Com’è profondo il lago #2

Romantico naadam

di Matteo Spertini

Ulan Ude, Buriazia, est Siberia, Russia

Eccoli gli eredi di Genjis Kahn. Tutti in pista barcollanti di vodka a strusciarsi sulle femmine massicce e remissive con tecniche identiche a quelle in atto delle balere di provincia romagnole, del basso Varesotto o di qualsiasi altrove di periferia. Non vedo differenze sostanziali nell’approccio, sarà che il parallelo è più o meno lo stesso e anche le dance-hall alla fine si somigliano tutte.
Le donne in abito corto lucente reclamano forse poca emancipazione su tacchi vertiginosi che le fanno camminare come dei tirannosauri. Molti degli uomini invece, sono venuti direttamente in mocassini e tuta da ginnastica; serve stare comodi, per certe acrobazie.

Mi trovo in un ristorante/discoteca cinese per il compleanno di Igor.
Igor è questo tizio che parla un inglese improbabile. Si è offerto da subito di essermi amico. Un buddista più o meno praticante, buriato di grossa taglia che vuole parlare sempre e solo dell’Arsenal di cui io francamente non so quasi nulla.

Mentre mangiamo, periodicamente viene spenta la luce, parte un disco e i clienti abbandonano i tavoli ornati a composizioni di fiori artificiali per recarsi in pista e io smetto di vedere ciò che ho nel piatto.
Le etnie buriata e russa si dividono questa repubblica federale in parti quasi uguali, quasi sempre in buoni rapporti, sarà che i buddisti sono gente accomodante.
Ma in luoghi come il karaoke con cucina coreana o qui alla balera cinese, la metà caucasica della regione quasi non sembra manifestarsi.
Molta carne odorosa di alcool e profumi esotici si muove – più o meno – a tempo di una scaletta surreale. Ricordo tra gli altri Al Bano, i Queen, Michael Jackson senza ritegno e un improbabile, almeno per me, remix dance di “Vola” della Cuccarini, con tanto di strofe cantate in russo.

Si scatenano i corpi su quest’ultima, tutti la cantano cercando di imitare qualche suono del testo in italiano e mi sento malissimo. Eccolo l’italico orgoglio sbarcato in Buriazia. Sotto le luci stroboscopiche si agita scomposto il volto drammatico della globalizzazione.

Si riaccendono i lampadari e torniamo a tavola tra vodka, portate di agrodolce, vodka, tè nero con latte, vodka, pesce crudo, vodka, eccetera, e vodka.
Poco più in là una sostanziosa coppia di comari buriate cinquantenni è in difficoltà.
Cercano di alzarsi dal tavolo zeppo di bottiglie ma l’impresa non è così semplice. Una cade. La seconda le cade addosso nel tentativo di aiutarla. Fanno una pausa, a terra. Una si trascina e torna sulla sedia, mentre l’amica con il vestito buono se ne sta sul pavimento con una gamba qua e l’altra lasciamo stare.
Chiamano la cameriera. Il conto è sbagliato, dicono. Esplode un vociare aggressivo e incomprensibile.
Audaci, tornano all’impresa.
I tacchi non aiutano. Il vestito aderente di pailette, Gesù, nemmeno. E il pubblico è intrattenuto.
Ora una vaga con le scarpe in mano, per i tavoli vuoti controllando che non sia avanzato alcool nelle bottiglie di chi già se n’è andato dal locale. Ne fa cadere una sul pavimento, di proposito. Indifferente. Intanto la socia gattona, si rialza, ricade, si gridano chissà cosa l’una all’altra.
Ora sono di nuovo entrambe a terra. Irrimediabilmente.
Tutto il locale le sfotte, ma con l’aria di chi assiste a una scena non poi così insolita.

L’umiliazione si fa lunga. Insopportabile, per un erede della decenza democristiana come me. Non ci sono abituato a questa totale assenza di formalità. Propongo a Igor di dare una mano.
Ci avviciniamo. “Serve… serve aiuto..?” fa lui insicuro, ma non riesce a finire la frase che le mature si lanciano ai nostri colli. I miei riflessi fiutano il pericolo e riesco a scamparla ma lui è irrimediabilmente braccato.

Ora è una lotta corpo a corpo. Tre carni mongole di grossa taglia si sfidano, statiche e sudate. Si abbracciano lo spogliano grida mani in faccia baci mani sotto la camicia.
“Lasciatemi stare! Aiuto!” rimbomba nella sala.
Il pubblico è sempre più divertito. Alcuni attraversano il locale per scattare fotografie con i loro smartphone, attenti a non venire coinvolti.

Questi movimenti sbronzi, sudati e un po’ troppo affettuosi mi fanno pensare – sarà che sono un poco bevuto pure io – alla tradizionale Bokh; l’antica lotta praticata durante il Naadam. Ovvero il raduno in cui il popolo mongolo si riunisce tutto, ogni luglio da Gengis Kahn ad oggi. Un rito insieme spirituale e sociale, sportivo per nulla agonistico. Una lotta immobile tra soggetti mastodontici in mutandoni e stivali a punta, che decreta il più forte tra la sua gente, il protettore del popolo. L’unificatore, trionfo degli dei della forza, l’uomo-aquila-yak-lupo.

A poche centinaia di chilometri dal confine mongolo, a Ulan Ude, Buriazia, Russia, della società di jurte, formaggio acido e bucolica sofferenza nomade, da cui le discendono le signore affettuose, rimangono poco più che souvenir per turisti e una diversamente tradizionale lotta alcoolica con movimenti vecchi di millenni, praticata in una balera odorante di alcool e agrodolce questo sabato sera.
Finalmente interviene la sicurezza.
Igor è salvo.
Sconvolto ma salvo.
Più tardi aspettiamo il taxi seduti sugli scalini insieme a una mezza bottiglia di vodka avanzata a cena. Alla nostra destra una ragazza in abito verde aderente, conserva seppur ubriaca, l’eleganza di un autotrasportatore di pelli di montone.
Il tizio che l’ha conquistata stasera la raggiunge barcollante, si inginocchia sugli scalini dell’ingresso coperti di ghiaccio e nevischio. Le offre, nel suo equilibrio precario, un mazzo di fiori avvolti in carta crespa gialla, identico a quelli che fungono da centrotavola nel ristorante.

La fortunata accetta senza smancerie. Subito si volta verso di noi con un grande sorriso alcolico e ci offre i fiori supplicando in cambio della nostra bottiglia, implorante. Lui poco dietro finge indifferenza, s’accende una sigaretta, mentre lei insiste per avere la nostra bottiglia un po’ più del dovuto.

Incredulo, la mia attenzione è attirata da un vociare proveniente dal piazzale antistante la discoteca:
le lottatrici sbronze si stanno dimenando affannate urlanti e un po’ troppo affettuose, fra quattro poliziotti accorsi con due volanti forse chiamati dal personale.
La compagna con il vestito giallo da cui escono intimità non proprio desiderate è sorretta o trattenuta dagli agenti; chissà cosa sta urlando alla socia, con quella foga. La socia non smette di tirare il poliziotto per la giacca, avvicinarlo bruscamente a se, azzardare baci appassionati quanto sgraditi.

Continuano nel nevischio, illuminati dalla luce blu lampeggiante delle volanti di polizia, i movimenti antichi di lotta nomade, in un’altra fredda notte buriata con molta vodka e musica dance e smartphone, ma senza più cavalli né tende di feltro.

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Ogni nome – eccetto il mio – presente nei testi di questa rubrica è fittizio, al fine di proteggere l’identità dei soggetti, i quali invece, come i fatti, sono reali.
Parte dei contenuti di questa rubrica sono un’estensione testuale del mio lavoro di fotografia documentaria, che potete approfondire a www.matteospertini.com