabotato dal basso.

Non vi è alcun dubbio che il governo della Generalitat abbia fatto dei passi definitivi verso la soluzione secessionista ma vi è stato continuamente spinto dalla forza sociale dell’indipendentismo reale e dall’assenza di una controparte o contro-offerta proveniente da Madrid.

E la soluzione di una dichiarazione d’indipendenza seguita da un processo costituente anch’essa dipende dalla mobilitazione popolare e delle forze vive e lavoratrici. Da questo punto di vista tale dichiarazione nella forma della proclamazione della Repubblica Catalana è dotata anche di profonde reminiscenze storiche e simboliche.

 

 

Visto con prospettiva storica e con la convinzione che le nazioni sì sono delle invenzioni ma delle invenzioni che funzionano e che diventano poi qualcosa di reale, concreto e tanto quotidiano da penetrare profondamente le stesse mura domestiche, potremmo dire che stiamo assistendo non proprio alla nascita di una nazione (già esistente sebbene senza Stato) bensì a un processo di nation-building in progress in cui diventano fondativi elementi come la legittimità e i diritti universali al di sopra dello stato di diritto e della legalità.

Nel caso la secessione catalana dovesse avere successo, si tratterebbe di un caso inedito di Stato-nazione nato sulla spinta di un enorme movimento di massa; mente la maggiora parte di Stati europei sono nati sulla scorta di movimenti di élite, circostanze geopolitiche eccezionali, guerre di conquista o dinastiche, apparentamenti tra casate e processi di trasmigrazione da impero a nazione. Ciò non toglie che nel possibile nuovo Stato ci sarà da subito una battaglia per l’egemonia tra coloro che ne reclameranno i principi fondativi di disobbedienza e non-sottomissione e coloro che avranno una grande fretta di rimettere in ordine tutte le gerarchie tipiche di uno stato-nazione convenzionale e chiudere la pratica al più presto come una parentesi eccezionale.

Ciononostante non sarà affatto facile recuperare il senso di legalità che il catalanismo d’ordine ha dovuto mettere da parte nella battaglia per l’indipendenza. Ed effettivamente una delle incognite (positiva per alcuni e negativa per altri) è come si potrà ricostruire una legalità laddove ne è stata abbattuta un’altra in modo così (per il momento) traumatico. Come, tra le altre cose, potrà il catalanismo d’ordine e conservatore ritornare a fare appello alla legalità dinnanzi ai conflitti sociali?

Ed è qui che si apre tutto un campo per le sinistre per diventare egemoni nella futura (possibile) repubblica. Valori come quelli della disobbedienza civile non appartengono alle destre e ai conservatori e nemmeno ai liberali e sarebbe una repubblica nata da un grande atto di rottura civile e disobbediente. Un principio fondazionale della stessa portata, fatti i dovuti distinguo e un’accorta contestualizzazione storica, dei movimenti che hanno abbattuto imperi o regimi dittatoriali.

Tutte le altre ipotesi, e ribadiamo soprattutto dopo il discorso di ieri del monarca borbonico, sono poco fattibili.

L’apertura di un dialogo tra Stato e Generalitat senza che nessuna delle due parti perda la faccia è in questo momento fuori da ogni orizzonte e l’appello al dialogo all’UE fatto da Puigdemont sembra a tutti un pro forma in questa situazione, più una risorsa narrativa che una scommessa reale, se non altro perché seduto dall’altro lato del tavolo delle trattative non c’è nessuno.

L’ipotesi che la situazione in Catalogna possa sfociare in un processo costituente a livello statale è altrettanto irreale dato lo scenario elettorale spagnolo. Sebbene possa sembrare affascinante creare parallelismi con il 1931, il sistema istituzionale spagnolo non è in crisi al di fuori della Catalogna e non si intravede al momento nessuna maggioranza né sociale né parlamentare che possa sfruttare la spinta catalana in maniera centripeta piuttosto che centrifuga.

 

Certamente in Catalogna l’indipendentismo ha vinto la battaglia della narrazione così come quella del progetto di futuro.

Grazie alla sua profonda conoscenza della società catalana e una evidente internità a questa ha saputo creare egemonia mentre il governo spagnolo e l’unionismo sono solo riusciti a mobilitare le forze garantite, l’intellettualità istituzionalizzata e i grandi interessi economici consolidati, oltre a minoranze così dichiaratamente anti-catalaniste da apparire anticatalane tout-court. Lo stato sta giocando il tutto per tutto perché sa che la battaglia sul piano politico e sociale l’ha persa.

Gli rimane quella legale (ma tirata per i capelli) di una rischiosa applicazione legale (e non solo de facto) della sospensione totale dell’autonomia attraverso l’articolo 155 della Costituzione e quella repressiva dove ha un evidente vantaggio coercitivo ma che si è dimostrato avere dei costi politici enormi. Ho la sensazione che, una volta data per persa la Catalogna, Madrid stia cominciando a pensare in termini di profonda irresponsabilità.

In caso di vittoria si ristabiliranno le linee di comando e gerarchia contestate. In caso di sconfitta si lascerà comunque il nemico malandato e lacerato. In realtà i continui richiami a una inesistente frattura sociale in Catalogna, che tutti sanno essere un’invenzione dei media spagnoli, andrebbe letta come un’esplicitazione programmatica piuttosto che come una semplice strategia d’intossicazione informativa. È qui che verranno messe alla prova la coesione sociale e civica dei catalani. E in caso di secessione e creazione di un nuovo Stato chissà per quanto tempo dovremo fare i conti in Catalogna con la presenza magari di gruppi paramilitari o terroristici tipo i GAL.

 

Come affermava lo stesso Rajoy in una delle sue più esilaranti performance satiriche involontarie, “me gustan los catalanes… los catalanes hacen cosas” (mi piacciono i catalani… i catalani fanno cose). Ed effettivamente ne hanno fatta una abbastanza grossa.

 

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