Trump riconosce unilateralmente Gerusalemme capitale d’Israele e firma l’ordine per spostare l’ambasciata Usa da Tel Aviv
di Christian Elia, da Gerusalemme
Quel che resta di momenti importanti è anche la loro immagine. Ieri sera, il presidente Usa Donald Trump, ha firmato l’ordine per spostare l’ambasciata Usa in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme.
Trump – quasi con ricercatezza – ha tentato di lasciare un segno di questo momento, non riuscendo a essere diverso da quello che è: l’espressione di una grammatica del potere aggressiva e violenta. Anche se parla di pace.
La mossa era nell’aria da giorni; è stata confermata ieri, anche se in realtà – come spiega molto bene Paola Caridi nel suo blog – all’attuale inquilino della Casa Bianca vanno addebitate molte conseguenze della scellerata e univoca scelta di riconoscere Gerusalemme capitale d’Israele, ma non tutte.
Perché dal 1995 che il Congresso Usa l’ha fatto, anche se da allora ogni presidente Usa applicava il ‘presidential waiver’ che gli permetteva di rimandare la fatidica firma. Allo stesso modo, il mondo permise nel 1980 a Israele di votare una legge di annessione di Gerusalemme.
Quello che conta, in una Gerusalemme con il fiato sospeso, mentre nei campi profughi della Cisgiordania comincia a serpeggiare la rabbia, è cosa comporterà questa presa di posizione pubblica dell’amministrazione Usa.
Un gesto irresponsabile, quello di Trump, che rischia di finire il lavoro di distruzione del Medio Oriente da parte degli Usa iniziata dalla caduta del muro di Berlino e proseguito
con le amministrazioni precedenti.
Le reazioni non si sono fatte attendere, a livello politico, riuscendo a mettere tutti d’accordo tra Ue e mondo intero nel condannare la scelta di Trump. Esulta solo il premier israeliano Netanyahu, che vede giunto a un punto di svolta uno dei processi coloniali iniziati nel 1948 e aggravati nel 1967.
Oggi la Palestina si sveglia rabbiosa, ma divisa al suo interno e isolata all’esterno. Proprio mentre Hamas e Fatah trattavano per l’ennesima volta un accordo, la decisione di Trump spezza le gambe all’Autorità Nazionale Palestinese.
Dopo che Hamas ha perso gli appoggi internazionali per le sue scelte in politica estera, Abu Mazen si preparara a veder tornare all’ovile con la coda tra le gambe gli avversari, ma questo costringe l’Anp a uscire dal guscio del collaborazionismo per prendere una posizione.
La decisione di Trump, inoltre, mette in grande difficoltà tanti regimi alleati degli Usa nella regione: il valore di Gerusalemme, riconosciuta capitale d’Israele senza che si sia giunti a un negoziato di pace, è gravissimo.
Nel Golfo Persico, in Egitto, in Giordania, in Marocco, oggi, vengono messi nelle condizioni di ‘dover’ dire/fare qualcosa rispetto a una scelta che li colpisce al cuore della terza città più santa dell’Islam.
In fondo a Trump, nella sua sconsiderata audacia, va riconosciuto di aver fatto saltare molte ipocrisie. A cominciare dal ruolo degli Usa nell’occupazione israeliana della Palestina, che non è mai stata super partes, ma che è sempre stata funzionale a Israele.
E poi, come detto, l’ipocrisia della classe dirigente palestinese, corrotta e collusa con l’occupante, divisa e lontana dal cuore di gran parte della popolazione.
Inoltre Trump certifica, urlandoglielo in faccia, la morte delle Nazioni Unite. Ma anche qui si parla di un processo lungo di necrosi dell’idea stessa di un reale potere sovranazionale dell’Onu che questa decisione unilaterale svela definitivamente.
Se sommiamo a tutti questi elementi lo strappo con la Chiesa di Roma, che su Gerusalemme conta secoli di coinvolgimento, ed è stata travolta da questa decisione, visto che la classe dirigente d’Israele è sempre più in linea con un’idea di teodemocrazia per il Paese, è il quadro è completo.
L’unico aspetto che questa decisione potrebbe rappresentare è quello di unire di nuovo i palestinesi rispetto a un simbolo comune. E mostrare definitivamente il volto del processo di pace come strumento diseguale che ha solo finito per ‘normalizzare’ l’occupazione.
La lacerazione tra coloro che ormai vivono nella ‘bolla’ economica dell’occupazione e i dimenticati dei campi profughi palestinesi, ormai due mondi divisi e sempre più contrapposti, si trovano uniti di fronte a questo affronto.
Rischia però di essere un’esplosione di rabbia senza vertice, senza progetto politico, senza strategia. Difficile dire cosa succederà, ma oggi Gerusalemme e tutta la Palestina si è svegliata di fronte alla sua solitudine e alla sua rabbia, senza saper bene che fare.