Cronaca dai campi profughi in Libano, dove i siriani sono ormai una percentuale cospicua della popolazione del paese
di Valentino Casalicchio
Quaranta minuti di autobus separano la città di Tripoli dal villaggio di Tel Abbas. Il paesaggio che ti scorre davanti agli occhi è una terra ricca di ulivi centenari che confinano con il mare che unisce popoli e terre: il Mediterraneo.
Siamo nell’Akkar, una delle regioni più povere del Libano, al confine con la Siria. Qui vivono migliaia di rifugiati, scappati dal Paese confinante in cerca di una vita senza guerra. Non partono sperando di trovare “l’America”, perche sanno bene che il Libano non lo è.
Il Paese dei Cedri ospita quasi due milioni di rifugiati, fra siriani e palestinesi, ma anche iracheni, sudanesi e yemeniti: il cuscinetto di tutte le guerre in Medio Oriente.
All’incrocio dove veniamo lasciati dall’autobus c’è una calma apparente, l’autista ci indica la strada, raccomandandosi di fare attenzione perché a soli 4 chilometri c’è il confine siriano.
Dopo qualche centinaia di metri raggiungiamo il campo profughi dove lavora Operazione Colomba. Veniamo subito accolti dentro una tenda, il thé aiuta a metterci a nostro agio, mentre Alessio inizia a raccontarci ciò che fanno nel campo.
“Siamo arrivati in Libano nel 2013 per vedere che cosa stava accadendo. Fu tremendo. Quando arrivammo per mettere le tende, ci dissero di no. Quando chiedemmo il perchè ci risposero – Perché non è umano vivere così -. Questa cosa ci colpì molto, perché fu come ammettere che loro non fossero persone umane come noi. Allora piazzammo comunque una tenda, e iniziammo il nostro lavoro”.
Operazione Colomba è un corpo non-violento di pace, fondato nel 1992 da alcuni volontari e obiettori di coscienza della Comunità Papa Giovanni XXIII. In Libano sono gli unici a vivere completamente dentro un campo profughi.
Perché, come ci racconta Alberto, responsabile delle attività al’interno del campo profughi di Tel Abbas, “Pensiamo che vivere con loro possa donargli un po’ di dignità. Si piange e si ride, insieme!”.
La maggior parte delle Organizzazioni che lavorano nei campi si occupano principalmente di portare servizi umanitari per i rifugiati. “Un giorno un ragazzo ci disse che quelli delle ONG si dividono in due gruppi: i bugiardi e i pazzi – ci racconta Alberto – I primi sono quelli che fanno delle promesse che poi non mantengono, i secondi sono quelli che ti portano cose che non servono.”
Ma a cosa serve viver con loro? “Li accompagniamo all’ospedale quando è necessario, paghiamo le spese mediche per i casi più gravi e cerchiamo di far pressione per farli curare, poiché in Libano l’assistenza sanitaria è a pagamento.”
Il contesto sociale del Libano, soprattutto nelle zone dei campi profughi, si è completamente trasformato. Dinamiche di micro sfruttamento sono presenti in ogni angolo: dal caporalato nei campi all’aumento spropositato dei prezzi delle case, passando per gli arresti sommari nei confronti dei rifugiati.
In questo angolo di mondo, Tel Abbas, un villaggio di un piccolo Paese, queste dinamiche logorano la vita di chi è dovuto scappare dalle zone di guerra.
Un’altra attività – forse la più importante – che fa Operazione Colomba è la pressione politica per portare un rifugiato al tavolo dei negoziati di Ginevra.
“Pensiamo sia una cosa importantissima portare la voce dei siriani che ora risiedono fuori dal loro territorio. Comunque vada la guerra, i rifugiati hanno perso. Non hanno più nulla, nemmeno il loro futuro”.
Quest’ultima è la più grande differenza che c’è con le altre organizzazioni non governative, vale a dire far pressione politica affinché si dia voce a chi non ne ha.
Il futuro per i rifugiati siriani è un’incognita e l’attesa in un campo profughi diventa tanto snervante da pensare tutti i modi per andare via. Moltissime persone sono scappate via mare, e ora che la Turchia ha chiuso le frontiere si vogliono tutti spostare sul versante libico.
Questo dà l’idea di come l’accordo UE-Turchia sia un flop. Quando si scappa dalla guerra, si cerca ogni via possibile pur di trovare condizioni di vita più umane.
Jamila, 33 anni, scappata da Homs, città siriana completamente distrutta dai bombardamenti, ci racconta l’angoscia data dall’assenza di prospettive per il futuro, che spinge i siriani a tentare grandi – ma soprattutto pericolose – imprese, “La nostra vita è finita. Io e mio marito stiamo cercando di sopravvivere per dare un futuro ai nostri figli, ma per noi ormai non c’è più nulla da fare”. Vite spezzate alla tenera età di 33 anni…
“Mia figlia Sidra non va a scuola da quattro anni, che cosa farà in futuro?”. Questo è il problema principale per i bambini siriani, una generazione che rischia di rimanere quasi analfabeta a causa di una guerra che non vuol cessare.
“Noi cerchiamo di lavorare il più possibile per sopravvivere, ma in Libano veniamo trattati come schiavi. Mio marito viene pagato 10 dollari al giorno per fare il muratore, ma spesso non lo pagano nemmeno e viene malmenato se tenta di ribellarsi”.
Con l’arrivo dei rifugiati siriani, il salario per la manodopera si è abbassato notevolmente, e alcuni libanesi ne approfittano, come spesso accade in circostanze di estrema povertà.“Noi nel nostro Paese non ci possiamo tornare, lì il regime ci ha torturati, uccisi!”
I rifugiati che sono presenti in questo campo vengono tutti da Homs, una città considerata “ribelle” dal regime di Assad.
I racconti non nascondono la rabbia nei confronti del presidente siriano, autore di torture e crimini di guerra ai danni degli oppositori.
“Siamo in Libano da tre anni – racconta Fatima – siamo scappati dopo che hanno arrestato mio marito per 5 volte. Durante la detenzione lo picchiavano e torturavano nei modi più impensabili, pensavano fosse un ribelle, ma noi eravamo una famiglia semplice che cercava di farsi la propria vita. Io facevo la parrucchiera, hanno arrestato anche me perché pensavano fossi a conoscenza di una rivolta programmata nel quartiere”.
La visita nel campo prosegue tra sorrisi e ospitalità: veniamo invitati a bere un the o un caffè in ogni tenda, conosciamo Mohammed, un ragazzo di 26 anni. Lui gestisce il “minimercato” del campo, una stanzetta dentro una tenda dove vende beni di primissima necessità come pane, farina e acqua. Con il suo negozietto mantiene la moglie, i suoi due figli, sua suocera, sua mamma, sua sorella e i suoi due bambini.
Alla sorella è mancato il marito di soli 33 anni appena dopo esser rimasta incinta del secondo bambino. In Siria conducevano una vita normale, fino a quando Mohammed non finì nella lunga lista di sospettati dal regime: arrestato, torturato e rilasciato. Un iter comune fra i rifugiati siriani, soprattutto per quelli che provengono da Homs.
“Salimmo su un bus verso il Libano. Fu difficile lasciare il nostro Paese, ma non avevamo scelta. Ora sopravviviamo in questo campo, ma vorremmo venire in Europa” afferma Mohammed.
L’Europa è una speranza, ma l’unico modo per farli venire in Europa al sicuro sono i corridoi umanitari, un’esperienza organizzata unicamente da Operazione Colomba. Il 29 febbraio 2016, 93 profughi siriani, di cui 24 nuclei famigliari, sono partiti dal Libano e sono atterrati a Roma grazie al corridoio umanitario aperto dall’Italia in risposta all’emergenza migranti.
Si tratta del primo corridoio umanitario in assoluto in Europa, che è stato possibile grazie all’intesa siglata il 15 dicembre 2015 scorso fra il Governo italiano, la Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle chiese evangeliche in Italia, la Tavola Valdese con la collaborazione dell’associazione Papa Giovanni XXIII e dei corpi civili di Pace dell’Operazione Colomba.
“I corridoi umanitari sono una risposta simbolica, anche se per noi non è così simbolico. A noi interessava che queste persone non prendessero la via del mare. È stato un valore reale, un aiuto concreto. Non penso che dopo questo esperimento gli altri Stati si muoveranno, però abbiamo provato a dare una direzione. La trattativa con il governo italiano fu difficile, all’inizio non era per niente d’accordo, non voleva neanche dare i mille visti.
Il clima politico è difficile, in Europa c’è questa retorica del ‘siamo assediati dai profughi, ne facciamo venire altri?’ Dirlo al Libano è ridicolo, visti i numeri della loro accoglienza”.
Cifre che parlano da sole, ma senza essere ascoltate. Sono 1 milione e 300 mila i rifugiati che hanno richiesto asilo in Europa (continente popolato da 724 milioni di persone) nel 2015. In Italia, nonostante sia il secondo Stato per passaggio di migranti – dopo la Grecia – sono stati accolti poco più di 150mila rifugiati, circa 138 ogni 100 mila abitanti (sotto la media europea di 260).
Nonostante gli europei pensino che il Vecchio Continente sia il primo approdo dei rifugiati, è il Medio Oriente ad ospitare il maggior numero di rifugiati al mondo (il 39% contro il 6% dell’Europa).
Ma come dice il proverbio, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Il “limbo” libanese non è vita: le condizioni igieniche del campo rendono precaria la salute delle persone, che rischiano di ammalarsi senza aver accesso alle cure.
“Non è una situazione umana!” ci ripete Alberto di Operazione Colomba, “L’obiettivo principale è fare di tutto per dargli una voce, ma non solo raccontando la loro vita, bensì provando a farli sedere al tavolo dei negoziati!”
“Ci sono sei milioni di rifugiati siriani nel mondo, circa un terzo della popolazione del Paese. Loro hanno già perso, perche non hanno una casa e i catasti sono stati distrutti, se non gli si dà voce, che cosa faranno?”. Già, che cosa faranno?