Tre riflessioni sull’abusivismo edilizio
di Francesco Chiodelli
Ciclicamente, in Italia, si torna a parlare di abusivismo edilizio, con una certa tendenza farlo però in maniera spesso raffazzonata e approssimativa. La politica nostrana, naturalmente, è capofila di questo pressappochismo. Paiono perciò utili almeno (tre) brevi precisazioni, presentate a grana grossa per questioni di brevità.
La prima è che in Italia non esiste abusivismo di necessità. La seconda è che non si abbattono le abitazioni abusive per mere convenienze e connivenze politiche. La terza è che il principale promotore dell’abusivismo edilizio è stato (ed è tuttora) lo Stato.
Prima precisazione: in Italia non esiste abusivismo di necessità
Si parla spesso, in modo piuttosto manicheo, di due tipi di abusivismo quasi contrapposti. Il primo è il cosiddetto “abusivismo di necessità”. Si costruirebbe illegalmente perché non vi sarebbe altro modo di assicurarsi un tetto sulla testa. Il corollario di questa etichetta è che si tratterebbe di un abusivismo scusabile e tollerabile – che, sembra intendersi, lo Stato potrebbe anche astenersi dal reprimere. Questo è, per esempio, quando non troppo velatamente sotteso a una proposta di legge in discussione prima dell’estate (il cosiddetto Decreto Falanga). Il secondo è il cosiddetto “abusivismo di speculazione”: in parole povere, si costruisce illegalmente per guadagnarci (o risparmiare). Secondo molti, sarebbe quest’ultimo la vera piaga del paese, quello contro il quale indirizzare l’azione repressiva dello Stato.
Ora, se questa distinzione è vera a livello teorico, bisogna accettare il fatto che, nella grande maggioranza dei casi reali, l’abusivismo in Italia non è di necessità.