L’insulto

“L’Insulto” rivisita le ferite aperte della guerra civile libanese. Riconciliazione o revisionismo?

di Alessia Carnevale

Il titolo dell’ultimo film di Ziad Doueiri, “L’Insulto”, appena uscito nelle sale italiane, sembra pericolosamente indirizzato al di fuori della sua trama. Ingenuità o provocazione?

Il film ha una carica politica esplosiva. Eppure, mentre da più parti ci si indigna per questioni in realtà esterne, non mi pare che si sia fatta una seria riflessione sul film. Un film che ha riportato il Libano al centro della scena cinematografica internazionale, visto che è stato premiato a Venezia (Coppa Volpi al miglior attore per il palestinese Kamel el Basha), e che rappresenterà il Libano agli Oscar 2018.

Ed è proprio di ritorno da Venezia, lo scorso settembre, che il franco-libanese Doueiri, già regista di “West Beirut” (candidato a Cannes nel 1998) è stato arrestato all’aeroporto di Beirut. L’interrogatorio, conclusosi senza alcuna accusa, non riguardava, almeno ufficialmente, “L’Insulto”, bensì il precedente “The Attack”, del 2012. Girato in parte a Tel Aviv e scritturando attori israeliani, questo film infrange infatti le leggi del Libano, che non riconosce Israele e proibisce ai suoi cittadini di recarvisi. Per questo stesso motivo il “Boycott, Divestment and Sanction Movement” si è mobilitato contro “The Insult” (questo il titolo inglese con cui è stato presentato, quello in arabo si tradurrebbe come “Causa numero 23”), provocando di fatto l’annullamento della proiezione al festival di Ramallah, oltre a varie proteste in altri paesi.

Ora, volendo trascendere dalla questione “boicottaggio sì boicottaggio no”, ci si chiede: queste ritorsioni relative ad un fatto di cinque anni fa, celano o no una più profonda protesta contro la narrazione e la retorica de “L’Insulto”? Poiché queste, più del fatto che il regista abbia lavorato a Tel Aviv, sembrano suggerire l’auspicio di una normalizzazione delle relazioni tra Libano e Israele.

L’insulto, anzi gli insulti, attorno a cui ruota il film, sono quelli scambiati tra Yasser, un muratore palestinese, rifugiato sin da ragazzo in Libano, e Tony, un meccanico cristiano e nostalgico del falangismo, l’ideologia fascista della destra maronita.

Durante la sanguinosa guerra civile libanese del 1975-1990, durante la quale Tony era solo un bambino, le falangi libanesi combattevano contro i fedayin palestinesi, con il sostegno, tra gli altri, di Israele. Ed è proprio alla controversa alleanza con Israele che Tony si riferisce, sputando in faccia a Yasser la fatidica frase “magari Sharon vi avesse sterminati tutti”. Rievocando il massacro di Sabra e Shatila del 1982, dove le milizie falangiste, con la complicità dell’allora ministro della Difesa israeliano Ariel Sharon e del suo esercito, sterminarono civili palestinesi e sciiti libanesi. All’insulto segue il violento pugno di Yasser. Da qui, la storia diventa una estenuante serie di sedute in tribunale.

Un’insignificante scaramuccia per un tubo rotto diventa una questione nazionale, che mette in crisi il già fragile equilibrio della politica libanese, e che si riversa nelle strade della capitale provocando scontri e manifestazioni.

Nel corso dei litigi tra i protagonisti e i loro avvocati emerge a più riprese l’idea che i palestinesi in Libano e nel mondo arabo godano di una certa aurea di favore, di una sorta di impunità: “tutti vi difendono”, “smettete di fare le vittime”, urla Tony, che si sente spogliato del suo diritto di essere una vittima. Il suo avvocato, famoso per aver già difeso pezzi grossi della destra maronita, gli ridona il suo status di vittima, rievocando l’occupazione da parte dei fedayin palestinesi del suo villaggio natale, con conseguenti uccisioni sommarie e l’espropriazione delle case, tra cui quella della famiglia del piccolo Tony. “Non esiste il monopolio della sofferenza” dichiara solenne l’avvocato, che avalla la tesi per cui i palestinesi sono stati per troppo tempo considerati le uniche vittime della guerra e della storia. “E allora gli armeni? E gli zingari? E gli omosessuali? E allora i cristiani cacciati dai loro villaggi?” È con questa celebrazione del qualunquismo che il film raggiunge il suo climax, invitando a “riflettere” che la guerra è guerra per tutti, ma che “dobbiamo voltare pagina”, e che “siamo tutti fratelli”.

Il film ricorda, giustamente, che la guerra civile è terminata con un’amnistia generale dei crimini di guerra di tutte le fazioni.

Gli studiosi che si occupano di Libano contemporaneo affermano che la generazione di artisti che ha vissuto il trauma della guerra civile ha risposto con eccezionale creatività alla mancanza di una narrazione condivisa dei tragici eventi. Costoro hanno risposto alla politica dell’amnesia che ha ostacolato la riconciliazione nazionale, cercando di ricucire una memoria collettiva lacerata e dolorosa. Ciò ha fatto positivamente emergere narrazioni plurali, e dato voce a storie diverse e contrastanti. Ma lanciare, senza mai davvero ritirare, come fa “L’Insulto”, l’idea che i palestinesi siano i vincenti della Storia, è semplicemente assurdo. È fare del revisionismo.

“L’Insulto”, la cui vena didattica è evidente, invoca chiaramente il voltare pagina come soluzione della riconciliazione nazionale. Ma può la riconciliazione avvenire se non vengono puniti i crimini e ristabilita la giustizia? Possono i palestinesi “dimenticare” quando i loro diritti sono calpestati ogni giorno di più? Certo, la tragedia della guerra è un trauma condiviso in Libano. Ma quello che viene definito “pulizia etnica” nei confronti del popolo palestinese è qualcosa che è successo e che in varie forme succede ancora, e che non andrebbe mai perso di vista, neanche quando si affronta una questione così complessa, contorta, intricata come il quadro di alleanze, di colpe e di crimini della guerra del ‘75-‘90.

Buona parte dei palestinesi vivono da settant’anni a questa parte in condizione di apolidi, sparsi in campi profughi di paesi — tra cui il Libano — che non riconoscono loro la cittadinanza né il diritto di lavorare (perché sarebbe un cedimento e uno sdoganamento dell’esistenza di Israele, questo l’amaro paradosso propugnato dai “fratelli arabi”). Oggi questa stessa condizione in Libano la vivono anche i nuovi profughi siriani. Il piccolo paese levantino è travolto da una nuova ondata di razzismo anti-profughi, che è arrivata a volte a manifestazioni estreme quale l’incendio dei campi.

La lotta per lo status di vittima che il film mette in scena ricorda molto la rabbia contro i migranti che infuoca anche l’Europa. Paragone azzardato? Forse.

Eppure lo sdoganamento del fascismo, proprio in questi giorni, in questi istanti, passa un po’ in tutto il mondo per il ripiegamento su se stesse delle cause politiche che fino a poco tempo fa erano considerate, almeno a voce, almeno a sinistra, sacrosante: l’antifascismo, l’accoglienza, i diritti civili… la causa palestinese. Qualche giorno fa Trump ha dichiarato che Gerusalemme è la capitale di Israele, cosa che l’America aveva in realtà fatto da anni, solo che in silenzio. Oggi il megafono ce l’hanno le destre più estreme e cattive, questo è un dato di fatto.
L’attore palestinese co-protagonista del film, e premiato a Venezia, difende il film e invoca la libertà di scelta e di espressione. Rispettando le sue riserve sul boicottaggio, mi chiedo però se le provocazioni innescate nel film possano davvero rappresentare un invito alla riconciliazione nazionale in Libano, o se non siano piuttosto benzina sul fuoco.

Reiterando quello che, in silenzio, si era sempre detto, ovvero che i palestinesi non hanno più il diritto di far valere i propri diritti. Un po’ come ha fatto Trump.