Com’è profondo il lago #1

Cronache dall’autostop

di Matteo Spertini

La sua pelle, la carrozzeria della sua Mercedes, il guardrail che scorre veloce qualche metro più in là, i tetti delle industrie oltre il paracarri e il cielo bretone, a ripensarci ora, avevano tutti lo stesso identico colore. Lo stesso grigio. La stessa tonalità acida velata d’imbarazzo controllato.

Avevamo lasciato il casello da poco, ancora lo vedevo rimpicciolirsi velocemente nello specchietto laterale dell’auto. Quanto sarà stato che viaggiavamo insieme? Un minuto, forse uno e mezzo. Mi poggiò una mano sul ginocchio, poi con un gesto ampio, come se fosse la cosa più normale del mondo – e probabilmente per lui lo era – ruotò leggermente la testa e con quel sorriso viscido esordì: “Che ne dici di fare del sesso?”

Credo abbiate intuito la situazione. Aprile 2011, Francia nord-occidentale, autostrada Les Mans-Rennes. Al casello, dopo credo venti minuti di attesa con il mio solito sorriso idiota stampato sulla faccia e il cartello in mano con la scritta RENNES S.V.P. (Rennes s’il vous plait), mi passò di fronte questa enorme Mercedes con gli abiti eleganti e puliti sulla gruccia appesa al gancio dietro i finestrini posteriori. Si fermò a qualche metro dalla sbarra del telepass, mi guardò nello specchietto mentre io stavo a guardarlo con lo zaino in mano, pronto a corrergli incontro al primo cenno. Fece una retromarcia di qualche centinaio di metri, fino a me. Accertato che viaggiavamo nella stessa direzione, buttai lo zaino nella portiera posteriore e salii al suo fianco. Il conducente era questo business-man belga vallone dell’età di mia madre, leggermente sovrappeso e con un sacco di voglia di divertirsi, a quanto pare.
“E con chi lo dovrei fare?” cercai di divincolarmi sorridente. Dai, stava scherzando sicuramente.

Mi sbagliavo di grosso. Per i 160 km successivi io cercai di concentrarmi sul grigiore uggioso che vedevo scorrere là fuori, lui continuò con le sue proposte. Continuai a rifiutare cordialmente, avvertendolo di non avere chance di penetrarmi e per favore di lasciarmi scendere alla successiva occasione, dato che la situazione non sarebbe cambiata.

Il commesso viaggiatore fu irremovibile, disse che non è certo un viscido che dà passaggi in cambio di sesso, che non si permetterebbe mai. Diceva solo così per dire, per conversare e comunque se cambiassi idea e avessi voglia anche solo di toccarci un po’ a vicenda, senza nessun impegno, sia chiaro, per lui sarebbe un piacere assecondarmi, ecco tutto.
160 chilometri che sembrarono infiniti. Voglio dire, non mi sentivo in pericolo: comunque per mettermelo dentro deve prima accostare, mi pareva un pensiero rassicurante. Comunque non sarò Mike Tyson ma un cartone sono in grado di tirarglielo, credo.

Ricordo che qualche volta riuscivo a portare il discorso verso altri orizzonti, la politica per esempio. L’argomento lo appassionava: “Certo che il vostro presidente eh! Che ne pensi?”

Argomentavo la mia antipatia verso Berlusconi, rilassato nel distogliere il centro del discorso dal mio ano. “Oh Silvio Silvio. Chissà quanto si è divertito però! E tu che dici di fare… un po’ di… Come lo chiamano?”
No la prego, discutiamo dello scandalo Sarkozy-Bettencourt, del ruolo di Gheddafi nella politica francese, le racconto del lodo Mondadori, della frode di Fininvest, mi dica del movimento indipendentista fiammingo qualsiasi cosa ma lasciamo stare il mio culo va bene? Non esce nulla di tutto questo dalla mia bocca e lo sento continuare: “Bunga-bunga! Che ne dici di fare del bunga-bunga come il tuo presidente, ragazzo?” Grazie Silvio! E pensare che ti ero così affezionato.

Sbuffavo sul sedile in pelle. Cercai di aprire il coltellino svizzero nella tasca dei pantaloni, senza farmi vedere, voglio dire il rischio che la situazione potesse precipitare non mi sembrava escluso. E invece mi beccò. E con quel maledetto sorriso malizioso lo sentii puntuale: “Che c’è che ti prude là sotto?”

Ignorai. Mi mise una mano sul ginocchio, gli dissi di toglierla. Non lasciai spazio a fraintendimenti. Ma lui sembrava non voler demordere. Lo facevo parlare, ci provavo. Era un rappresentante di una compagnia che produce macchine agricole, così viaggiava per le aziende proponendo i prodotti. Con due figlie, molto belle, sosteneva. Bionde, circa della mia età. Chissà se loro se lo immaginano papà fare il provolone con uno studente italiano raccolto al casello. Certo che no, agli occhi loro sarà un eroe come tutti i padri.
“Sai, le mie figlie si sono trasferite entrambe in città, abitano a Bruxelles ora, per studiare. Tu dove vivi a Dijon?”
In uno studentato convenzionato con la mia università.
“Fantastico, come le mie ragazze! Chissà quanto sesso fanno con gli altri studenti! Oh beate loro! E tu? Scopi a Dijon?”
Risposi con l’ennesimo sbuffo, scrollando la testa, lasciando lo sguardo vagare nella provincia francese e il silenzio impadronirsi dell’abitacolo. Fuori il paesaggio anonimo si ripeteva per chilometri, punteggiato di piccole industrie.

“Una volta ho caricato uno studente. Un ragazzo come te, bello e giovane, però molto povero. Sai era africano, aveva bisogno d’aiuto. Se ne stava sul ciglio della strada con il pollice alzato, come te. L’ho caricato, perché mi fa piacere aiutare le persone. Poi siamo stati insieme tre giorni. L’ho portato a cena nei migliori ristoranti della zona, mi trovavo dalle parti di Toulouse… Siamo stati in alberghi a quattro stelle, ce la siamo spassata! Era contento! Ti va di uscire a cena insieme stasera? Poi potresti restare da me a dormire, ho già una stanza prenotata…”
Quanto manca a Rennes? Come esco da questa situazione? L’aria in questa berlina si fa pesante.

“Non ti va. Però posso chiederti una cosa? Beh sei mai stato con un uomo?”
No.
“E come sai che non ti piacerebbe?”
Vede, non lo so. Io non credo di essere omofobo né tanto meno escludo di essere latentemente omosessuale o che un giorno i miei gusti possano cambiare. Ma mi lasci dire, signore, non ho intenzione di approfondire la mia sessualità con lei, oggi, in quest’auto. Quindi se il suo obiettivo è avere un rapporto sessuale con me, mi dispiace deluderla, ma la prego di accostare dove possibile e lasciarmi scendere. Sono un autostoppista e non ho alcun problema a chiedere un passaggio in più.
“Sei molto francese, ragazzo!” mi strizzò un occhio.

Cosa intendesse, non sono certo di saperlo e altrettanto misterioso rimane come io sia riuscito ad articolare una frase così complessa con il livello di francese che balbettavo all’epoca ma su qualcosa ho fatto luce, ora che compilo e consegno il mio cv per elemosinare gli studi grafici lombardi di un lavoro o di qualche collaborazione. L’autostop, ovviamente, non trova alcuno spazio nel mio curriculum. Ma in scale in cui non è il professionista a essere misurato ma l’uomo, esso occupa per me un posto insostituibile.

Dov’è finita la cultura beat di fare l’autostop? Dove sono gli hitchhiker ai lati delle carreggiate? Devo considerare Blablacar l’erede di questo gesto romantico e provocatorio? Quando esattamente abbiamo smesso di metterci nelle mani degli altri, totalmente e incondizionatamente, senza patetiche recensioni o like?

E’ più o meno questo che succede, chiedendo un passaggio. Si ripone la totale fiducia nel prossimo. Chi se ne sta con il pollice alzato sulla strada si affida ai passanti senza compromessi. E altrettanto fa chi decide di accostare e aprire la portiera. E’ questo elementare principio che ne fa un atto d’amore. Un gesto di pace. Una sfida al terrorismo mediatico, alla violenza strillata e a chi ci vuole chini sui monitor o vaganti in sicuri centri commerciali a comprare e spendere e spendere per annegare nel consumo frustrazioni e paure a riparo da un mondo pieno di insidie.

Si sta seduti gli uni accanto agli altri, a pochi centimetri di distanza. Perfetti estranei i cui sguardi si incrociano furtivamente, solo sporadiche volte durante il viaggio. E con gli occhi incollati sulla strada ci si confida. Somiglia a mettere dei segreti in cassaforte, come nei forum su internet, come sul lettino dello strizzacervelli; alleggerirsi di un peso che svanirà per sempre una volta richiusa la portiera alla fine della tratta. Senza conseguenze.
Come è successo con quella signora di mezza età che mi caricò qualche giorno dopo il rappresentante vallone, molto più a sud, in un mattino assolatissimo. Nemmeno sapeva il mio nome o da dove venissi e mi vomitò addosso, impetuosamente, il cancro ai testicoli del marito e le sue avventure sessuali – di nuovo, scusate – con quel tizio algerino che incontrava dall’altra parte del Mediterraneo durante le sue regolari vacanze. Mi ricordo che raccontava questa storia con il trasporto con cui io potrei parlare della gravidanza di Elisabetta Gregoraci. Non faceva mistero del razzismo che la portava a parlare del suo amante come di una creatura buona solo a soddisfare le sue voglie. E insomma – tanto credo ormai vi interessi il finale – andò che l’uomo si trasferì in Francia e fu assunto dalla coppia come giardiniere, così che potesse provvedere ai bollori della signora come ai suoi fiori e alle sue siepi.

A Rennes il mio spasimante mi lasciò scendere all’uscita dell’autostrada. Attraversavo sulle strisce mentre ancora non mi pareva vero di avere conservato intatta la mia verginità anale e sentii un clacson provenire dalla vecchia Peugeot 104 di una signora sorridente che mentre, tutta protesa, abbassava il finestrino di destra con la manovella, mi urlò: “Hey hitchhiker get in!” senza che nemmeno alzassi il pollice.

Anne-Marie mi ospitò poi per due notti. Cucinai per lei ed il figlio adolescente, che proprio in quei giorni ospitava un ragazzo di Modena per uno scambio studentesco. La sera prese una scatola dallo scaffale più alto della libreria e guardammo tutti insieme fotografie che la raffiguravano giovane, vagare per il mondo in autostop insieme a un uomo che devo dire, mi somigliava leggermente. A La Rochelle un insegnante di vela mi caricò al bordo della strada in un pomeriggio assolato, mi chiese di guidare al suo posto perché molto stanco e mi ospitò per un aperitivo nel casolare di alcuni colleghi. Mi offrirono un vino aromatizzato alle more, prodotto appena oltre la staccionata. Mi ospitò poi per la cena, che cucinai io stesso e a dormire quella notte, dopo che discutemmo a lungo dei nostri luoghi d’origine, delle nostre famiglie e di viaggi. A Brest dormii in macchina con un surfista venuto da Lyon per le onde buone.

E così scorrono nella mia memoria, a decine, i passaggi e l’ospitalità avuti in Irlanda, Mongolia, Francia, Italia. E il retrogusto amaro provato nella Mercedes del manager belga rimane sempre più solo in un affollamento di immagini serene e vivide, che fanno di quel pollice alto con un sorriso patetico stampato in faccia a prescindere dal meteo, uno dei gesti più significativi sperimentati dal sottoscritto.

Consapevole dell’egoismo che ho tenuto vigliaccamente celato al mondo, mi inchino a questi angeli della misericordia travestiti da passanti e autisti, che tutto consumano nel gesto, senza tenere niente per sé, nemmeno la purezza di quello che fanno e mi inchino convinto della loro necessità e della splendida luce che spargono sul mondo. Smarriti i tratti dei volti, i luoghi e le ragioni di certi gesti, talvolta mi ritrovo a pensare a loro. Sono persone verso le quali provo affetto, a cui auguro buona fortuna e che so di poter incontrare ancora, quando la solitudine mi affiancherà di nuovo e io sbaglierò strada.
(“L’ulitimo dio” Emidio Clementi, Fandango Editore)

Caricate gli autostoppisti, se ne trovate sulla strada.
Hitchhikers never die.

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Ogni nome – eccetto il mio – presente nei testi di questa rubrica è fittizio, al fine di proteggere l’identità dei soggetti, i quali invece, come i fatti, sono reali.
Parte dei contenuti di questa rubrica sono un’estensione testuale del mio lavoro di fotografia documentaria, che potete approfondire a www.matteospertini.com