di Laura Filios
Ci sono voluti chilometri prima di arrivare a quel cartello, limite tra cosa ci si aspetta e come stanno le cose. Anni in cui la voglia di vederla è stata alimentata, ma anche artatamente rimandata.
I miti sono pericolosi, c’è sempre la realtà che può sconfessarli. Poi, complice l’algoritmo di un contorto navigatore, Sarajevo è comparsa dietro una curva, in un giorno di un viaggio che alla fine andava fatto. Senza neanche più ricordare bene da quali libri, film e racconti, provenissero gli stralci di immagini e le sensazioni vaghe con cui si era composta “la mia Sarajevo”.
Balcani era l’altra parola del sogno ricorrente. “Viaggio nei Balcani” è diventato l’epiteto altisonante di un itinerario stipato in due settimane di vacanze che, di tappa in tappa, ha preso forma.
Prima di Sarajevo ci sono state Trieste, Lubiana, Zagabria. Intermezzi in Slovenia e in Croazia. Quattro lingue, tre monete, croci monumentali, minareti svettanti, svariate frontiere. E poi confini nei confini. Un continuo entrare e uscire dalla Federazione di Bosnia ed Erzegovina e dalla Repubblica Serba di Bosnia. Due entità amministrative, uno stato. Così hanno deciso nel 1995 a Dayton, in Ohio, Stati Uniti.
Sarajevo è diventata la città simbolo di una guerra che si sarebbe potuta evitare, in cui le confessioni religiose sono state usate come pretesto per farla scoppiare.
Una guerra in cui parole che si pensavano archiviate, come genocidi, deportazioni e campi di concentramento, sono tornate più vivide che mai. In cui le responsabilità si sono accavallate a tal punto che la linea di confine tra bene e male, già sottile in ogni conflitto, qui è stata definitivamente spazzata via con il massacro di Srebrenica.
Oggi per le vie di Sarajevo è facile incontrare i testimoni anonimi delle atrocità di quel conflitto, che si è combattuto a 500 km in linea d’aria dall’Italia. All’epoca molti erano bambini, ragazzini. Oggi sono miei coetanei, lavorano, hanno una famiglia. Le loro cicatrici non sono visibili come quelle che segnano tuttora i muri di molti palazzi. Fori di proiettile, tracce di granate, di cui i turisti vanno a caccia col naso all’insù come si fa con i monumenti nelle città d’arte.
Lo chiamano “war tourism”, una nuova frontiera del turismo “alternativo”. Luoghi simbolo della guerra trasformati in attrazioni.
Come il tunnel, costruito per dare respiro a una Sarajevo strozzata dalle forze serbe nel più lungo assedio della storia moderna e contemporanea. È durato dall’aprile del 1992 al febbraio del 1996.
Io, in quegli anni, ho fatto in tempo a finire le scuole elementari e iniziare le medie. Anche il tunnel era lungo: 700 metri scavati sotto l’area neutrale dell’aeroporto, a pochi passi dalla linea del fronte, con pale, picconi, le mani e le unghie.
Oggi se ne possono percorrere circa una ventina di metri, giusto per sentire l’accenno di claustrofobia che doveva provocare in chi lo attraversava in cerca di una via di fuga. Ci arrivano taxi, navette, un continuo via vai di stranieri increduli, una foto dietro l’altra, che tutto questo sia potuto succedere, vent’anni fa, al confine più prossimo con l’Europa.
“Turismo di guerra”, un ossimoro che raggiunge il suo apice kitsch nei souvenir fatti con i finti proiettili: carri armati, penne, cornici, posaceneri. I “turisti di guerra” li guardano con occhi languidi.
Sono esposti in bella mostra nei negozietti della Bascarsija, dove il profumo appiccicoso di cevapcici e narghilè, aroma inconfondibile delle città arabe, è più eloquente di un qualsiasi cartello di benvenuto. L’antico quartiere ottomano è sopravvissuto agli imperi, al socialismo, al nazionalismo. Si dirama a est lungo Ulica Saraci.
Alla fine della via principale, verso ovest, inizia Ulica Ferhadija. Nel punto esatto in cui le due strade si toccano, impressa nell’asfalto c’è una frase: “Sarajevo Meeting of Cultures”.
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La scritta sulla strada è il motto di una ong fondata nel 2012, che lavora per sviluppare un’altra forma di turismo “alternativo”, “culturale”, che metta insieme luoghi, eventi e storie che restituiscano un’idea della città più vicina alla realtà.
La “mia Sarajevo” è diventata un viaggio spaziotemporale lungo i binari del tram numero 3. Una linea, più o meno retta, attorno alla quale coesistono sostrati di storia e di fedi, dall’epoca ottomana a quella asburgica, da quella socialista fino agli anni Novanta.
Alla Bascarsija, il bazar, caotico per antonomasia, la moschea di Gazi Husrev-Beg e il museo ebraico. Verso la Miljacka, il fiume che taglia in due la città, la Vijecnica, edificio austrungarico sede della biblioteca tristemente nota per l’incendio del 1992. Più avanti il Ponte Latino, quello dell’incontro fatale per l’arciduca Francesco Ferdinando con Gavrilo Princip.
Proseguendo su Mula Mustafa Baseskija, a destra e a sinistra simboli religiosi e luoghi della memoria: l’antica chiesa ortodossa, qualche via più su il War Childhood Museum, che racconta la guerra attraverso gli occhi dei bambini, a sinistra la Galleria 11 luglio 1995 sul massacro di Srebrenica. Poi la Cattedrale cattolica del Sacro Cuore, il coloratissimo mercato comunale, il Museo dei Crimini contro l’Umanità.
Il tram avanza, Mula Mustafa Baseskija diventa Marsala Tita, la strada intitolata a lui, Jozip Broz Tito. Qui, ai nuovi centri commerciali si alternano edifici decadenti in stile socialista, insegne del McDonald’s, minareti in lontananza, palazzi governativi e il Veliki Park. Lì dove giocano i bambini c’è un monumento dedicato ai bambini vittime dell’assedio. Verso la fine della strada altri centri commerciali scintillanti, a destra uno finanziato dagli americani, a sinistra uno sponsorizzato da alcuni paesi del Golfo.
Ormai in Ulica Zmaja od Bosne (Strada del dragone di Bosnia), prima dell’ambasciata americana, grande quanto un campo da calcio, l’Holiday Inn, “l’albergo dei giornalisti” durante l’ultima guerra.
Di fronte, il Museo Museo Nazionale della Bosnia-Herzegovina dove è custodito il più antico documento sefardita del mondo. Era qui che mi voleva portare S., fin dall’inizio, fin da quando, per accompagnarmi a vedere la moschea di Gazi Husrev-Beg, ci è entrato per la prima volta. Quando siamo arrivati, alle due di un torrido sabato pomeriggio, il custode aveva appena sbarrato l’ingresso. A fare da contraltare al mio malcelato sollievo, la sua profonda delusione. Per S. è inconcepibile che un museo pubblico faccia l’orario ridotto in uno dei periodi di maggiore afflusso turistico.
È stata tutta colpa del borek che ci siamo mangiati in un bugigattolo nella zona dei palazzi della politica. Seduti a un tavolino, vicino al forno a legna che faceva a gara con il sole a chi scaldava di più, mi ha raccontato che lui lavorava lì vicino. Niente moglie, niente figli. Gli piaceva insegnare storia all’università, gli piaceva il suo lavoro da diplomatico. In ufficio ci rimaneva, spesso anche fino a notte inoltrata. La luce del suo ufficio era sempre accesa, mi dice, mentre tira fuori da una cartelletta gli appunti che ha preso per organizzare la mia visita. Il suo lavoro era la sua vita. Da Sarajevo se n’è andato appena prima che scoppiasse la guerra, è volato a Parigi, il suo professore lo voleva come assistente.
È stato davanti a quel borek che S. mi ha fatto entrare nella sua quotidianità. Lui a Sarajevo non ci viene quasi mai, vive in un sobborgo a 40 minuti di tram dal centro, vicino alla fonte della Bosna dove ha un piccolo appezzamento di terra che era dei suoi genitori.
L’unico motivo che lo trattiene dal cambiare vita, in un altro paese, in un altro continente. Sa tutto di questa città, della sua storia, ma solo fino agli anni ’90. Poi è come se si sia chiuso nel suo bucolico giardino. Per lui dice – «non c’è posto qua», se vuole continuare a insegnare – gli anno detto – deve andare a Banja Luka, capitale della Repubblica Serba di Bosnia. S. è polemico, io cerco di mediare tra il suo sentirsi emarginato e tutto quello che ho visto camminando insieme a lui su e giù per la città.
Sul taxi verso il tunnel, mi confessa che lui non l’ha mai visto. Ma «mi accompagna volentieri». Il viaggio prosegue in silenzio, a finestrini abbassati e musica balcanica a tutto volume, fino all’aeroporto.
Palazzi sbrecciati, case popolari vecchie e nuove, la sede della televisione di stato in un fatiscente edificio dell’epoca di Tito e alberghi costruiti da poco nel nulla, per ora. All’ingresso della casa, trasformato in un insolito museo di guerra, S. si ferma a salutare una persona, calorosamente, chiacchierano, si scambiano il numero di telefono. «Era l’imam della moschea quando io insegnavo all’università. Non lo vedevo da prima che partissi per Parigi». È stato lì, in quel preciso momento, che ho capito che dovevo smettere di voler capire, schematizzare, dividere e unire.
Chi va in cerca dei segni della guerra, si accorgerà che non è più la città dell’assedio. Sarajevo è tornata ad essere il suono delle campane, il richiamo del muezzin, il riposo dello Shabbat. Un museo chiuso alle due e un professore di storia indignato perché non mi può mostrare con orgoglio i simboli della sua patria. È un vociare in arabo, serbo e croato, più tutte le lingue di chi la visita. È veli e minigonne, birra e rakia o caffè turco e narghilè. Tutto insieme e separatamente. “La mia Sarajevo” è quel borek, il più buono che abbia mai mangiato. Adesso so quale sarà la prima tappa che farò la prossima volta che andrò a Sarajevo.