La lotta di classe esiste e il libro Non è lavoro, è sfruttamento dell’economista Marta Fana offre un catalogo dettagliato e informato dello sfruttamento contemporaneo.
Di Clara Capelli
“Io non ho tradito, io mi sento tradito”, sono le parole di congedo dalla vita del trentenne precario Michele, suicida all’inizio di quest’anno, ad aprire il libro di Marta Fana Non è lavoro, è sfruttamento. Una scelta forte, che porta la vicenda di un lavoratore oltre il pietismo social e il sensazionalismo che si infiamma e si spegne nel giro di pochi giorni, inquadrandolo in una dinamica politica molto più ampia.
“Di precariato si muore” esordisce nel prologo l’economista Fana, offrendo nelle successive 160 pagine un’analisi dettagliata del mercato del lavoro italiano all’ombra di una crisi strutturale iniziata ben prima delle crisi finanziaria del 2007-2008.
Si muore suicidi come Michele, per una precarietà di lavori scarsi e malpagati che esacerba intime ferite e vulnerabilità. Si muore come il cinquantenne egiziano Abd Essalam, lavoratore del settore della logistica, investito durante un presidio. Si muore come tanti lavoratori senza nome deceduti sul posto di lavoro, perché su certi di tipi di “sicurezza” risparmiare non è un problema.
Si muore socialmente, in un mondo del lavoro sempre più frammentato, fatto di orari massacranti, paghe sotto la soglia della sopravvivenza sociale, partite IVA e precari scollati dai processi produttivi; un mondo che mina gli spiriti individuali, ma anche la coscienza di appartenere a una comunità, rendendo quindi estremamente difficile la costruzione di un progetto collettivo e alternativo alla situazione presente.
Marta Fana, oltre a un’impressionante padronanza di dati e indicatori in tema di lavoro – molti la conoscono infatti per i suoi ottimi studi, anche divulgativi, sugli effetti del Jobs Act -, ha il coraggio di rimettere sul tavolo del dibattito temi considerati vetusti se non addirittura scomodi come quello di “lotta di classe”.
Nel libro si parla ampiamente di “classe”: con buona pace delle narrative dominanti, non esistiamo infatti solo come consumatori, ma anche – e soprattutto, come sostengono Fana e chi ne condivide le posizioni politico-economiche – come lavoratori. Agli operai Lulù e Militina di La Classe Operaia Va in Paradiso si sono sostituiti il fattorino di Foodora, la commessa di Zara – magari affiancata dallo studente di Alternanza Scuola-Lavoro – o le Marta di Tutta la vita davanti, con la speranza che il loro impiego non venga delocalizzato altrove.
Cottimo, voucher, eterni purgatori di stage, contratti senza garanzie. Mentre si viene bastonati con la retorica del merito e dei giovani choosy e dei lavoratori sovratutelati da garanzie troppo costose, la situazione descritta dettagliatamente dall’autrice mostra un quadro diverso, una situazione in cui il contributo alla produzione dato dalla classe lavoratrice non corrisponde alle retribuzioni e alle condizioni di gran parte dei suoi membri.
Perché se la distribuzione della torta fra salari e profitti non è una questione tecnica né di merito, come l’economia mainstream teorizza, allora è una questione di sociale e di potere. Chi è più forte prevale in questo conflitto e prende la fetta più grossa. Facendo credere che ciò derivi dalle “naturali” leggi del mercato.
“La lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi” dice il miliardario statunitense Warren Buffet.
Fana riesce molto bene a mostrare i tanti volti di questa sconfitta, oltre a orientare doverosamente l’attenzione sulle conseguenze che questo progressivo impoverimento dei lavoratori e l’approfondimento della frattura tra privilegio e sfruttamento avranno sull’economia italiana e mondiale nel lungo periodo. Si tratta di implicazioni assai preoccupanti perché legate a doppio filo a ingiustizie pervasivamente distribuite su tutto il tessuto economico, anche nel settore pubblico tipicamente oggetto di stereotipi e risentimento e facile argomento da agitare per giustificare politiche per la flessibilità che, come giustamente osserva l’autrice, sono tutt’altro che neutre.
Altro elemento di forza di Non è lavoro, è sfruttamento sono le riflessioni dell’autrice sulle responsabilità della classe politica e imprenditoriale italiana.
Mentre la flessibilità del lavoro viene presentata come una scelta al passo coi tempi e doverosa rispetto alla situazione odierna, poco si dice delle scelte politiche che negli anni hanno accomodato gli interessi di grandi società (si pensi ai numerosi casi di evasione fiscale in cui è coinvolta Apple) e sdoganato in una serie di leggi, dal Pacchetto Treu al Jobs Act, la precarizzazione e le dinamiche generatrici di impoverimento e disuguaglianza, fino a inserire come motivo di vanto nella campagna di comunicazione del piano Industria 4.0 il fatto che l’Italia vanti ingegneri qualificati e fra i meno costosi d’Europa.
Tutto ciò senza dimenticare quelle imprese che, pur avendone i mezzi, risparmiano sul costo del lavoro (ridotto appunto a mera voce di costo) senza fare alcun investimento, tantomeno in innovazione, tema molto bene illustrato per esempio da Luciano Gallino in La scomparsa dell’Italia industriale.
Il lavoro di Marta Fana, una sorta di catalogo dello sfruttamento contemporaneo, è un ottimo contributo al fine di contrastare la narrazione per cui uno sciopero è più scandaloso di una delocalizzazione, un contratto con adeguate paga e tutele è irragionevole al contrario di incentivi che non si traducono in crescita e sviluppo. Una lettura informativa e importante, da affrontare con la consapevolezza che le (ri)conquiste socio-economiche necessarie a sovvertire questo stato di cose saranno lotte combattute e difficili. Ma non impossibili.
Q Code Magazine ha sin dall’inizio della sua storia avuto un particolare interesse per la questione del lavoro, a cominciare dalla rubrica (Af)fondata sul lavoro di Antonio Marafioti e Ilaria Rossetti. Vi invitiamo a rileggere le storie da loro raccolte.