Il nuovo cinema arabo al Medfilm Festival di Roma
di Alessia Carnevale
Il corpo violentato. Il corpo umiliato. Il corpo annegato. Il corpo straniero, il corpo erotico, quello che soffre, che fa soffrire, che gode. Il corpo della donna ma anche quello dell’uomo, i corpi contesi dalle meccaniche biopolitiche che lo vogliono docile, assoggettato, muto, i corpi che invece parlano, anzi urlano, cadono e si rialzano.
Se c’è una materia che lega le nuove esperienze artistiche provenienti dalla sponda sud del Mediterraneo, allora è proprio questo, il corpo umano, la carne, la pelle, il sangue.
Write or be written, scrivi o sarai scritto. Potrebbe essere la parola d’ordine di molti giovani cineasti provenienti dai paesi arabi oggi, paesi le cui immagini ci arrivano filtrate e distorte dai discorsi invasati e sensazionalisti delle destre, da quelli paternalisti e fintamente ingenui di molte sinistre.
Quale mezzo migliore del cinema per fare da contraltare alle immagini piatte, mutilate, da cui veniamo giornalmente invasi?
La 23esima edizione del Medfilm Festival tenutosi a Roma dal 10 al 18 novembre ha dato grande spazio al cinema dei paesi del Mediterraneo meridionale. Oltre ad avere come ospiti d’onore l’Algeria e la Tunisia, a cui sono state dedicate intere sezioni, il festival ha proiettato film e documentari di registi provenienti da Libano, Palestina, Marocco, Egitto, Siria. Il titolo di questa edizione è Sguardi di donne.
Tanti sono infatti i film diretti da donne, come la tunisina Raja Amari con Corps étrangers, dove un pericoloso triangolo a maggioranza femminile ironizza sulla presunta prototipica virilità del maschio arabo.
O come la palestinese Annemarie Jacir con Wajib, che tratteggia con delicato humour una relazione padre-figlio intrappolata tra i doveri famigliari e l’occupazione isreaeliana. Tanti anche i film che ruotano intorno a figure femminili forti.
Questa centralità della figura femminile ribadisce, a dispetto di una certa retorica, che se c’è un “problema” della donna, c’è anche, e non secondariamente, un “problema” dell’uomo.
Lo dimostra, in negativo, un film come Tunis by night, realizzato dal tunisino Elyas Baccar, che guarda la donna/Tunisia come un oggetto esotico/erotico (le coppie di termini sono interscambiabili), intrappolato nello stesso sguardo paternalista e impotente dei suoi protagonisti maschi (non avanzando da questo punto di vista rispetto al suo lavoro precedente Lost in Tunisia, 2016).
O il già censuratissimo franco-marocchino Nabil Ayouch, (regista di Much Loved 2015), che nel suo ultimo Razzia continua a proporre un corpo femminile che per quanto scabroso non riesce mai a compiere un’autentica emancipazione.
Lo dimostra, in positivo, il film della tunisina Kaouther Ben Hania, La bella et le meute, dove una travolgente figura femminile ci parla del riscatto di una femminilità abusata, lasciandoci allo stesso tempo riflettere su una mascolinità abbrutita, vittima di quella stessa mentalità che lo vuole dominatore e padre padrone.
Dopo essere stato presentato nella sezione Un certain regard a Cannes 2017, La bella et le meute sta facendo molto parlare di sé in patria, dov’è stato appena presentato alle Journées Cinématographiques de Carthage.
Tragicamente ispirato ad una storia vera, il plot è semplice: Mariam, sorpresa in compagnia di un uomo su una spiaggia, viene violentata da una coppia di poliziotti. Col costante supporto del suo compagno di sventura, la giovane donna non rinuncia ai suoi diritti, superando ogni ostracismo, ogni violenza fisica e psicologica per denunciare i suoi aggressori e tutto quel sistema corrotto che li protegge e li legittima.
Un film che non manca certo di pathos, ma dove si perdona l’eccessiva carica ansiogena per un ritratto sociale spietato, tanto più assurdo quanto realistico.
Come a fare da contraltare a questo tanto femminile film tunisino, c’è invece un film tutto al maschile, sorprendentemente delicato e rarefatto. È il film d’esordio del libanese Mazen Khaled, Martyr, che ha partecipato alla Biennale College di Venezia.
Anche qui un’unica storia lineare, semplicissima, quasi banale. Un giovane proveniente da un quartiere popolare di Beirut, disoccupato ma non abbastanza povero da cadere nella spirale del fanatismo religioso, è alle prese con gli stessi problemi esistenziali di tutta una generazione di suoi coetanei, in Libano così come in Italia, in Francia, o in Tunisia.
Non essere nessuno, non avere uno scopo, non sapere cosa fare della propria vita. Il suo gesto di ribellione lo riversa solo contro se stesso: un tuffo che gli sarà mortale.
I corpi seminudi degli amici che lo soccorrono, che poi lo lavano secondo il rito funerario tradizionale, che si toccano in un contatto che sfiora l’omoerotismo, sono chiamati a riflettere, sopra il corpo nudo del compagno, sul valore delle proprie esistenze. La fragilità e marginalità dell’uomo messa letteralmente a nudo, in un film che flirta con il teatro-performance, con la video art e con la fotografia.
I corpi, dunque, sintomo esteriore della sessualità, e quindi ingabbiati da griglie interpretative e comportamentali prestabilite. Corpi che si ribellano o che rimangono intrappolati, in ogni caso, corpi che parlano da sé, con la loro corporale presenza.
La centralità del corpo in questo cinema, la corporalità di un certo nuovo cinema arabo, sembra sintomo di una ricerca della centralità del sé come soggetto parlante.
La gioventù araba si muove al di fuori delle gabbie interne delle società di origine, ma anche delle barriere esterne, mentali e fisiche, imposte da un’Europa che è sempre più un interlocutore obbligato, e allo stesso tempo sordo.
Slacciati da una certa retorica liberal-femminista (veramente maschilista) occidentale che ha fatto del corpo della donna araba, della donna “altra” in generale, l’altarino su cui consacrare battaglie dai fini ambigui. Slacciati pure dai ritratti monocromatici e allarmisti del maschio terrorista e predatore.
Il punto infatti non è quanto la donna sia liberata o in catene, quanto l’uomo sia vittima o carnefice, quanto la società musulmana sia rigida o democratizzata (come se essa fosse un compartimento stagno, inalterato nel tempo nello spazio, dal Marocco all’Indonesia).
Il punto è quanto questa donna e quest’uomo possano parlare da sé della propria condizione. Peccato per i casi in cui si ammicchi proprio a quelle dinamiche binarie per conquistarsi il pubblico e l’industria cinematografica europea. Ma a parte queste occasioni, il nuovo cinema arabo ci può parlare di una società che conosciamo spesso attraverso un velo fittissimo di incomprensioni e pregiudizi. Il Medfilm Festival ce ne ha dato un assaggio.