Russia, cento anni di una rivoluzione
di Maria Izzo
La storia racconta di un febbraio sferzato dal vento, che soffiando riempiva le strade di un fragore cupo e impetuoso, come fosse il risuonare improvviso di migliaia di voci indignate.
Si narra di raffiche fredde e affilate che dalle viscere della città e dai suoi cunicoli bui, con la violenza sfrontata di un profanatore, si alzavano verso l’alto, fino ai sontuosi palazzi dalle larghe finestre che, percosse, tremavano forte.
La storia racconta, ma forse si inganna. Forse non era il vento, ma la rabbia che esplodeva di colpo, una furia che dai bassifondi finalmente ritrovava la voce per tornare di nuovo per strada, più alta, più forte, fino a orecchie che sembravano sorde e a quelle belle, larghe finestre dai vetri ormai ridotti in frantumi.
Forse qualcuno si interroga ancora su quel vento che spazzava la terra, furia dell’uomo o forza della natura, però è certo che soffiò così forte che al calare delle raffiche, con la fine di quel febbraio di tempesta, nulla nell’aria era più come prima.
Lo zar Nicola II non sedeva più sul suo trono. Tutto intorno al terribile soglio, immutabile per tre secoli e oltre, non restavano che incensi ormai spenti fra le polveri di altari in rovina, mentre dalle crepe di muri malfermi e dai portoni abbattuti di schianto esplodeva lo stridio di una folla che spezzava le proprie catene.
In quel marzo dell’anno 1917 anche la prigione Butyrka spalancava di colpo le porte, liberando nelle strade di Mosca i prigionieri politici che la fortezza, arcigna guardiana dell’autocrazia, in quegli anni aveva fagocitato a frotte.
Fra questi, un uomo di circa trent’anni e un passato già segnato da diverse battaglie. Era arrivato da lontano, dai territori che si stendevano a sud dell’Impero lungo il fiume Dnepr fino al Mar d’Azov, su un lembo pianeggiante di steppa ucraina, un tempo patria di cosacchi e da sempre terra di contadini.
Tuttavia, del selvaggio universo rurale nel passaggio dal XIX al XX secolo era ormai rimasto ben poco. L’industrializzazione, che anche qui procedeva a passo spedito, aveva trasformato piccole città e villaggi in complessi agro-industriali. Le campagne, divise fra i grandi proprietari terrieri e vicine ai grandi porti e alle ferrovie, erano diventate uno dei principali poli per il mercato del grano.
Ma la rapida corsa al progresso non fu senza un prezzo. Con l’intento di modernizzare il paese, infatti, si tentavano in quegli anni politiche agrarie che indebolirono il tradizionale carattere comunitario della campagna russa e favorirono gli imprenditori agricoli.
Il prezzo del progresso, che fu alto e sul conto degli ultimi, si impresse con drammatica forza in ogni passo del travagliato cammino che quell’uomo aveva percorso dalla steppa alla Butyrka.
Quell’uomo – il suo nome era Nestor – era figlio di un bovaro di Guljaj Pole, cittadina dell’Ucraina del Sud che a quei tempi vantava la presenza di una fonderia, due mulini a vapore e, nello stesso distretto, dodici fabbriche di mattoni e piastrelle.
Ma accanto a queste fonti di ricchezza contava anche larghe sacche di povertà estrema e stagnante, diffusa fra lo stuolo di operai e di contadini che facevano girare gli ingranaggi delle fabbriche e riempivano senza sosta i granai.
Il padre di Nestor era un servo della gleba, liberato e diventato bovaro, poi cocchiere. L’uomo ebbe la doppia sfortuna di una vita faticosa e breve: morì infatti prematuramente lasciando cinque figli, di cui uno, Nestor, ancora neonato.
L’infanzia di Nestor, come avrebbe ricordato lui stesso nel 1921, fu cupa, carica di un senso di miseria e di privazione. Per giunta terminò in fretta. Molto presto infatti Nestor iniziò a lavorare nella fonderia della città come manovale. Fu qui che lo sorpresero la politica e la rivoluzione, facendo irruzione improvvisamente nella sua vita per non uscirne mai più.
Allo scoppio dei moti del 1905 gli operai della fonderia annunciarono lo sciopero, chiedendo migliori condizioni di lavoro e il pagamento degli straordinari; nel frattempo a Guljaj Pole aveva iniziato a operare un’organizzazione sovversiva dedita a espropri e rapine.
Nestor si mise sulle loro tracce. Riuscì a trovarli prima della polizia e li convinse ad accettarlo nel gruppo. Così, poco più che un ragazzino, Nestor prese parte alla prima rapina. Le azioni dell’organizzazioni si susseguivano fitte, intervallate da frequenti arresti. Nestor, però, era sempre riuscito a tornare in libertà.
Ma la violenza si faceva più intensa, non solo da parte del gruppo di anarchici, arrivato in alcuni casi a commettere omicidi, ma anche da parte di chi cercava con ogni mezzo, giusto o sbagliato, di mettervi fine. Erano gli anni feroci e opprimenti dell’era Stolypin, in cui dietro le pene giudiziarie, comminate con manica larga, si nascondeva spesso il pretesto per il più efferato omicidio di Stato.
I tribunali militari non erano tenuti ad accertare le responsabilità del singolo, ma si limitavano a stabilire le responsabilità di un gruppo per emettere sentenze collettive: fu così che Nestor fu condannato a morte, anche se in realtà non si era macchiato di alcun omicidio.
La sua minore età, però, lo salvò: mentre la forca, la cosiddetta “cravatta di Stolypin”, già lo attendeva, lo stesso ministro commutò la sua pena in lavori forzati.
Per Nestor si aprirono le porte della Butirka. Rinchiuderlo, però, non servì a molto: al contrario, la prigione fu l’oscura fucina dove si forgiarono le sue idee, il suo carattere e il suo destino, che in qualche modo sarebbe stato anche quello della sua terra ora lontana.
L’incontro con l’anarchico Pëtr Andreevič Aršinov avvicinò Nestor agli scritti e alle idee libertarie di Bakunin e Kropotkin. Lo studio della grammatica russa, della storia, dell’economia e il divampare della passione politica fecero tutto il resto. Al chiuso, nell’aria buia e irrespirabile di una prigione zarista, Nestor si ritrovò con l’animo in pieno fermento.
Nel marzo 1917 Nestor Ivanovic Machno usciva dal carcere per entrare direttamente nella storia. Quando al suo nome le folle aggiunsero quello di Bat’ko, piccolo padre, la storia sarebbe diventata presto leggenda.
A Mosca non rimase a lungo. Riacquistata la libertà, Machno si diresse a Guljaj Pole, dove radunò subito le sue vecchie conoscenze in un gruppo anarco-comunista con l’intento di lottare strenuamente contro ogni forma di potere e realizzare il più alto degli obiettivi: l’anarchia.
Le prime azioni da compiere erano il rovesciamento delle istituzioni governative, l’abolizione della proprietà privata sulle terre e sulle fabbriche, il consolidamento dei legami con il ceto contadino.
In breve tempo Machno fu eletto capo dell’Unione dei Falegnami e Metalmeccanici e del Soviet dei Deputati operai e contadini. Sotto la sua guida al termine della mietitura iniziarono le espropriazioni dei terreni privati e la redistribuzione ai contadini.
Agli occhi di questi ultimi la figura di Machno aveva già perso i contorni umani per assumere quelli del mito, dell’eroe tornato per riportare nel presente il più autentico spirito russo e realizzare, sulle orme dei rivoluzionari contadini dei tempi ormai andati, l’antico sogno di terra e libertà.
Intanto, venne l’autunno e un nuovo colpo di vento. Il governo provvisorio, che aveva preso le redini del paese dopo la caduta dello zar, era stato spazzato via dai bolscevichi.
Machno reagì positivamente al cambio di vertice. Fino a quel momento infatti i rapporti fra gli anarchici e i socialisti rivoluzionari erano stati caratterizzati dall’attiva collaborazione e da una certa comunanza di intenti.
Agli occhi degli anarchici, infatti, sembrò che l’opera di distruzione del vecchio stato borghese, portata avanti dal partito di Lenin, fosse la via più rapida per arrivare al radicale rinnovamento sociale e all’affermazione delle masse.
A dividerli, rimaneva l’idea del ruolo dello stato e del potere, centrale per i bolscevichi, semplicemente inaccettabile per gli anarchici. Tuttavia, per questi ultimi, sostenere pur nelle divergenze una forza rivoluzionaria, sembrò un’ipotesi di gran lunga migliore rispetto a un ritorno all’invisa autocrazia.
Nel marzo 1918, la pace di Brest-Litovsk, voluta a tutti i costi da Lenin, obbligò i sovietici ad arretrare a est, aprendo alle truppe tedesche e austro-ungariche la via verso l’Ucraina.
Il loro arrivo per molti fu una buona notizia: lo fu sicuramente per la Rada di Kiev, il Consiglio Centrale dei patrioti ucraini, che dopo aver tentato a fatica la via dell’indipendenza al crollo del regime zarista, ora vedevano nell’appoggio dell’esercito austro-germanico una possibilità concreta di liberarsi dell’oppressione russa e di autodeterminarsi.
Ulularono di perfida gioia anche i soliti incattiviti, che imperversano purtroppo in ogni era, perché adesso potevano contare sulle armi di nuovo invasore, poco importa se ugualmente “straniero”, per ripulire finalmente la patria dalla piaga di russi ed ebrei.
A questi non si unirono Machno e i suoi compagni, al contrario indignati per le condizioni della pace che sembrò ai loro occhi un compromesso fin troppo generoso con l’imperialismo germanico. Tentarono di opporre resistenza alle truppe arrivate da ovest, ma il piano, poco realistico, ben presto fallì.
L’esercito tedesco si spinse fino a Guljaj Pole, il cuore del movimento di Machno e qui, con l’aiuto dei nazionalisti, mise in atto una durissima repressione di tutti gli anarchici che erano ancora in città.
Machno, però, era già sulla via verso nord. La sua prima tappa fu la città di Caricyn, dove si svolgeva la prima esperienza dell’uomo fatale, che avrebbe cambiato il nome della città, futura Stalingrado, e le sorti dell’intero paese: Iosif Stalin.
Mentre attraversava la regione del Volga, Machno iniziava a scontrarsi con una faccia del bolscevismo che lo lasciava pieno di dubbi. Gli sembrava, in particolare, che i bolscevichi stessero trascurando la questione contadina e che il malcontento della popolazione diventasse più forte ed evidente mano a mano che ci si allontanava dai centri urbani.
Inoltre, in quello stesso periodo diventava manifesta l’ostilità fra gli anarchici e la spietata polizia politica del nuovo regime, la Čeka.
Scampato per poco a quest’ultima, Machno si dirigeva a Mosca, nucleo attivo del potere sovietico e di quella rivoluzione che gli sembrava fatta soprattutto “di carta”: di leggi, decreti e di cavillose teorie che stavano soffocando il significato autentico della rivoluzione.
Qui riuscì, prima che le sue porte si chiudessero pesantemente al mondo esterno, ad accedere al Cremlino e incontrare Lenin. E sempre qui iniziò a intravedere i primi segnali della frattura. Si narra che Lenin accusasse Machno e gli anarchici di patetica inconsistenza e di fanatismo, mentre, Machno al contrario vedeva nelle azioni portate avanti dai suoi compagni quella concretezza che a Mosca sembrava svanire nel frastuono incessante di proclami e comizi.
Al suo ritorno a Guljaj Pole, nel luglio 1918, Machno trovò l’area occupata dalle truppe austro-tedesche e delle milizie del generale zarista Pavlo Skoropad’skyj, che aveva preso il potere con un colpo di stato supportato dai nuovi occupanti.
Questi ultimi avevano così voltato le spalle alla Rada Ucraina, troppo rivoluzionaria e desiderosa di autonomia e per questo meno affidabile di un alto militare monarchico, per giunta amico dei grandi proprietari terrieri. Che ovviamente ritornarono in pompa magna e con le spalle coperte dalle amicizie influenti a riprendersi la terra.
I contadini però non rimasero a guardare: guidati da Machno, sotto le bandiere nere degli anarchici, organizzarono una serie di incursioni per colpire sia gli Austriaci, sia le milizie di Skoropad’skij, senza dimenticare gli attacchi alle tenute dei nobili.
Il gruppo si muoveva rapidamente, con agilità e astuzia, mentre gli abitanti dei villaggi che incontravano lungo il loro cammino lo sostenevano con cibo e cavalli. In questo modo, i Machnovisti riuscivano a percorrere lunghe distanze senza grosse difficoltà.
Il loro punto di forza era l’effetto sorpresa: apparivano all’improvviso, attaccavano rapidamente e sparivano con altrettanta velocità; indossando uniformi nemiche riuscivano ad addentrarsi in profondità fra le fila avversarie per colpirle dall’interno. Se capitava loro di trovarsi all’angolo, sotterravano le armi e battevano la ritirata singolarmente, ognuno per la propria strada.
Nel settembre del 1918 dopo una la vittoria brillante, arrivata a Dibrivki al di là delle più rosee aspettative, contro le forze austriache in schiacciante superiorità, Machno fu insignito dai suoi uomini del titolo di Bat’ko, piccolo padre.
Lo avvolgeva ormai l’aura di un mito che sarebbe cresciuta ancora quando, pochi mesi più tardi, riuscì a trafugare armi e munizioni delle truppe austro-tedesche costrette al ritiro alla fine della Prima Guerra Mondiale.
L’orizzonte però non era affatto sgombro di nubi: al contrario, il vuoto lasciato dai tedeschi fu subito occupato da un nuovo avversario, il Direttorio guidato dal nazionalista Simon Petljura, acerrimo avversario sia dei monarchici bianchi, sia dei bolscevichi.
Inizialmente Machno tentò di mantenere buoni rapporti con i petljuristi, sulla base della lotta comune che conducevano contro l’armata dei Bianchi nell’area di Ekaterinoslav. Tuttavia, quando il nemico fu allontanato, i rapporti fra anarchici e nazionalisti si deteriorarono: i petljuristi smembrarono il soviet locale dei lavoratori e si mostrarono pronti a combattere per un’annessione. Il conflitto fu inevitabile.
Machno, per allontanare Petljura, si decise a trattare con i bolscevichi che però approfittarono della situazione per tentare di rafforzare la propria posizione su quei territori. I machnovisti, che non erano interessati a un nuovo padrone, non lasciarono fare. Intanto, l’ombra dei petljuristi incombeva ancora nei pressi di Ekaterinoslav, città non lontana da Guljaj Pole.
Sulla base dell’accordo con i bolscevichi, Machno piazzò un reparto di Rossi, che però, alla prima occasione, ne approfittò per passare nelle fila avversarie. La battaglia terminò con una disfatta e un senso di profonda sfiducia verso i bolscevichi che secondo gli anarchici non si erano preoccupati affatto di prendere la città, ma unicamente di piantare una nuova bandiera rossa. Quel risentimento non era destinato a calare; al contrario sarebbe cresciuto con gli anni e gli eventi.
I machnovisti riuscirono comunque a bloccare l’avanzata dei petljuristi e stabilizzare i confini della loro zona. Libera dalla minaccia degli austro-tedeschi, di Skoropad’skyj, dei petljuristi, con i Bianchi e i Rossi non ancora in grado di sferrare un attacco, l’area di Guljaj Pole nel 1919 diventò teatro di un esperimento unico: una struttura politica e sociale indipendente, costruita intorno a un nucleo di anarco-comunisti.
Uno dei primi atti fu la requisizione delle terre ai ricchi proprietari e la redistribuzione ai contadini più poveri.
Non mancarono ovviamente le ombre, che si allungarono fra la popolazione quando la presenza dei Bianchi alle porte nel 1919 impose la sopravvivenza militare come priorità.
Fu istituita la coscrizione obbligatoria, che per molti fu un affronto ai principi rivoluzionari e incontrò forti resistenze. La guerra civile, inoltre, arrivò e fu brutale, qui come altrove.
Alle violenze dei Bianchi, i machnovisti risposero con altrettanta violenza, entrambi accecati dall’ancestrale, virulento conflitto fra contadini e aristocratici che avvelenava la società russa da secoli e che ora trovava un sanguinolento canale di sfogo.
Nonostante l’odio per i Bianchi li avvicinasse ai Bolscevichi, nonostante le parole d’ordine delle loro battaglie risuonassero in apparente armonia, in quello stesso periodo per i machnovisti la collaborazione con la compagine di Lenin e di Trockij si faceva sempre più conflittuale.
Mentre i leader bolscevichi avevano fondato il proprio progetto politico sulla riorganizzazione dall’alto, Machno, che, all’opposto credeva nella rivoluzione dal basso e nella stretta cooperazione fra rivoluzionari e masse operaie e contadine, invece sosteneva: “Se la popolazione, le forze lavoratrici, non troveranno totale appagamento nelle conquiste della rivoluzione, si rifiuteranno di aiutarla volontariamente e concretamente (ad esempio fornendo cibo) e la faranno fallire in modo molto più efficace di quanto possano fare le milizie di Kaledin, di Kornilov e di altri controrivoluzionari”.
I Bolscevichi non si mostrarono particolarmente sensibili: al contrario, iniziarono a segnare col marchio d’infamia il movimento machnovista, definendolo espressione della mentalità “piccolo-borghese”.
Machno, da parte sua, alzò ancora i toni: in un intervento al soviet di Guljaj Pole aveva dichiarato: “Se i compagni bolscevichi vengono per aiutarci nella lotta alla controrivoluzione, noi diciamo loro: ‘Benvenuti, cari amici!’.
Ma se vengono qui con l’intenzione di monopolizzare l’Ucraina, noi diciamo loro ‘Giù le mani!’. Noi siamo in grado di far insorgere i contadini per liberarsi dalla schiavitù, e saremo in grado di organizzare una nuova vita dove non ci saranno né padroni, né servi, né oppressori, né oppressi”. Gli fece eco l’anarchico Černoknižkij, dicendo “Mentre il Governo provvisorio ucraino se ne stava a Mosca e a Kursk, i lavoratori da soli hanno liberato il proprio territorio dal nemico.
Noi, gli insorti senza partiti, ci siamo sollevati contro tutti i nostri oppressori. Non tollereremo una nuova schiavitù a opera di nessun partito”.
Il conflitto non era solo ideologico, ma strisciava anche fra i contadini che associavano i Bolscevichi alle continue requisizioni di scorte alimentari, allo sperpero dovuto al mantenimento di un apparato burocratico che si gonfiava a dismisura. Per non parlare degli abusi, sempre più sfrenati, della Čeka.
La cooperazione paradossalmente, per qualche tempo andò ancora avanti: per i machnovisti l’Armata Rossa era l’unica possibilità per procurarsi armi e munizioni; per i Rossi invece entrare nelle file machnoviste era un modo piuttosto comodo per fare opera estensiva di propaganda.
Questo equilibrio di reciproci utilitarismi però subì uno scossone nel 1919, quando da “Piccolo-borghesi”, nell’antologia dei nemici dei Bolscevichi, i machnovisti passarono alla voce “Banditi”.
L’accusa fu formalizzata nel corso del Congresso dei Soviet per la propaganda. Il movimento machnovista venne definito “uno stato nello stato”, un “famigerato quartier generale” dove “si erano concentrate tutte le forze dei socialisti rivoluzionari di sinistra e degli anarchici, noti banditi e criminali recidivi”.
In queste condizioni, fra queste ombre lunghe e sinistre, la cooperazione militare contro i Bianchi, sancita da un accordo che aveva trasformato i machnovisti in una divisione dell’Armata Rossa, non poteva continuare.
In giugno, nello stesso giorno in cui il commissario Vorošilov incontrò Machno per conferirgli un’onorificenza, il capo degli anarchici ucraini fu dichiarato fuorilegge; contemporaneamente le truppe sovietiche distrussero le comuni contadine create dai machnovisti. I Bianchi, irrompendo poco dopo, completarono il lavoro sciogliendo anche i soviet locali.
La lotta dei machnovisti sembrò per un momento riavvicinarsi a quella dei Bolscevichi quando l’esercito dei Bianchi, guidati da Denikin, puntando verso Mosca fece vacillare sia l’Armata Rossa, sia il gruppo di anarchici. L’intervento di Machno, che nei pressi del villaggio di Peregonovka riuscì a tagliare i rifornimenti dell’esercito bianco, si rivelò decisivo: la marcia di Denikin si arrestò. Qualche mese più tardi, in dicembre, una controffensiva dei Bolscevichi lo respinse indietro verso il Mar Nero.
Alla fine dell’anno arrivarono dai comandi militari degli ordini che suonarono forti e inquietanti come campanelli d’allarme: ai machnovisti fu ordinate di spostarsi verso un altro fronte.
Probabilmente fra le righe di questa disposizione si leggeva l’intento di allontanare gli anarchici guidati da Machno dal loro territorio, dove erano ancora forti e radicati, perché l’Armata Rossa potesse portare quelle zone sotto il proprio controllo.
Machno, però, aveva la vista evidentemente più lunga di chi cercava di ordire complotti alle sue spalle e all’ordine oppose un rifiuto, accusando Trockij di voler riempire il vuoto lasciato dai ricchi proprietari terrieri con i commissari politici inviati da Mosca.Trockij rispose mettendo nuovamente al bando i machnovisti.
La tensione si protrasse per lunghi mesi, funestati dall’aperta ostilità, da un sanguinario botta e risposta di attacchi e rispettive vendette da entrambe le parti, e da un’epidemia di tifo che colpì entrambi gli schieramenti.
Tuttavia, l’offensiva del barone Vrangel’ spinse ancora una volta i machnovisti e i bolscevichi all’azione congiunta. Il contributo di Machno fu fondamentale e i bolscevichi, costretti a riconoscerlo, concessero come ricompensa per il supporto l’amnistia a tutti gli anarchici detenuti nelle prigioni russe e la libertà di propaganda purché questa non fosse di orientamento antisovietico.
Nel giro di pochi mesi, però, il barone Vrangel’ era sconfitto e la riconoscenza, esaurita. Inoltre, l’Armata Rossa aveva ormai posizioni abbastanza solide da poter rompere senza grossi grattacapi l’alleanza con Machno, che ormai ai loro occhi era un alleato privo di utilità dal punto di vista militare e pericoloso dal punto di vista politico, perché, incarnando il più puro spirito libertario contadino, portava con sé a ogni passo la minaccia incombente di una rivolta delle campagne, attraversate dalla diffidenza nei confronti del governo sovietico che a molti sembrava costruito sull’oppressione dei lavoratori e dei contadini.
Dal canto loro, anche gli operai iniziarono a dare segni di insofferenza rispetto al rigidissimo regime del comunismo di guerra, imposto dai sovietici con l’obiettivo di indirizzare tutte le risorse allo sforzo bellico.
Ora che i Bianchi non erano più una minaccia, il comunismo di guerra ai lavoratori sembrava sempre più privo di senso.
Non erano però dello stesso avviso i bolscevichi, che erano intenzionati a proseguire quella fase come parte integrante del percorso verso la nascita della nuova società comunista. I fronti di disaccordo si moltiplicavano.
Nell’autunno del 1920 i Rossi, abbandonata la lotta di classe contro gli aristocratici, si dedicarono a tempo pieno all’opera di distruzione di quelli che una volta erano i sodali anarchici, ricorrendo anche ad arresti ed esecuzioni sommarie; sul fronte opposto, anche i machnovisti, sotto la pressione del nuovo nemico, si concentrarono sulla guerra al potere sovietico e sulla preparazione delle “terza rivoluzione”, che avrebbe rovesciato il regime bolscevico.
Tuttavia, il verbo machnovista perdeva forza ora che la furia del popolo era stata blandita dalle misure della Nuova Politica Economica, varata dal governo con l’obiettivo di calmare le masse affamate, concedendo qualche sprazzo di autonomia e libera iniziativa, e nel mentre proseguire indisturbato verso l’instaurazione di un nuovo regime autoritario.
Il movimento machnovista era sempre più fragile: le offensive contro i Rossi si rivelarono fallimentari, i saccheggi e la siccità che negli anni della guerra civile avevano impoverito quelle terre fecero il resto. L’esercito degli anarchici fu sbaragliato. Lo stesso Machno si vide costretto, nell’agosto del 1921, a superare il fiume Dnestr per entrare in Bessarabia.
Le bandiere nere dell’anarchia si abbassarono, mentre risuonò in quel lembo di steppa il requiem per la rivoluzione, lo stesso che risuono in più lingue e a più voci in punti diversi di un impero ormai tinto di rosso.