Ovvero breve guida alla conservazione delle specie animali, al colonialismo e allo stereotipo
di Fiore Longo – Survival International
foto di copertina:Per i Chenchu essere un popolo della foresta rappresenta una parte essenziale della loro identità e un motivo di orgoglio. Riserva delle tigri di Amrabad. © Survival
Dal sedile posteriore del motorino non si vedeva niente, anche senza casco. L’indigeno che mi portava a zig
zag sulle strade fangose della riserva delle tigri di Nagarjunsagar, nello Stato di Andhra Pradesh, un giovane
chenchu, sembrava avesse appena imparato a guidare. Ed era proprio così.
Eravamo diretti a Pecheru, ad almeno due ore di viaggio, percorrendo una strada che a me faceva pensare solo all’inferno. Dietro agli alberi di un verde opaco, si potevano intravedere delle casette con il tetto di paglia. Le case dei Chenchu, una delle tribù dell’India, che hanno gestito e vissuto quegli ambienti per generazioni.
Allora non potevo ancora sapere che dietro a quell’immagine da cartolina si nascondeva una storia drammatica.
Dopo le prime domande, apprendo subito che gli abitanti del villaggio sono in realtà dei sopravvissuti. I Chenchu, tradizionalmente cacciatori-raccoglitori, furono sfrattati negli anni ’80 quando la loro terra fu trasformata in una riserva delle tigri, e loro furono costretti a trasformarsi in agricoltori.
Dicono che delle 750 famiglie che vivevano nel villaggio, dopo lo sfratto ne siano sopravvissute solo 160. Un uomo mi racconta che: “Nel posto dove ci hanno portato era cosi difficile vivere, noi non sapevamo come coltivare. Io sono la
prova vivente di quello che è successo, e racconterò la verità: sento solo dolore per quello che hanno dovuto affrontare i nostri genitori. Mangiavano una volta al giorno. Non avevano niente da mangiare. E così sono morti. Sono morti tutti perché non avevano da mangiare. È cosi doloroso; eravamo in tanti e ora sono tutti morti. Sono morti in cosi tanti”.
Quando l’uomo comincia a singhiozzare, io non so che cosa fare. Il mio traduttore ripete le sue parole. Mi nascondo dietro la telecamera, e provo un po’ di vergogna. Le sue parole potrebbero essere quelle di un sopravvissuto ad un genocidio, eppure non ci sono state guerre nella regione.
Come posso spiegare agli altri e a me stessa che una cosa simile sia avvenuta nel nome della protezione della
fauna selvatica? I più cinici potrebbero chiedersi se, in effetti, almeno le specie selvatiche ne abbiano beneficiato
in qualche modo: “Quando eravamo qui la foresta era salva. Quando ci hanno sfrattato, la foresta è stata distrutta”, mi dice l’uomo chenchu.
Sarà un caso, penso. Forse una tragica eccezione. Una tale violenza potrebbe essere responsabilità di singoli
funzionari forestali e non degli sforzi di conservazione della tigre in generale. Ma la somiglianza tra i racconti
che ascolto in tutte le riserve delle tigri che ho visitato, è inquietante. Ovunque viene ripetuta la stessa storia:
nelle aree protette, i popoli tribali rischiano arresti, pestaggi, torture e morte. Ma, alla fine, la loro espulsione
non sembra portare niente di buono alla natura: quando gli indigeni tolgono il disturbo, seguono masse
di turisti, esplorazioni minerarie, e deforestazione.
La mia iniziale incredulità si disintegra non appena decido di approfondire l’argomento. Scopro che tra i principali fattori del land grabbing, e quindi tra le minacce più incombenti per i popoli indigeni, non vi sono solo l’industria estrattiva, l’agrobusiness e il turismo, ma c’è anche la creazione di parchi naturali (il c.d. green grabbing).
La conservazione, intesa come uno specifico approccio alla protezione della natura basato sulla preservazione di determinate aree considerate “vergini”, non ha quindi causato danni ai popoli indigeni per sbaglio. Quello che ho visto in India non rappresenta una mela marcia nel grande cesto della conservazione, né un caso isolato, ma è il più comune “danno collaterale” di un sistema del tutto sbagliato.
E così un altro dei miei miti viene sfatato: il movimento conservazionista non è quello che pensavo.
1. Il modello di conservazione dominante è razzista.
Due autori kenioti esperti di conservazione riportano nel loro libro The Big Conservation Lie, la domanda di
un comico nigeriano: “Avete mai visto un uomo nero in un programma di Animal Planet?”. La risposta è ovviamente no, gli eroi della protezione della natura, fateci caso mentre fate zapping su National Geographic,
sono sempre bianchi.
Coraggiosi e benestanti bianchi, i quali decidono, con grande spirito stoico, di rinunciare alla loro comoda vita in Occidente, per salvare il mondo, la natura in questo caso, e gli animali selvatici che, prima o poi, saranno fotografati e pubblicizzati perché altri bianchi benestanti come loro possano godersi un safari di caccia oppure una vacanza “immersi” nella natura selvaggia.
“I Bianchi”, continua il comico, “non hanno mai paura. L’unica volta in cui temono qualcosa, è quando tu vai all’ambasciata per richiedere un visto, e ti dicono: ‘temo che non potremo darle il visto’”. (n.d.t traduzione a cura dell”autore dell’articolo)
Questa sfumatura razzista della conservazione viene confermata non solo dal colore della pelle dei più importanti
conservazionisti nelle ex-colonie (pensate a Richard Leaky in Kenya o all’agguerrita Belinda Wright in India), ma anche dall’idea che ne costituisce il fondamento: noi occidentali sappiamo meglio di chiunque altro come proteggere la natura.
L’importante rete televisiva CNN ha nominato Leela Hazzag CNN Hero (pur essendo egiziana la nostra eroina ha, ovviamente, studiato negli USA) per aver trasformato i Masai “da assassini di leoni in protettori di leoni”.
Questa affermazione accusatoria nei confronti dei Masai, un popolo tribale di pastori, con cui li si definisce assassini di leoni, nega un’evidenza e nasconde una verità: innanzitutto se i leoni erano così numerosi in passato e sono sopravvissuti fino ai nostri giorni nelle terre dei Masai senza il nostro aiuto, forse è perché loro se ne sono presi cura. Inoltre, sono stati i cacciatori colonizzatori, non i Masai, ad aver portato la selvaggina sull’orlo dell’estinzione.
L’idea che i popoli indigeni non sappiano prendersi cura dei loro ambienti, per sollievo di quelli della CNN,
non è una loro invenzione, bensì una convinzione datata.
La ritroviamo nel pensiero dei primi coloni americani e dei colonizzatori britannici dell’Africa, quando metodi di protezione dell’ambiente millenari ed efficaci (come la pratica del debbio) furono banditi semplicemente perché erano diversi dai nostri.
Lord Curzon, viceré d’India, e sua moglie posano dopo una battuta di caccia alla tigre, in India, nel 1902. La caccia praticata dall’élite Raj è stata la causa principale del declino della tigre del Bengala, eppure molti sforzi della conservazione sono oggi concentrati verso i popoli indigeni. © Wikimedia
L’ideologia razzista di molti colonizzatori, li portava a considerare gli abitanti delle colonie “pigri” e incapaci di prendersi cura dell’ambiente circostante. Il loro sapere ancestrale era considerato pura “superstizione”, perché non
fondato su dati scientifici. Eppure sono stati molti di quei tabù e di quelle norme spirituali ad aver protetto e
preservato intere aree del pianeta.
Purtroppo le cose non sono cambiate molto, ancora oggi i guardaparco indiani dicono che gli indigeni che hanno vissuto insieme alle tigri per generazioni, danneggiano la flora e la fauna. Non sono mai riusciti però a fornire alcuna prova a sostegno di quest’affermazione. Alla base della presunta “scientificità” della conservazione c’è soltanto un pregiudizio razzista.
2. La grande illusione: la wilderness
Immagino che qualche volta avrete sognato anche voi di scappare verso quelle terre selvagge, spopolate, sconfinate e lontane che si vedono alla TV il sabato pomeriggio, alla ricerca di avventure eccitanti come quelle del biondo cacciatore di coccodrilli. E vi sarete detti anche voi: “dobbiamo salvare la nostra wilderness!”
In realtà, solitamente, quelle considerate “selvagge” o “vergini” sono terre che i popoli indigeni hanno vissuto
e gestito per millenni. Nel tentativo di proteggere queste aree di cosiddetta “wilderness”, governi, società, associazioni e altre componenti dell’industria della conservazione si adoperano per farne delle “zone inviolate”, libere dalla presenza umana.
Tuttavia, secondo i popoli indigeni, la natura non è “vergine”, né “selvaggia”, se non nell’immaginario occidentale. Prove scientifiche sempre più numerose dimostrano che i popoli indigeni hanno plasmato nel corso di millenni la fisionomia di molte di quelle regioni che noi riteniamo “incontaminate”, ad esempio l’Amazzonia. Il “problema”, alla base della cecità dei conservazionisti, è che i segni dell’intervento tribale sulla natura non sono della stessa portata dei nostri. Molti di loro non “occupano” le terre in modo permanente, ma le utilizzano stagionalmente e non ne sfruttano le risorse tanto da esaurirle.
3. La conservazione è colonialismo verde.
La creazione di parchi naturali in Africa e in Asia è arrivata con la colonizzazione, e il limite che separa gli
sforzi della conservazione dal colonialismo è molto sottile, se non invisibile. Il primo tentativo di “conservazione”
nasce proprio dalla volontà di preservare la natura dalla distruzione perpetrata dai colonizzatori, ai fini di tutelare il loro bisogno estetico di natura selvaggia e la loro passione per la caccia.
In India, ad esempio, la riduzione del numero delle tigri ha origine con la storia coloniale e non ha nulla a che vedere con i popoli tribali. La caccia alle tigri era uno sport piuttosto diffuso tra le élite indiane e britanniche durante il Raj inglese. Lo stesso principe Philip, fondatore del Fondo Mondiale per la Natura (WWF), ha partecipato
almeno una volta a queste battute di caccia responsabili, secondo le stime, della scomparsa del 90% degli esemplari.
La maggior parte delle aree protette sono state create senza il consenso libero, previo e informato dei popoli indigeni che vi risiedevano, da governi nazionali (o coloniali) supportati da organizzazioni conservazioniste occidentali.
Una volta create le aree protette, i popoli indigeni vengono sfrattati illegalmente dalle terre ancestrali nel nome della conservazione. Come i colonizzatori, né i governi nazionali, né i conservazionisti, fino a poco tempo fa avevano mai accennato al fatto che, se quelle aree erano da proteggere e avevano un valore inestimabile, era perché qualcuno, prima di loro, se ne era preso cura.
Per i popoli tribali le conseguenze di questo approccio alla protezione dell’ambiente sono drammatiche. Ma lo sono anche per la natura. Inimicandosi la popolazione locale, la conservazione fallirà, come hanno fallito i governi coloniali. Le aree protette dovrebbero essere create insieme, e non contro i popoli che vi abitano.
4. Homo homini lupus: L’uomo è lupo per l’altro uomo (e per l’ambiente)?
Alla base del movimento conservazionista nato nel XIX secolo negli Stati Uniti (con la creazione del Parco di Yosemite, nel 1864) e poi esportato in Africa e in Asia, troviamo l’idea calvinista secondo cui qualsiasi interazione uomo-ambiente è destinata alla distruzione di quest’ultimo.
L’uomo (tranne ovviamente i conservazionisti e loro famiglie) è un essere cattivo e spregevole, e bisogna quindi proteggere la natura dalle sue grinfie. Ma non solo. Nel migliore dei casi dovrebbe essere frenata anche la crescita demografica, ovviamente quella degli indigeni e dei neri; loro – i conservazionisti – potrebbero continuare a tramandare i loro geni privilegiati. Con questa giustificazione i primi conservazionisti americani hanno rubato la terra dei nativi americani per creare parchi naturali, oggi aperti ai turisti (in gran parte bianchi).
Purtroppo per i fanatici religiosi, la storia dimostra che questa visione negativa degli esseri umani non è una realtà ma un’ideologia, utilizzata per giustificare il furto di terre altrui.
Non tutti gli esseri umani hanno un impatto negativo sull’ambiente. I modi di vita dei popoli indigeni, a differenza dei nostri, sono generalmente sostenibili. Questi popoli conoscono intimamente tutte le risorse disponibili nei loro territori – ogni pianta, ogni animale e ogni minerale – e hanno imparato a sfruttarle a fondo senza rischiare di esaurirle.
Il problema della distruzione dell’ambiente non riguarda quindi l’uomo in generale, ma un modello economico in particolare, modello che però non è mai messo in discussione della grandi organizzazioni della conservazione, le
quali, anzi, stringono partnership con l’industria e il turismo, e così facendo stanno distruggendo i migliori alleati dell’ambiente.
5. Anche la natura si protegge con le armi?
Ultimo elemento da analizzare all’interno di questo quadro inquietante è la crescente militarizzazione della conservazione. Sempre più spesso i guardaparco di molti parchi africani e asiatici ricevono una formazione militare, insieme ad una serie di immunità e al permesso di sparare a vista ai sospetti “bracconieri”.
Nelle nostre società, le organizzazioni per la conservazione si presentano come parte del mondo progressista e baluardi di uguaglianza, protezione dell’ambiente e dei diritti umani, gentili e docili come i panda, i delfini e i cuccioli di tigre che difendono dalle cattiverie degli esseri umani.
Uomo chenchu dopo la raccolta del miele. I Chenchu sanno riconoscere 5 tipi diversi di api che producono 5 tipi diversi di miele. © Survival
Invece, in Africa sono viste come autoritarie e razziste, se non altro perché degli uomini armati impongono la loro retorica con uniformi e stivali comprati, molte volte, con i soldi di donatori occidentali ben intenzionati.
Dopo aver esaurito il tema della guerra al comunismo, e successivamente quello della guerra al terrorismo, oggi abbiamo identificato un nuovo nemico, in questo caso utile alla raccolta fondi di molte organizzazioni della conservazione, nonché ai venditori di armi: il bracconaggio.
Nessuno nega l’enorme e terribile costo che flora e fauna devono pagare a causa della domanda crescente di specie selvatiche, soprattutto nei mercati asiatici. Ma il bracconaggio non verrà sradicato dagli eserciti. Ad alimentare le reti di bracconaggio vi è difatti una grandissima domanda di questi beni (che corrisponde a ingenti quantità di soldi in circolazione) e una struttura di corruzione che va combattuta e sconfitta attraverso le leggi e la giustizia. Concentrarsi sull’eliminazione fisica dei bracconieri può sembrare una soluzione efficace nel breve termine.
Si tratta però di vere e proprie esecuzioni extragiudiziali, che condanneremmo senza ombra di dubbio nei nostri paesi.
Questa “soluzione” oltre a rappresentare una violazione dei diritti umani più elementari, distoglie l’attenzione dalla
lotta ai veri bracconieri – criminali collusi con funzionari corrotti – e danneggia la conservazione stessa.
Per un “cacciatore di coccodrilli” tribale.
Una volta tornata in Italia, dopo una lunga immersione nelle riserve delle tigri in India, ho deciso di passare
qualche giorno in montagna. Sono stata a casa di un lontano parente, Piero, che mi ha fatto notare che ci trovavamo
proprio dentro a un’area protetta.
Gli ho chiesto come avrebbe reagito se ad un certo punto fosse arrivato un guardaparco e gli avesse detto che, nel nome della conservazione del lupo, lui e la sua famiglia se ne sarebbero dovuti andare. “Beh, gli direi che io e la mia famiglia viviamo qui da generazioni, e che i lupi ci sono sempre stati” mi ha risposto lui. Parole se non altro di una sorprendente somiglianza con quelle degli indigeni che ho intervistato nelle riserve delle tigri, così lontani da questo bosco europeo.
A questo punto ho rincarato la dose: “E se quindi vi cacciassero con la forza, oppure vi dicessero di restare ma non vi permettessero di uscire di casa, vietandovi di passeggiare, di usare l’acqua, di portare a spasso il vostro cane? Perché cosi facendo fate del male ai lupi?”. Piero ridendo, mi ha subito risposto: “Questo non succederà mai!
Se succedesse qui in Italia, noi ci ribelleremmo tutti immediatamente”. Purtroppo però non tutti i popoli sono nella condizione di poterlo fare. Ma è proprio questo che facciamo a Survival International, offrendo ai popoli indigeni un palcoscenico da cui rivolgersi al mondo. Li aiutiamo a difendere le loro vite, a proteggere le loro terre e a determinare autonomamente il loro futuro, e così anche quello degli ambienti che abitano.
Perché senza popoli indigeni non ci sarà natura, né futuro.
Dal comodo divano della casa di montagna, ho pensato che alla fine quel viaggio in motocicletta così rischioso
non era poi stato così male, e che probabilmente, e purtroppo, ne dovrò fare tanti altri, fino a quando non vedrò un indigeno su National Geographic spiegarci come si fa a proteggere le tigri.
Il villaggio di Pecheru fu sfrattato negli anni 80. I suoi abitanti ci raccontano che delle 750 famiglie che lo abitavano, ne sono sopravvissute solo 160. Molti sono morti di fame a seguito degli sfratti. Riserva delle tigri di Nagarjunsagar Srisailam. © Survival