Uscirà in primavera per Bompiani “Non ci sono coltelli nelle cucine di questa città”, ultimo capolavoro dello scrittore e intellettuale siriano Khaled Khalifa.
Di Costanza Pasquali Lasagni
“Quando qualsiasi cosa può distruggerti, devi implorare la morte”
La vulnerabilità, meglio, la paura, è la chiave di lettura dell’ultimo libro di Khaled Khalife, “No knives in the kitchens of this city”, in corso di traduzione in italiano e pubblicazione da Bompiani (uscita prevista per la primavera 2018) con il titolo “Non ci sono coltelli nelle cucine di questa città”.
La città è Aleppo, il periodo storico è quello degli ultimi trent’anni. Il romanzo è un viaggio nel clima di terrore, repressione e autocensura che ha pervaso, e continua a pervadere, la Siria recente, attraverso la storia di una famiglia, narrata in prima persona da un membro della famiglia, di cui non sapremo mai il nome, ma le sue debolezze, quelle sì. Le tenebre, l’oscurità degli animi, la presenza del Partito che incombe nelle vite di tutti, si percepiscono in ogni pagina.
“Ho pensato a lungo al dolore della mia vita, legato com’è era al colpo di stato del Partito e alla sua presa di potere. La maggioranza dei Siriani ha vissuto una vita parallela al Partito e al regime, che ha governato con tale tirannia, e le cui vite non si sono mai incrociate”, racconta la voce narrante.
Se nell’“Elogio dell’Odio”, altro capolavoro del maestro Khalifa, è evidentemente l’odio il sentimento protagonista, quello che permette la sopravvivenza nel decennio della repressione, sviluppato, sviscerato ed accettato dalla protagonista durante i suoi decenni di prigionia – letteraria – nelle carceri del regime, in questo romanzo si descrive come sia la paura, percepita e inflitta, a governare le relazioni, da quelle personali a quelle politiche. La paura che infondiamo agli altri, per sottometterli, è la stessa che ci rende schiavi e ugualmente spaventati dagli altri, la stessa che ci trasmettiamo gli uni con gli altri. “Se vivi in una giungla, devi essere un animale”, arriva a finalmente pensare Sawsan, la protagonista femminile.
Sawsan, sorella della voce narrante, è la donna forte del romanzo. Avvicinatasi al Partito durante gli anni scolastici, poi allontanatasi dai suoi mille tentacoli non senza conseguenze personali, tornata ad Aleppo per “purificarsi” dal passato, e per questo riavvicinatasi alla religione ed alla spiritualità personale, capisce che non c’è scampo quando, una volta liberatasi nuovamente del velo, non riesce a fare pochi passi fuori da casa senza essere insultata. Non c’è scampo nemmeno per Jean, professore di francese rientrato dalla Francia per badare alla madre morente, che un giorno decide di non allinearsi alla linea del Partito nella scuola in cui insegnava, condannandosi così a una vita di insegnamenti a casa, nella vana e miserabile attesa che qualcosa cambi. Non c’è speranza per Rashid, fratello minore, che semplicemente “non tollerava di, semplicemente, esistere, di vivere osservando la vergogna del popolo siriano crescere lentamente, allo stesso passo inesorabile di un treno merci”, lo stesso treno merci che investì il nonno, patriarca di famiglia, impiegato alla Ferrovia nelle campagne di Afrin, a nord di Aleppo.
Non c’è speranza per la madre di famiglia, che in fin di vita non crede alla morte del Presidente, arrivando persino a dubitarne, poiché la sua presenza, e quella del suo apparato, continuava ad essere avvertita in ogni aspetto della vita, privata e pubblica, di ogni Siriano.
La campagna di Midan Akbas, luogo di origine della madre, ritorna periodicamente nella narrazione, con le sue memorie opprimenti. Ma se per la donna, destinata ad un matrimonio che potrà finalmente agli occhi della comunità renderla “borghese”, tale luogo rappresenta un passato doloroso di cui liberarsi, per Sawsan e i suoi fratelli è un posto salvifico, puro e immutato, in cui ci si libera dalle imposizioni della vita e ci si avvicina a se stessi, dove si riesce a respirare l’odore della vita, senza che sia misto a quello della morte, come avviene nella città dai coltelli affilati, quelli che continuano ad uccidere senza alcuna forma di pietà.
“Mentre il mondo ha abbandonato la Siria noi siamo rimasti qui a vivere il lato oscuro di questa città”, mi scrisse Ustadh Khaled, come amiamo chiamarlo noi amici, sulla copertina del libro, una sera in un caffè di Damasco recentemente rinnovato, dove avevamo preso l’abitudine di incontrarci a chiacchierare, alla millesima sigaretta e tazza di caffè, rigorosamente saada, nero e amaro, io col mio tè alla menta, senza zucchero anche quello, “ci sei anche tu”, mi diceva. Come se fosse facile, vivere due anni e poi andarsene, sapendo che chi è lì è condannato ad esistere e resistere nelle tenebre, cercavo di spiegargli. La parte più difficile di questi due anni è stata andare via, lasciare tutto e tutti dietro di me e continuare per la mia strada.
E Khaled era lì, con la sua casa a poche centinaia di metri dalla linea del fronte orientale di Damasco, “da casa tua i bombardamenti si vedono benissimo”, gli dissi una volta che ero andato a trovarlo, “ma tu sei al sicuro?”. “Non ti preoccupare, stanotte ho dormito in corridoio”, mi diceva ridendo, “ma ora cambio casa, non ti preoccupare”.
Perché rimanere in Siria, per coloro che se lo possono permettere, è la forma più alta di resistenza, di opposizione, di contro-informazione, in un periodo storico in cui la rivoluzione “originale”, quella che chiedeva libertà, dignità e cittadinanza (“hurriya, karama, wataniya”) è stata da tempo violata e rimossa da interessi più alti e potenti, internazionali e nazionali. Di loro, scrittori, attori di teatro, artisti, non si parla più. Ma esistono, e la loro voce va ascoltata, e ritrasmessa, per non dimenticare che le tenebre in Siria sono scese tanto tanto tempo fa, ed è lì che bisogna andare a cercare le origini del disastro umano e umanitario più grave del nostro tempo.
Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo personale. Gli estratti del libro citati nell’articolo sono stati tradotti dall’autrice e non rappresentano la traduzione ufficiale dell’editore.