Ritorno a Calais, un anno dopo la Giungla

Tra le vite sospese che nessuno sgombero può fermare

foto e testo di Arianna Poletti

“Today France, tomorrow UK”. Sosolna ha cinque anni. Conosce già l’inglese. Quando non le viene una parola, la cerca in greco o in francese. È cresciuta camminando per l’Europa. Aveva soltanto due anni quando il suo viaggio senza fine è iniziato, dall’Eritrea al Regno Unito.

Oggi è a Calais, in Francia. Domani, forse, in Inghilterra. Ci crede ancora, nonostante provi la traversata della Manica da più di un anno. Corre, salta, si tappa il naso con le dita: “E’ così che devi fare per salire sui camion”.

Con lei, la mamma Habiba. Guance scavate, occhi grandi e neri, l’aria stanca di una ventenne che ha cresciuto una figlia per strada. La giovane donna eritrea sorride di rado.

Habiba e Sosolna abitavano nella Giungla di Calais. Dopo lo smantellamento di ottobre 2016, hanno cercato rifugio a Parigi. Poi, il 18 agosto, anche il campo di Porte La Chapelle è stato evacuato.

Habiba decide di tornare al nord per tentare di nuovo la sorte: «sono stanca, cerco la stabilità e un futuro per mia figlia. In Francia, per noi, non c’è futuro. Voglio andare nel Regno Unito».

Al loro ritorno a Calais, un anno dopo, la bidonville più grande d’Europa non esiste più. Eppure il problema è tutt’altro che risolto. Secondo le dichiarazioni di inizio estate del vice prefetto di Calais, Vincent Berton, i migranti in città sarebbero circa 400.

Secondo il rapporto di agosto 2017 delle associazioni Help Refugees e L’Auberge des Migrants, presenti sul posto, si aggirano intorno a 750. Centinaia di ombre nella città che sfiora il Regno Unito: sotto i ponti, nella boscaglia, per strada. Lontano dal centro, lontani dagli sguardi di chi non vuole vedere. Provengono principalmente da Afghanistan, Eritrea ed Etiopia, ma anche da Sudan, Siria, Iraq e Iran.

Dormono a terra, su giacigli arrangiati di cartoni e stracci, poche ore per notte. La polizia interviene regolarmente, rispondendo all’ordine di smantellare qualsiasi forma di insediamento a Calais.

La paura di una nuova Giungla tormenta la sindaca repubblicana Natacha Bouchart. Anche il Ministro degli Interni francese, Gérard Collomb, in visita a Calais a giugno, ha dichiarato di non poter più tollerare “accampamenti fissi”.

Il 26 luglio di quest’anno Human Rights Watch denunciava abusi e violenze ai danni dei migranti in un lungo report dal titolo C’est comme vivre à l’enfer.

È come vivere all’inferno. L’ONG fa riferimento all’uso di gas al peperoncino contro uomini, donne e bambini migranti, e alla violazione dei diritti più elementari, come l’accesso all’acqua. In queste “condizioni di vita disumane”, come le ha definite il Difensore dei diritti umani Jacques Toubon lo scorso giugno, vivono oggi anche Habiba e Sosolna. Insieme a loro, una trentina di donne.

Energica e sorridente, Lina scherza in inglese. Intorno a lei si riunisce il gruppo delle donne: la più giovane, sola, è una bambina. Ha quattordici anni. Moltissime le minorenni. Salam viene dal Sudan. Il suo volto, il suo sguardo, sono quelli di una donna adulta.

Si accarezza la pancia, è incinta. Si presenta: ha solo diciassette anni. Lina, quarant’anni, eritrea, è il loro
punto di riferimento. Porta al collo un foulard dai colori vivaci, i colori della bandiera del suo paese.

È in viaggio da quattro anni: “Non soffro per queste condizioni. Soffro perché non conosco più il volto di mio figlio. Gli parlo solo via Facebook, quando riesco ad avere il wifi. La situazione a Calais è esasperante. Qui, ogni volta che piantiamo una tenda, viene gettata via. Chiedono con insistenza a donne e bambini di partire verso i centri
d’accoglienza, ma non vogliamo. In Francia non c’è futuro per noi”.

Lina ha fatto più volte la richiesta d’asilo, più volte le è stata rifiutata. “In Inghilterra ottieni i papiers in due
settimane. Sei regolare e puoi trovare un lavoro e una casa. Questo è quello che cerchiamo. Dov’è Dio? Dov’è l’Europa?”, si chiede, severa, gli occhi rivolti al cielo.

Abel, avvolta nel suo turbante color verde mela e capelli intrecciati, mi chiama sister. Viene dall’Etiopia. È stanca, non si alza dal divano della sala del Secours Catholique neanche quando Véronique, volontaria, la invita a ballare una canzone etiope.

“Cosa posso fare qui? Nulla. I centri d’accoglienza sono pieni. Mio figlio ha otto anni e non va più a scuola. Cosa
gli insegno? La violenza? Vede e vive situazioni che un bambino non dovrebbe conoscere. Essere donna e madre a Calais è difficile. Per fortuna siamo unite tra noi, ci facciamo forza l’una con l’altra”.
Prima di mangiare, Abel prega intensamente sotto voce, ad occhi chiusi.

Il martedì pomeriggio è il suo momento di tranquillità. “Ogni settimana, l’associazione Secours Catholique mette a disposizione una sala. Riserviamo questo pomeriggio a donne e bambini”, spiega Mariam, una cascata di ricci, sempre di corsa.

È lei la responsabile del progetto. Di origine marocchina, si rivolge in arabo alle donne esclamando continuamente
ya banat!!“. Dopo una doccia, la distribuzione dei vestiti e un caffè caldo, le giovani risalgono sul camioncino per tornare nella giungla. L’espressione dei loro volti cambia.

“Questa notte i bambini dormiranno ancora all’aperto», si lamenta Abel. Per fortuna Nadine, cittadina di Calais e volontaria indipendente, ha una soluzione: “Ospiterò alcune ragazze e i bambini. Capita spesso: io e mio marito mettiamo a disposizione il nostro divano. Raramente il posto resta vuoto. In pensione, volevamo partire per il mondo in
missione umanitaria. Ma il mondo è arrivato da noi. Ci siamo resi conto che c’era bisogno qui, a casa nostra, a Calais. Per fortuna, alcuni cittadini si stanno mobilitando.”

Nana, come la chiamano i bambini, apre le porte al mondo. Calais, a un anno dalla fine della Giungla, le chiude.

“La situazione a Calais è catastrofica per tutti. Ma donne e bambini sono particolarmente vulnerabili. Non sono molti, ma non si può ignorare la loro presenza”, spiega Aline, giovane dipendente dell’associazione La Vie Active. “Prima, nella Giungla di Calais, lavoravo alla Maison des Femmes (Casa delle donne) del centro Jules Ferry, una struttura che forniva assistenza alle donne giorno e notte. All’inizio i posti letto erano cinquanta. La lista d’attesa, sempre più lunga. Così abbiamo chiesto al governo di ingrandire il centro: siamo arrivati ad accogliere 400 persone tra donne e bambini. La prima iniziativa di questo tipo in Francia. Poi ad ottobre il centro ha chiuso. Ma molte donne sono tornate a Calais. Conosco la maggior parte delle ragazze che sono qui oggi. Non c’è più alcun rifugio per loro”.

Creata nell’aprile 2015 su iniziativa dello stato francese, gestita dall’associazione La Vie Active, la Maison des Femmes del centro Jules Ferry non esiste più. Oggi è ancora in piedi, ma all’abbandono. I cancelli restano chiusi dallo smantellamento della Giungla.

“Nessun tipo di aiuto del governo, nessuna struttura alternativa. I centri d’accoglienza sono lontani. Sono le associazioni ed alcuni cittadini ad occuparsi di donne e dei bambini. Ma non è sufficiente”, spiega Aline de La Vie Active.

Per strada, i rischi che corrono sono molti. I più vulnerabili sono esposti alle violenze tra comunità e della polizia, come a violenze sessuali. Esistono casi di prostituzione, come già accadeva nella Giungla di Calais. Alcune ragazze, spesso minorenni, vendono il proprio corpo per potersi pagare il viaggio verso l’Inghilterra. Un soggetto ancora tabou tra le donne. Nessuna ha voglia di parlarne.

Tra le tante associazioni che assistono quotidianamente i migranti di Calais, la presenza di Ginecologi Senza Frontiere (GSF) è dunque fondamentale.

“Il nostro compito è proprio quello di portare assistenza a donne e bambini. Ma purtroppo il nostro rifugio ci permette di accogliere dalle 3 alle 6 persone per periodi brevi, due o tre notti. Il centro è costantemente pieno, le domande sono sempre di più”, spiega Alexandra Duthe, volontaria presso GSF a Calais da novembre 2015.

“Donne e bambini rischiano moltissimo. Violenze sessuali, prostituzione, ma non solo. Le condizioni igieniche in cui vivono i migranti oggi sono insostenibili. Non avere accesso alla doccia è un problema. Avere il ciclo, per una donna che vive in tali condizioni, è un incubo”.

GSF ed altre undici associazioni hanno fatto ricorso al Consiglio di Amministrazione di Lille richiedendo, tra tante, anche l’apertura di strutture d’accoglienza a Calais.

“Lo chiediamo ininterrottamente dalla chiusura della Maison des Femmes“, spiega Alexandra. Per ora, ancora nulla. Lo Stato si è limitato a concedere sei ore di acqua potabile al giorno (dalle 10 alle 13 e dalle 16.30 alle 18.30), affidando l’installazione di rubinetti mobili all’associazione La Vie Active.

Il Ministro dell’Intero ha promesso l’installazione di docce mobili.

Così, lasciandosi alle spalle le ultime villette bianche di una città fortificata col filo spinato, girato l’angolo, là dove cresceva la più grande bidonville d’Europa, sopravvivono oggi centinaia volti. Centinaia di storie dure, di sguardi stanchi ed occhi persi. Con loro, sotto i ponti, tra gli alberi, sulla terra nuda, le responsabilità dell’Europa.