Una lettera sulla Catalogna

Le vicende catalane stabnno suscitando dibattito, ampio, e prese di posizione, nette, a volte anche contrasti. Perché il caso catalano non riguarda solo le ragioni di una richiesta di indipendenza, ma pongono in discussione diversi punti del convivere in maniera tremendamente interessante.

A Q Code il ‘titolare’ sulla vicenda, come sapete, è Andrea Geniola con i suoi Quaderni catalani.
Ma qui, a Q Code, abbiamo sempre difeso la possibilità di ospitare interventi di segno diverso dalla nostra linea editoriale, nel nome del gusto del conflitto. Marcello Sacco è il nostro ‘titolare’ in campo sul Portogallo. Ha preso carta e penna, per amore di polemica e di dibattito e ci ha scritto questa lettera, che pubblichiamo. Buona lettura

(a.m. e c.e.)

 

 

Cari Angelo e Christian,

 

di solito scrivo per QCodeMag da Lisbona, quindi comincerei a parlare di Catalogna parlando anche stavolta di Portogallo. Il 1º ottobre scorso, mentre centinaia di catalani finivano sugli schermi di tutto il mondo con i volti insanguinati dai manganelli della Guardia Civil, sulla costa ovest della penisola iberica si svolgevano pacifiche elezioni amministrative. Il risultato di questo voto potrebbe assumere un significato politico particolare, di cui dirò alla fine. Per ora mi importa sottolineare che sono elezioni a cui ormai partecipano regolarmente, sia come elettori che come candidati, tantissimi residenti stranieri. Cittadini nati in un qualsiasi angolo del continente eleggono il sindaco del borgo dove hanno scelto di vivere.

 

In Catalogna l’indipendentismo oltranzista è un movimento che va in senso contrario: erige un muro. Nel pieno della tensione tra Guardia Civil e cittadini ho ripensato alla famosa poesia di Pasolini sugli scontri di Valle Giulia, ma non al solito brano, un po’ sopravvalutato, sugli studenti figli di papà e i poliziotti figli di operai. Mi è tornato in mente il passo in cui agli studenti Pasolini dice: «Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi/ quelli delle televisioni)/ vi leccano (come credo ancora si dica nel linguaggio/ delle Università) il culo». Ecco, mi pare che i giornalisti e i lettori più bravi a deprecare i muri quando li costruisce Trump o Israele stavolta si siano vagamente innamorati del muro catalano o, sicuramente, non ne hanno colto tutto il potenziale pericolo.

 

Tralascerei volentieri le radici storico-culturali che alimentano i vari nazionalismi iberici. Radici e identità, se non uccidono e si limitano a fare folclore, possiamo tollerarle. Eppure tutti noi, sempre pronti a deprecare le derive identitarie nel mondo, davanti a Barcellona balbettiamo come al cospetto di una bella donna e, di nascosto, ci sfiliamo la fede nuziale dal dito. La Diada – festività che ricorda la resa della capitale catalana l’11 settembre 1714 – è una data come un’altra, se non la si usa per scatenare altre guerre. Il calendario ha bisogno di pause cadenzate: la Spagna intera commemora l’arrivo di Colombo in America (12 ottobre 1492) e tutti (credenti o no) celebriamo addirittura l’immacolata concezione di Maria! Un giorno, quando la presenza di altre religioni e culture in Europa sarà più massiccia, le feste verranno sorteggiate annualmente a gennaio. I catalani, però, che potevano scegliersi una data più viva e vicina, per esempio legata alla liberazione dal franchismo, hanno scelto di ricordare, in chiave sottilmente antiborbonica, una guerra remota in cui a contendersi il trono di Madrid c’erano un francese e un austriaco, sdoganandola come lotta di popolo. Sono antiborbonici, ma somigliano ai nostri neoborbonici, che già rispolverano la presa di Gaeta e l’esilio dell’ultimo re di Napoli.

 

Questo e altro mi ha sempre fatto pensare, ben prima della crisi attuale, che il catalanismo fosse razzialista, perché nelle pieghe del suo ragionamento e dei suoi rituali dipinge il franchismo come una dittatura etnica, una roba tipo tutsi contro hutu, offendendo tutti i castigliani caduti nella lotta al fascismo. Questa autorappresentazione è una fantasia ottocentesca rimossa nei lunghi anni di dittatura e tornata a galla in democrazia con tutto l’astio nevrotico di una rimozione andata male. E oggi si ritrova sovvenzionata dal sistema che vitupera, grazie al denaro pubblico di scuole, associazioni culturali milionarie come Òmnium Cultural e ANC (attivissime nel processo d’indipendenza) e il jet set delle televisioni locali, sorta di berlusconismo di stato al servizio dell’identità post-veritiera. Insomma, i catalani preferiscono considerarsi non ancora liberi dal fascismo per poter continuare a reclamare diritti di cui hanno ormai raschiato il fondo del barile. Atteggiamenti che a me leccese, forse in un impeto di “identità salentina”, richiamano quella frase in Nostra Signora dei Turchi, film otrantino di Carmelo Bene: “Ti ci vorrebbe intorno una barbarie. Fortune che non capitano più”.

 

Perché, lo sappiamo benissimo, in Catalogna non c’è nessun barbaro oppressore. C’è anzi un pluralismo linguistico impensabile, per esempio, in Corsica. Forse non tutti sanno che, se aprite un bar sulla Rambla e ci scrivete “lunedì chiuso” solo in castigliano, viene un poliziotto a multarvi per aver violato il diritto dei catalani a essere informati nella loro lingua. E a proposito di polizia, esiste un corpo locale ormai celebre (i Mossos) che, l’abbiamo visto, non risponde al Ministero degli interni. Qualcosa del genere fu vagheggiato dai leghisti dei “bei tempi” (“Guardia Padana” si sarebbe dovuta chiamare). Subirono un’inchiesta della magistratura veneta e una perquisizione della Digos durante la quale Roberto Maroni fu malmenato. Alzi la mano chi all’epoca non ridacchiò (anche perché l’Italia è sempre un film di Monicelli: Bobo, steso al suolo, azzannò la caviglia di un poliziotto e fu poi condannato per resistenza a pubblico ufficiale).

Ma uno dei mantra che sento ripetere più spesso è proprio questo luogo comune che Flaubert è morto troppo presto per poter inserire nel suo famoso dizionarietto delle idee precotte: catalanismo e leghismo sono due cose diverse. L’affermazione ha una sua ovvia evidenza. C’è una bibliografia sterminata sulle differenze tra i fascismi italiano, tedesco, spagnolo, portoghese, rumeno, ed è giusto che se ne scriva e se ne parli. Eppure quanto fascismo si annida nei bizantinismi di chi si sforza di dimostrare come eravamo diversi, meno aggressivi, più brava gente? Il pedigree antifranchista dei catalanisti del passato, quelli che subirono il carcere o l’esilio, non può essere un marchio di garanzia a vita per i golpisti di oggi mascherati da referendari.

Se la recente crisi economica ha spinto gli analisti a parlare di “analfabetismo finanziario” (molti hanno firmato incoscientemente carte con cui poi le banche li hanno strangolati), la crisi catalana dovrebbe farci riflettere sul nostro analfabetismo giuridico e democratico. Quello di Puigdemont è stato un vero colpo di staterello fatto durante l’Aventino delle opposizioni, che si sono rifiutate di assistere all’approvazione farsesca di una legge incostituzionale. La dichiarazione unilaterale d’indipendenza è impossibile nel quadro costituzionale di una democrazia; e l’idea di regole basilari condivise, val la pena ricordarlo, è la stessa che impedisce e impedirà a un qualunque sindaco a caccia di consensi di chiudere moschee o istituire la legge del taglione per gli zingari. È bello stare sempre dalla parte del debole; a chi possono piacere le immagini del 1º ottobre scorso con nonni, padri e ragazzi strattonati o picchiati? Tuttavia, se ribellioni referendarie del genere non si ripeteranno altrove in difesa di altre identità che ci piacciono meno lo dovremo all’attuale costituzionalismo intransigente di Madrid.

Quando, in Portogallo, il giudice dichiarava incostituzionali certe misure economiche varate dal vecchio governo, di fatto commissariato dalla troika, quelle decisioni venivano salutate dappertutto come baluardi d’indipendenza di fronte all’ingerenza straniera. E invece, con mio enorme stupore, stavolta ho visto giudici costituzionali cadere, nella top ten social, molti punti al di sotto di un comunicato stampa del Barça o un’intervista a Pep Guardiola. Anni e anni di dibattiti sull’uso subdolo (quando lo usava Berlusconi) del calcio per creare consenso venivano subito fatti rientrare negli spogliatoi. Anzi, se questa secessione non si farà, forse lo dovremo solo al fatto che non si saprebbe con chi far giocare il Barça, se non nel girone degli oratori di Tarragona.

 

Per fortuna Puigdemont, dopo il duro discorso di Filippo VI, si è lamentato che il re non abbia aperto nessuna finestra al dialogo. Abbiamo così appreso che voleva dialogare. Poi però, con la dichiarazione di martedì scorso, ha di fatto aggiunto che vuole dialogare da capo di Stato estero. Al di là del doppio salto carpiato di chi tradisce la Costituzione e poi tradisce la sua stessa legge incostituzionale dichiarandola sospesa, proviamo a vedere quali sarebbero le reali possibilità di questo dialogo oggi. In una regione ad altissimo tasso di autonomia, non resta che ridiscutere il sistema tributario. Finalmente accantoniamo l’idea di nazione di stampo mazziniano e passiamo al più marxista money talks.

Il nuovo Statuto autonomistico approvato con il referendum del 2006 si è visto cancellare pochi anni dopo, dai soliti giudici costituzionali, qualche frasetta in una dozzina di articoli. Molti citano la sentenza come l’ennesimo affronto al popolo catalano, motivo dell’attuale livello insurrezionale. Ebbene, almeno un paio di ritocchi della Corte riguardavano prosaicamente i soldi. L’art. 206 stabiliva che le risorse finanziarie di cui dispone la Generalitat avrebbero potuto essere adattate alle necessità di finanziare le altre regioni di Spagna, per garantire dappertutto gli stessi livelli nei servizi essenziali di istruzione, sanità e quant’altro. “Sempre che (le altre comunità) realizzino uno sforzo fiscale simile”, aveva aggiunto il legislatore catalano. Ma la frase fu cassata, così come fu cancellato il passo che dava “capacità legislativa per stabilire e regolare i contributi propri dei governi locali”.

Cioè considerando che il tribunale si espresse su ricorso del Partito popolare, che la sentenza portò in piazza migliaia di catalani indignati al grido “ci rubano 60 milioni al giorno” e che la sinistra seguì il corteo dietro l’allora presidente della Generalitat, Artur Mas, dobbiamo tenerci forte e rassegnarci a un’idea perturbante, da ricordare nelle future (psico)analisi delle sconfitte elettorali a sinistra: il principio di solidarietà fra regioni con livelli di sviluppo disuguali, lo stesso che regola nazioni come l’Italia (dove ancora esiste una “questione meridionale”) e che stiamo cercando faticosamente di far passare anche nella UE, in Spagna è difeso dal partito di Rajoy e da quei borghesucci dei Ciudadanos, guidati nel Parlament catalano da colei che, se non ci fossimo innamorati di quegli altri, avremmo ribattezzato la “pasionaria”, Inés Arrimadas. Una che semplicemente dice: non voglio che i miei genitori vengano a visitarmi da stranieri. Frase che a Padova suonerebbe di sinistra e a Barcellona, chissà perché, è di destra.

Se la questione catalana non sfocia nel sangue – che potrebbe scorrere in molti modi, anche senza arrivare ai tristi livelli di Sarajevo (El Mundo riportava giorni fa che la soluzione dell’indipendenza sospesa è stata dietro le quinte ribattezzata “slovena”) – potrà solo approdare, dunque, in un nuovo accordo fiscale. È ciò che probabilmente vogliono molti pokeristi della Generalitat. Ossia mantenere la Catalogna in Europa con tutti i vantaggi della member card: l’euro, la libera circolazione di beni e capitali, le multinazionali che non scappano (ma le banche stanno già traslocando), la giusta o ingiusta dose di turisti e burocrati europei (anche se la candidatura a sede di Agenzia Europea del Farmaco, in fuga da Londra causa Brexit, mi sa che con tutto ‘sto casino se la son giocata)… Poi, una volta salvaguardati i distinguo fiscali che laggiù chiamano identità culturali, lasciare le rogne con Bruxelles alla capitale, la mamma di cui i politici catalani avranno sempre bisogno per tenere a bada i molestatori e a cui dare la colpa in caso di malcontento regionale. Alla prossima crisi nell’Eurozona, però, uno dei paesi più grossi dell’Europa mediterranea sarà anche il meno credibile nel convincere Angela Merkel che il debito dei paesi mediterranei deve pagarlo l’elettore tedesco (il quale ha già trovato la sua Alternative für Deuschland). Il bello è che tutto ciò avviene grazie all’ambiguità di Podemos e persino col sostegno di coalizione della sinistra anticapitalista catalana. E qui concludo tornando in Portogallo.

A Lisbona l’attuale governo minoritario dei socialisti è reso possibile dal sostegno parlamentare di comunisti, verdi e blocco delle sinistre. Queste sinistre portoghesi, piegandosi al bisogno di svolta rispetto alle precedenti politiche di austerità, hanno preso una decisione minimalista ma coraggiosa, perché nella dinamica parlamentare è normale che questa strategia porti allori (e voti) al premier. Infatti le amministrative del 1º ottobre scorso sono andate maluccio per loro e benissimo per il Partito socialista. In Spagna, invece, Rajoy è ancora lì perché le sinistre non sono riuscite a fare blocco. Ma proprio i più radicali si sono alleati con i figlioletti neoliberisti di Jordi Pujol, uno che ha solo subito la dittatura castigliana e con le scelte politico-economiche degli ultimi 40 anni non c’entra nulla, pobret! Tutto in nome di una rivoluzione di ben più ampio respiro, sia pur transennata nel perimetro catalano.

Una “liberazione” è certo più entusiasmante della difesa piccolo borghese di stipendiucci e pensioncine. Sicuramente, pur essendo a ottobre, i compagni della CUP devono essersi sentiti, almeno fino a qualche giorno fa, in piena rivoluzione di febbraio: mandiamo avanti i menscevichi e poi prendiamo il Palazzo d’Inverno per realizzare l’utopia che sconvolgerà il mondo. Oggi forse già sospettano che faranno invece la fine del POUM nel ‘36/‘39, anche se (si spera!) solo in senso figurato. Le prossime alleanze li spazzeranno via e alla fine resterà solo un Paese che cammina zoppo sull’orlo del baratro. Se tutto va bene, qualcuno di loro continuerà a ricevere uno stipendio da consigliere regionale e a maturare una pensione. Magari un giorno verrà a godersela qui a Lisbona, ma non perché la legge portoghese detassa le pensioni agli stranieri. Solo per sentire il sapore tardivo della libertà lontano dal giogo fascista del fisco spagnolo.