Anni terribili – atto I

Russia, cento anni di una rivoluzione

di Maria Izzo

Era l’agosto del 1921, in un giorno di cui sarebbe rimasta una lunga memoria.
In quei tempi già così duri, grigi e stravolti non era troppo prudente parlare di santi, ma Anna avrebbe ricordato ugualmente come la festa della Madonna di Smolensk quella mattina inondata dal sole d’estate e dall’incenso azzurro che si allungava sull’erba di un cimitero.

Mentre il cielo si riempiva di luce e di un canto funebre, Anna guardava passare le giovani vedove che arrivavano a frotte con i loro bambini a visitare le tombe dei padri caduti sotto i colpi di quegli anni violenti non solo nei confronti dei santi, ma anche degli uomini.

Sullo sfondo immobile del cimitero, un corteo accompagnava un uomo nei suoi ultimi tragici passi terreni.

Quell’uomo era un poeta, morto poco più che quarantenne forse di una malattia cardiaca o forse perché si era lasciato morire. Di sicuro, isolato e depresso, aveva rifiutato le cure. Le persone a lui vicine, nel tentativo di salvarlo, avevano pensato di portarlo in un ospedale nella vicina Finlandia, ma le autorità decisero di assecondare il poeta nella sua tensione al suicidio: l’autorizzazione a viaggiare all’estero venne negata.

Così se ne andava il poeta. Lo seguiva una folla attonita di scrittori e poeti e Anna era fra questi, mentre il suo lutto profondo e sommesso si faceva parola e la parola, verso:

“Noi portammo all’Ausiliatrice di Smolensk/ portammo alla santa Madre di Dio/ sulle braccia in una bara d’argento, / il nostro sole, spento nel martirio/ Aleksandr, il puro cigno. //”

Il sole che si spegne è il poeta Aleksandr Blok, Anna Achmatova è la voce che pronuncia il commiato, prestando le corde al dolore di un popolo intero unito e raccolto in quel “noi”, in un pronome che aveva un senso preciso e risuonava netto in quell’aria già densa di un comune senso di fine.

La morte del Poeta poco più che quarantenne, infatti, non era solo una questione privata, né la sua perdita toccava unicamente l’universo della scrittura: la scomparsa di Blok segnava lo spegnersi lento di una voce che ne racchiudeva altre mille, il risveglio anzitempo da un sogno febbrile di resurrezione, che in quell’agosto del 1921, fu chiaro a tutti, era definitivamente caduto.

Con il destino di Blok che si compie, si compie anche quello di un’intera generazione, figlia di quel travagliato margine fra Ottocento e Novecento, che lo stesso Blok aveva definito “anni terribili”, “forieri di follia e di speranza”.

Un’epoca accidentata come la terra di una tumultuosa frontiera rinchiusa fra l’orrore per il vecchio mondo ormai vicino allo schianto e il terrificante mistero di un futuro del quale era ancora impossibile indovinare il volto.

Su quel delicato confine la Russia si muoveva con tutto il tormento e il passo incerto di chi avanza fra ascese e cadute in perenne oscillazione fra opposti, i candidi sogni di resurrezione e le cupe visioni della fine, lo slancio dello spirito che cerca di elevarsi e la bassezza del quotidiano che lo trattiene al suolo.

Alle soglie del secolo nuovo l’Impero zarista arrivava come un gigante sfatto, piagato e pronto a cadere. Colosso inefficiente e arretrato, con circa 130 milioni di abitanti di cui l’80 percento contadini e l’1 percento nobili ereditari, ingabbiata dall’assolutismo e da un’asfittica burocrazia, la Russia sembrava un’entità vetusta nonostante la grandiosa e convulsa corsa all’industrializzazione, che avanzava rapida e selvaggia nel paese sui binari dei 16mila chilometri di strade ferrate costruiti in quattro anni.

Si moltiplicavano le attività estrattive, carbone, petrolio, metalli, cresceva rapidamente il flusso di affari e moneta sonante fra l’Impero e le grandi imprese straniere, ma quella corsa furiosa stava trascinando con sé in un vortice distruttivo interi strati di popolazione, come sempre accade, quelli più vessati e nascosti.
Umori tetri serpeggiavano ovunque.

Si diffondevano fra i contadini, che, pur essendo stati liberati dal servaggio nel 1861, pativano ancora la miseria più profonda, la mancanza di terra e l’onere infausto di dover sostenere con le proprie tasse lo sviluppo dell’industria e l’espansione della rete ferroviaria attraverso un paese dagli spazi sconfinati.

Non poteva dirsi più fortunato il proletariato operaio, che conduceva una grama esistenza fatta di povertà, duro lavoro e sfruttamento nelle città, alcune esplose quasi fino a raddoppiare con l’arrivo di ex contadini, che partivano in massa dalle languenti campagne in cerca di nuove opportunità, per ritrovarsi poi immersi in una miseria quasi peggiore di quella che si erano lasciati alle spalle.

Nei bassifondi di quegli inferni cittadini, quelli situati alla periferia dell’Impero, il malcontento operaio dialogava fittamente, spesso nella comune lingua del marxismo, con le rivendicazioni etniche delle tante minoranze dell’impero, esacerbate dalla politica russocentrica dello zar, poco tollerante nei confronti delle nazionalità che reclamavano la propria autonomia culturale, salvo poi mostrarsi incredibilmente accondiscendente verso chi le perseguitava, come nel caso degli ebrei dell’impero, vittime di un antisemitismo dilagante e di pogrom ripetuti e violenti che da Pietroburgo nessuno si preoccupava di arginare.

Decisamente, i sudditi dell’impero non avevano troppe ragioni stare allegri. Lo aveva notato anche lo zar, che decise di gratificare il popolo con quella che il ministro degli Interni, Pleve, aveva definito “una piccola guerra vittoriosa” contro il Giappone, interessato come la Russia a estendersi sui territori della Cina ormai al collasso.

Nel 1904 le due potenze iniziavano una guerra che fu per la Russia né piccola, né vittoriosa, ma si concluse, al contrario, con una disfatta pesantissima in termini di perdite umane ed economiche.

La disfatta russa fece da detonatore: i malumori sotterranei inesorabilmente si infiammarono fino a spaccare la crosta spessa dell’oppressione.

Dalla faglia che finalmente si apriva, però, sorprendentemente non emerse soltanto un girone infernale di infelici, al contrario, venne alla luce con forza la realtà di una Russia, che sotto la coltre soffocante della crisi più nera, in quel lacerante passaggio di ere, stava vivendo un periodo di grande fermento: fiorivano le arti irradiate da nuove idee e dall’attesa di una prossima apocalisse che si immaginava nel bene o nel male grandiosa, si diffondeva il marxismo, che, ancora lontano dalle deviazioni successive, aveva avvicinato intellettuali e operai e creato le fondamenta per le rivendicazioni organizzate del proletariato industriale, si gettavano fra le classi meno visibili i semi di nuove forme di rappresentanza e partecipazione, sorgevano nuovi ceti sociali e professionali, nascevano arene di discussione politica, si risvegliavano le coscienze delle nazionalità oppresse.

Anche dalle remote campagne, dove regnavano “icone e scarafaggi” e la Russia era più restia e sonnolenta, arrivavano i primi barlumi di un impegno politico che risultò decisivo: i legami che si consolidavano fra intellettuali, agitatori e contadini infatti avevano creato un ponte non solo fra le addormentate campagne e le più vivaci città, ma anche fra il vecchio mondo ormai in frantumi e quello nuovo di cui si aspettava con ansia l’arrivo.

L’attesa sembrò terminata, quando nel gennaio 1905 12.500 operai della fabbrica Putilov si fermarono proclamando uno sciopero. Le proteste della Putilov, nate da un gruppo creato inizialmente con finalità ricreative, si estesero rapidamente fra gli altri operai che si unirono organizzando un corteo per la domenica successiva, il 9 gennaio.

Guidati dal controverso pope Gapon si misero in marcia dai quartieri operai verso il Palazzo d’Inverno, per chiedere allo zar l’immediata convocazione dell’assemblea costituente, l’introduzione di tutte le libertà civili e politiche e la tutela del lavoro salariato.

Convinti della disponibilità del monarca al dialogo, portarono con sé icone e immagini della coppia imperiale. Si narra che al passaggio di questa curiosa folla molti passanti e residenti, credendo di trovarsi al cospetto di una processione religiosa, avessero tolto con deferenza il cappello. Ma i reparti armati schierati dallo zar avevano vista più lunga, idee più chiare e non esitarono ad aprire il fuoco. Destino simile spettò ad altri gruppi di manifestanti.

La terribile giornata si concluse con un numero imprecisato di morti, secondo alcune stime oltre i mille, e un’ondata di caos che non si sarebbe spento nel giro di poco.

Il 4 febbraio il governatore di Mosca, Sergej Aleksandrovič Romanov, zio dello zar, cadeva vittima di un attentato; su tutto il territorio dell’impero si moltiplicavano le rivolte, gli scioperi, le manifestazioni.

Lo zar, che evidentemente non aveva ben compreso la gravità dei fatti, esternava al ministro degli Interni Bulygin il timore di una rivoluzione. Il ministro, più realista, esclamò: “Maestà! La rivoluzione è già in atto”.

La rivoluzione, un bisbiglio sussurrato nell’ombra da studenti, operai, contadini, intellettuali, professionisti, marinai, soldati era già un grido in tutte le strade, un chiaro segnale di vita, che risuonava più in alto della voce tonante di un monarca retrivo o del vacuo chiacchiericcio di una borghesia esanime, pingue e annoiata.

Il 1905 non arrivò come un miracolo, ma fu il risultato di un’azione precisa, germinata dalle idee rivoluzionarie di attivisti e intellettuali finalmente vicini ai liberali nella comune condanna dell’autocrazia.

A loro si unirono anche quelle classi possidenti che si rifiutarono di sostenere lo zar, ma nulla di ciò che accadde in quei mesi sarebbe mai diventato realtà senza l’apporto decisivo delle classi operaie, finalmente risalite dall’abisso di oppressione nel quale l’assolutismo le aveva relegate.

Il movimento fu profondo, generoso e potente: si andava “alla rivoluzione con l’idea che fosse una questione di amore e di onore”, scriveva il poeta Osip Mandel’štam, che pure non aveva di certo l’indole del rivoluzionario, ma che, come molti artisti, scrittori, poeti contemporanei, alcuni ugualmente apolitici, rispose con meraviglioso fervore creativo alla suggestione di quei venti di tempesta che si abbattevano sul vecchio mondo.

Quest’ultimo però si rivelò più forte: la rivoluzione fu soffocata.
Tuttavia, lo zar fu costretto a concedere alcune riforme sostanziali: nacque in Russia il sistema parlamentare e venne legalizzata l’attività dei partiti.

Però, quando la marea della rivolta si abbassò, lo zar si mostrò poco incline ad accettare l’avvento del nuovo e, come se le rivolte e i disordini non l’avessero per nulla turbato, si affrettò a ordinare una rapida retroversione al vecchio, rendendo vane le modeste politiche annunciate con il Manifesto dell’ottobre 1905, ovvero un parlamento a elezione indiretta, la Duma, con poteri limitati sulla politica finanziaria e nessuno sulla politica governativa. Inoltre, nel 1906 lo zar emanava le Leggi Fondamentali che recitavano in maniera piuttosto perentoria e senza lasciare spazio alcuno ad ambiguità: “All’Imperatore di tutte le Russie appartiene il Potere Autocratico Supremo. Obbedire al Suo potere, non solo per paura ma anche in coscienza, Dio Stesso lo ordina”.

Nel frattempo le forze dell’opposizione politica allo zar si divideva e si disperdevano; nello stesso periodo si moltiplicarono i gruppi e i movimenti d’estrema destra, i pogrom antiebraici, le spedizioni punitive contro i contadini e altre misure profondamente rivelatrici delle intenzioni restauratrici dello zar, sintetizzate efficacemente nell’immagine di un arnese sinistro, la forca, ribattezzata “cravatta di Stolypin” in onore del sanguigno Primo Ministro che tante volte aveva fatto a essa ricorso.

Lo zar si riprendeva il suo soglio e la violenza si riprendeva le strade, che si ritrovarono strette fra una duplice minaccia: da un lato, dal terrorismo, ritornato a colpire per mano di chi lo riteneva l’unica via, dall’altro, la reazione uguale e contraria del pugno di ferro zarista.

Gli umori tornarono tetri, ma il 1905 aveva lasciato un segno ovunque: fra le pagine e sulle tele che invocavano l’apocalisse su quell’era guasta e triviale, fra le officine cittadine, nelle miniere di carbone e ferro, intorno ai poli industriali, dove si ammassava il proletariato nuovamente in crescita, nelle campagne dove i contadini scalpitavano insoddisfatti della riforma agraria e della cronica mancanza di terra, fra i partiti delle minoranze nazionali che non avevano abbandonato i progetti autonomistici.

Nel 1912 i lavoratori delle miniere aurifere della Lena, in Siberia, proclamarono uno sciopero. Al fuoco della rivolta l’esercito pensò bene di opporre prontamente il fuoco delle armi, provocando un massacro di centinaia di operai e un’ondata poderosa di rabbia che si estese in tutto l’impero, richiamando alla mente la funesta memoria del gennaio 1905.

Inoltre, come già accaduto nove anni prima al divampare della guerra contro il Giappone, lo scoppio della Prima Guerra Mondiale nel 1914 sembrò arrivare come la scintilla fatale dell’incendio che avrebbe incenerito l’impero.

Ma i tempi erano cambiati e la guerra scavò trincee non solo sul campo di battaglia, ma anche nella società russa che si mostrò fatalmente divisa rispetto al sostegno della causa bellica.

Fra i protagonisti del 1905 molti furono quelli che rispolverarono l’affetto per la vituperata corona nel nome del furore patriottico e decisero di sostenere il monarca e la partecipazione al conflitto, fra questi i liberali e parte dei socialisti, compresi quelli di orientamento rivoluzionario; a questi si opposero con forza quelli che invece ritenevano l’uscita dalla guerra un obiettivo prioritario e irrinunciabile, al punto tale da risultare nel loro pur nobile pacifismo paradossalmente irriducibili. Fra questi, il partito che la storia ricorderà molto a lungo, i bolscevichi.

Mentre fra i partiti si consumavano dibattiti e contrasti, però, entrò in gioco una terza forza, quella che mal si presta a disquisizioni elevate e filosofici certami, ma non per questo risulta meno autorevole e potente: la fame. Fu proprio questo il motore delle proteste e dei tumulti che si moltiplicavano fra i ceti più gravati dalle difficoltà dello sforzo bellico, ovvero i più umili. Fra questi, le soldatki, le mogli dei soldati inviati al fronte, rimaste sole a gestire le magre economie familiari, si rivelarono particolarmente ardite nell’esprimere la loro frustrazione e il rifiuto della guerra.

Sarebbero state proprio le donne, spinte dall’immancabile compagna, la Fame, ad avere un ruolo da protagoniste nelle giornate del Febbraio 1917, quando al grido “Pane! Pane!” le operaie delle fabbriche tessili del quartiere Vyborg riportarono la rivoluzione nelle strade, che si riempirono rapidamente e in maniera spontanea di folle di operai.

Grazie all’esperienza di lotta di molti lavoratori, all’attività continuata nell’ombra da piccoli gruppi rivoluzionari, le proteste furono un movimento grandioso che presentò al monarca richieste ardite, fra cui la rimozione del governo, la concessione della libertà di parola, di riunione, di organizzazione.

Quando lo zar decise di averne avuto abbastanza ordinò l’ennesima repressione nel sangue. Ma la risposta lo colse di sorpresa: non poche fra le truppe inviate a soffocare i disordini si rifiutarono di obbedire all’ordine. I massacri immancabilmente arrivarono, ma questo non mutò la sorte dello zar, che fu costretto ad abdicare il 2 marzo.

Nei giorni successivi all’insediamento di un governo provvisorio si dichiarò il suffragio universale, furono stabilite giornate lavorative di otto ore, si abolirono la pena di morte e la censura, le libertà politiche fondamentali affermate, mentre si provvedeva a mettere fine alle discriminazioni etniche e religiose.

Qualcuno cantò la vittoria del popolo e della libertà. Il poeta Pasternak, rianimato dalla speranza, scriveva “Com’era bello respirare attraverso di te a marzo”.

Ma la questione della guerra si sarebbe rivelata presto fatale: il governo provvisorio, intenzionato a proseguire il conflitto, si scontrava ben presto con il malcontento dei soldati e, ancora una volta, dei contadini. L’orizzonte si riempiva nuovamente di nubi che annunciavano l’arrivo del caos e il crollo impietoso di tutto quello che un’intera generazione aveva tentato di costruire con fatica e tormento.

Le bande di piccoli criminali che, con la complicità del disordine diffuso, nelle notti della Rivoluzione si diedero al furto e al vandalismo di quell’inferno incombente furono solo una piccola, funesta premonizione.

La musica è finita

Nel dicembre del 1917 Aleksandr Blok, Vladimir Majakovskij e Vsevolod Mejerchol’d si incontrarono allo Smol’nyj di Pietrogrado. Erano stati convocati, insieme ad altri centoventi artisti, dai bolscevichi che pochi giorni prima, alla fine di ottobre, per timore di una controrivoluzione avevano deposto il governo e preso il potere.

All’incontro con il Commissario alla Cultura e alla Formazione, Anatolij Lunačarskij si presentarono in sei, di cui solo tre con un nome già noto: sono Blok e Majakovskij, poeti, Mejerchol’d, regista.

I tre avevano avuto in comune il ruolo di protagonisti di un’era sofferta, ma per le arti fervida, visionaria, creativa, una fase quasi unica e brillante nella quale avevano combattuto a suon di bellezza lo squallore quotidiano di una crisi che si riversava nelle loro esistenze rendendole viscide, scivolose, sporche come le strade inondate dal fango autunnale.

Ora che il vecchio mondo sembrava crollato, i tre avevano ancora qualcosa in comune: è un’idea, quella dell’Ottobre liberatore, che li aveva condotti fin lì.

Majakovskij arrivava dalla Georgia e dal Caucaso, terra di cime selvagge, doveva aver ereditato la tendenza all’iperbole e alla ribellione. Nel 1906 si era trasferito a Mosca dove si era iscritto al partito bolscevico.

Erano gli anni in cui il regime zarista picchiava con il pugno di ferro, di cui Majakovskij stesso subì la violenza durante la reclusione nel carcere di Butyrki.

All’uscita dalla prigione aveva abbandonato l’attività politica nel nome dei suoi interessi artistici e si era iscritto all’Istituto di pittura, scultura e architettura. Qui il giovane Majakovskij veniva trascinato nel vortice futurista.

Si unì al gruppo dei cubofuturisti e iniziò a prendere parte a sfrontati happening in cui si mostrava volutamente provocatorio nei confronti del gusto comune e della morale dei “sazi” con la loro volgarità compiaciuta. Il suo aspetto era stravagante e fuori dagli schemi: si truccava il volto e si vestiva con una tunica gialla e un cilindro; i suoi versi erano quasi violenti, perfino blasfemi: lo sfondo era la vita di città, che nell’immaginazione del poeta diventava un universo grottesco, percorso da un moto impazzito di rumori, abitato da oggetti che prendono vita e dai detestati borghesi, i pingui, i filistei, ai quali Majakovskij si rivolgeva con un linguaggio dissonante e carico di sarcasmo.

Majakovskij a quei tempi era giovane, ma era già il simbolo di un’epoca che scalpitava verso la rivoluzione.

Ma la rivoluzione a cui Majakovskij aspirava era soprattutto estetica, era infatti convinto che, con la cultura tradizionale ormai moribonda, solo una svolta futurista potesse portare la salvezza.

“La rivoluzione del contenuto – il socialismo – l’anarchismo – è impensabile senza la rivoluzione della forma – il futurismo” sosteneva nel 1918. Majakovskij si avvicina all’Ottobre, pur con uno sguardo nostalgico al Febbraio, perché in esso vedeva finalmente la rivoluzione estetica andare a braccetto con quella sociale. Con questo slancio si dedicò al supporto della causa rivoluzionaria in diversi ambiti delle arti: nel 1919 si impegnò infatti nella redazione dei testi dei manifesti della ROSTA, l’agenzia di stampa del governo, producendone oltre mille in due anni.

Mejerchol’d da Majakovoskij non era troppo lontano. Alla vigilia del 1917 era noto per essere un innovatore e per le sue regie iconoclaste di opere classiche e contemporanee, ma di certo non per il suo impegno politico.

L’unico movimento sovversivo che lo avesse visto protagonista fino a quel momento era la cosiddetta “rivoluzione teatrale”, che allontanava il teatro russo dal canone naturalista per riportarlo a quello della commedia delle maschere.

La rivoluzione irrompeva nella vita di Mejerchol’d nel febbraio del 1917, mentre nei teatri imperiali era in corso la rappresentazione di “Il Ballo in Maschera” di Lermotov”.

Sullo sfondo di una scena che ricreava un salone da ballo e la vita dissoluta di un’aristocrazia in decomposizione, si consumava contemporaneamente il dramma fittizio del protagonista, omicida per gelosia, e quello reale dei colpi della rivoluzione che stava per imprimere una svolta nella vita del regista.

All’indomani del Febbraio, Mejerchol’d si trovava fra i partecipanti alla conferenza “La rivoluzione, la guerra, l’arte” e fu quello il suo primo vero contatto con i tumulti che avevano agitato le strade e le piazze nell’arco di più di un decennio.

Tuttavia, il suo atteggiamento rimaneva distante: nel novembre del ’17 era ancora saldo nella sua idea di arte indipendente dalla politica e la manifestava con forza al regista Tairov, al quale confessava: “In ottobre sono stato impossibilitato a lavorare a causa del clima in cui ero immerso; tutto era impregnato del veleno culminato il 25 nell’insurrezione dei rivoltosi”. Nonostante questo, come l’amico Majakovskij, il regista decideva di aderire alla causa bolscevica e dava vita all’Ottobre teatrale, inseguendo l’idea di un’unione fra rivoluzione politica e teatro, oltre alla convinzione di essere parte di un’esperienza straordinaria.

Entrambi, però, si sarebbero ritrovati presto a fare i conti con una realtà ben diversa da quella immaginata nel comune sogno sovvertitore: lo spettro della repressione, che stava già colpendo con violenza i gruppi anarchici con i quali Majakovskij simpatizzava, aveva contribuito a spegnere i suoi entusiasmi.

A questo si era aggiunta la gelida accoglienza riservata dalle autorità all’opera “Misterija-buff”, scritta dal poeta e messa in scena da Mejerchol’d con le scene del pittore suprematista Kazimir Malevic, anche lui figura di punta delle avanguardie russe di inizio Novecento.

Non ebbe sorte migliore il poema di Majakovskij “150.000.000”, che nasceva con l’intento di celebrare un’epopea proletaria, ma finì per suscitare lo sdegno di Lenin, all’epoca alla guida del nuovo governo, che, scandalizzato dall’elevata tiratura dell’opera, tuonava in una lettera a Lunačarskij: “Stupidità, assurdità, stravaganza una cosa simile”.

La risposta pusillanime di Lunačarskij fu la seguente: “A me quest’opera non piace tanto, ma 1) un grande poeta come Brjusov (poeta simbolista già molto noto ai tempi, inizialmente polemico nei confronti di Lenin e poi sostenitore, come figliuol prodigo, dell’Ottobre) se n’è entusiasmato chiedendone la stampa di 20.000 copie e 2) assistendo alla lettura dell’autore l’opera aveva riscosso un chiaro successo e per di più fra gli operai…”.

Nemmeno Trockij, ideologo della rivoluzione bolscevica e ai tempi commissario agli Esteri, mostrava troppa simpatia nei confronti delle avanguardie e in particolare di Majakovskij, di cui scriveva in “Letteratura e Rivoluzione”: “Nella poesia futurista percepiamo uno spirito rivoluzionario che attiene alla bohème più che al proletariato” e ancora:

“L’individualismo rivoluzionario di Majakovskij si è riversato con entusiasmo nella rivoluziona proletaria, senza però confondersi con essa. I suoi sentimenti subconsci […] non sono quelli di un operaio, ma di un bohémien”.

Bollando il futurismo come un prodotto del passato poetico, Trockij riteneva “poco serio stabilire, fondandosi su analogie e confronti formali, una sorta di identità fra futurismo e comunismo e dedurne che il futurismo sia l’arte del proletariato”.

Fra Majakovskij e l’Ottobre si aprivano le prime crepe e la relazione del poeta con il potere assumeva sempre più chiaramente l’aspetto tristo e sconfortato di un amore solo immaginato ed evidentemente non corrisposto.
Intanto, si consumavano gli ultimi atti della tragedia di un altro poeta: Aleksandr Blok.

Cresciuto nell’immobile universo di una famiglia conservatrice, Blok era un uomo del vecchio mondo che aveva incontrato la cultura contemporanea nei circoli dei simbolisti, con i quali condivideva la speranza messianica nell’avvento dell’Eterno Femminino, incarnazione terrena della saggezza.

I suoi primi versi, lontanissimi dalla politica, fluttuavano in un’atmosfera perennemente sospesa fra reale e irreale, nella quale il poeta, fra turbini di tempeste e nubi gelate, restava in mistica attesa della sua Bellissima Dama.

Tuttavia, la realtà, con tutta la sua miseria, faceva ben presto il suo ingresso nella vita del poeta delle finestre della sua casa circondata dai quartieri operai. I fatti del 1905, la rivolta e la folla falciata dalle truppe cosacche, lasciarono nel poeta un’impronta profonda: i suoi toni diventavano più cupi e il misticismo si trasformava in sarcasmo, il sogno, in spietata ironia.

Prendeva forma nei suoi versi l’immagine di una catastrofe imminente che pendeva minacciosa su una città fatta di bettole, bische, prostitute e zigani. Nei bassifondi cittadini, sullo sfondo di un cielo scarlatto, il poeta si perdeva, folle di angoscia e di alcol, lontano dalla realtà che gli sembrava sempre più oscena. Più di tutti, come Majakovskij, Blok ha in odio i borghesi. Pur di vederne la fine, era disposto ad accettare una rivoluzione che, sapeva bene, avrebbe spazzato via anche la sua classe.

L’arrivo dell’Ottobre vide, per questo, il poeta esultante. La rivoluzione suonò per lui come una “musica”, come il fragore assordante dell’uragano che si portava dietro il vecchio mondo con le sue istituzioni e privilegi vetusti. Blok non si dava troppa pena per il caos e per la fine del suo ceto: l’unico rimpianto, confessava a Majakovskij, la biblioteca di famiglia che era stata data alle fiamme.

Sull’onda dell’entusiasmo nasceva il poemetto “I Dodici”, ambientato nella Pietrogrado dei giorni della rivolta, avvolta da una gelida luce e battuta dal vento.

Dalla tempesta di neve emergevano squallidi personaggi, i protagonisti di quello che il poeta chiamava “mondo terribile”, ovvero i rappresentati delle classi borghesi, ai quali si opponeva l’immagine delle dodici guardie rosse che marciavano per la città. I dodici, simbolo di una forza barbarica e liberatrice che si mostrava anche attraverso saccheggi e violenze, si trasformavano alla fine nei dodici apostoli, guidati da Gesù Cristo.

Il poema suscitò sdegno su più fronti: da parte dei detrattori della Rivoluzione, che trovarono improprio il paragone fra Gesù Cristo e i criminali bolscevichi; da parte dei bolscevichi stessi, offesi dal quel quadretto che dipingeva le guardie rosse come selvaggi e irresponsabili. “Se una simile guardia fosse stata catturata – obiettò Trockij, indefesso censore non solo di poeti, ma anche di personaggi letterari – sarebbe stata condannata a morte dal tribunale rivoluzionario”.

Come per Majakovskij, l’adesione all’Ottobre si rivelava fondata su un errore di percezione: i bolscevichi rifiutavano l’immagine che li associava al caos dell’anarchia, il poeta da parte sua li ammirava proprio perché credeva di vedere in loro l’incarnazione di una furia primordiale, la stessa che intravedeva alla base del più autentico spirito russo e delle idee di Bakunin.

In poco tempo gli entusiasmi di Blok si raffreddarono: ai suoi occhi la politica aveva preso il posto della rivoluzione.

La musica era finita e il poeta cadeva progressivamente in uno stato di depressione, di cui lo stesso Blok chiarì le ragioni. L’11 febbraio 1921 nel corso di una conferenza tenuta alla Casa dei letterati per dell’ottantaquattresimo anniversario della morte di Puškin, il poeta dichiarava: “Puškin morì. Non fu affatto la pallottola di D’Anthès ad ucciderlo. Lo uccise la mancanza d’aria…Pace e libertà. Sono indispensabili al poeta per la liberazione dell’armonia. Ma vengono tolte anche la pace e la libertà. Non la pace esteriore, ma quella creativa, la libertà segreta. E il poeta muore, perché l’aria si fa irrespirabile; la vita ha perduto il senso”.

Poco dopo si manifestavano i primi sintomi della malattia che gli sarebbe stata fatale pochi mesi più tardi.
Alla sua morte, nell’agosto 1921, Blok aveva già visto lo scempio di una guerra civile e la faccia più scura del nuovo regime. La sua fine lasciava a Mejerchol’d, Majakovskij e a molti altri che lo accompagnavano il sinistro presagio dell’amaro futuro e del destino violento che avrebbero incontrato più avanti.

L’anno successivo in settembre una nave tedesca salpava da Pietrogrado diretta in Prussia, a Stettino, portando verso l’esilio un gruppo di intellettuali, filosofi e teologi, circa centosessanta persone “non grate”, includendo nel numero anche le rispettive famiglie. I viaggiatori non avevano commesso nessun reato in particolare, a parte quello di non aver sostenuto apertamente il regime. E questo fu sufficiente.

Lenin aveva annunciato: “Ripuliremo la Russia per un lungo periodo […] Tutti questi nemici – fuori dalla Russia […] Arrestarne centinaia senza fornire alcuna giustificazione – andatevene, signori! […] Occorre far pulizia presto”. Gli fece eco Trockij, che dalle colonne della “Pravda” si chiedeva “Dittatura, dov’è la tua frusta?”, invocando pene più severe per gli intellettuali.

La GPU, la polizia politica subentrata alla Ceka, aveva risposto solerte e provveduto a orchestrare le operazioni.
La musica è finita, i signori se ne vanno.

Paradossalmente, l’esilio forzato per molti sarebbe stato provvidenziale. Altri invece oltreconfine non avrebbero trovato salvezza, incastrati com’erano nel ricordo di una madrepatria ormai in rovina.
Di certo non si sarebbe salvata la Russia, che in pochi anni aveva già visto l’orrore, il fuoco e la cenere di innumerevoli inferni.

Come quello che, mentre Blok moriva, ancora ardeva a sud, nascosto fra le campagne.