Un rapporto di Amnesty traccia un drammatico bilancio dei risultati della politica dei rimpatri forzati dall’Ue all’Afghanistan
di Christian Elia
“Se l’Afghanistan non coopererà con l’Unione Europea rispetto alla crisi dei rifugiati, ci saranno conseguenze sugli aiuti umanitari”. Non scelse giri di parole, circa un anno fa, il ministro delle Finanze afgano, Eklil Hakimi, a margine delle riunioni a Bruxelles che portarono alla stipula del Eu – Afghanistan Joint Way Forward.
Oggi, un drammatico rapporto di Amnesty International, Forced Back to Danger / Asylum-Seekers returned from Europe to Afghanistan, traccia un bilancio dei rimpatri dovuti a questo accordo.
Premesso che già prima dell’ottobre 2016, da almeno un anno, il numero di richieste d’asilo di afgani respinte era enorme, dalla fine dello scorso anno è diventato sistematico. Come? Lo racconta la storia di Sadeqa, intervistata dai ricercatori di Amnesty, che l’hanno rintracciata in Afghanistan.
Sadeqa, dopo il rapimento di suo padre, assieme a tutta la famiglia, era fuggita in Norvegia. I rapimenti sono uno degli indicatori della precipitata situazione in Afghanistan, elemento tendenzialmente estraneo alla società afgana tradizionale, ma ormai molto comune.
Pagato il riscatto, sono fuggiti, ma la Norvegia ha posto loro solo un bivio: o il carcere e l’espulsione, o il rientro ‘volontario’, con una somma di circa 10mila euro e un biglietto di sola andata per Kabul (dove all’aeroporto è stato costruito un terminal ad hoc per questi rimpatri dall’Europa).
Forse sarebbe accaduto lo stesso, forse per le informazioni circa la somma di denaro, forse perché la famiglia aveva già pagato una volta, il padre di Sadeqa è stato rapito di nuovo. E ucciso.
Se non fosse morto nel rapimento, magari, sarebbe stato vittima di uno dei 16290 episodi di violenza registrati nel paese nei primi otto mesi del 2017, o vittima della tortura che è diventata parte della società e delle istituzioni afgane, come denuncia il rapporto dell’UN Committe Against Torture, che segnala la situazione in Afghanistan come lacerata.
O sarebbe potuto vivere di stenti, come i 9,2 milioni di afgani che – secondo una stima di ECHO e di OCHA – vivono in grave emergenza umanitaria. O potevano andare a ingrossare le fila dei 2 milioni di sfollati interni.
Di sicuro, per loro e per tutti gli afgani, sarebbe stata sempre pronta un’autobomba, oppure un attentatore suicida, o un conflitto a fuoco tra insorti e governativi, o meglio ancora un bombardamento delle forze Nato.
Sarebbero così finiti tra 5243 civili uccisi o feriti dalla guerra, solo nei primi sei mesi del 2017. Li ha contati l’UNAMA, l’agenzia Onu che si occupa dell’Afghanistan, che li conta solo dal 2009, ma che registra gli ultimi due come gli anni peggiori del conflitto per i civili.
Questo è il contesto da paese sicuro, verso il quale sono stati respinti i circa 200mila afgani che nell’anno orribile della coscienza collettiva europea, quel 2015 dell’invasione venduta dal marketing della paura, ha ottenebrato l’idea stessa di diritti umani e di Europa.
Di questo, un giorno, risponderemo. Di questo, oggi, dobbiamo vergognarci.
Sadeqa era poco più di una bambina quando è iniziato l’attacco all’Afghanistan. A lei avranno raccontato che la liberazione del paese era il fine al quale sacrificare la sua vita. Oggi, sedici anni dopo, come racconta l’ottimo rapporto di Milex, il fallimento è doloroso e imponente.
A questo, i liberatori, aggiungono la vergogna di legare gli aiuti umanitari alla rinuncia dei diritti universali. Oggi i nemici di ieri sono interlocutori politici, oggi del burqa non si parla più, oggi c’è un paese sicuro da vendere sul mercato della vergogna. Per un pugno di voti.