Nella luce della steppa
di Matteo Spertini
Okinskiy Rayon, Buriazia, Siberia, Russia
Non ricordo il nome di questa cinquantina di piccole case di legno con gli infissi dipinti d’azzurro, ognuna circondata da palizzate ordinate e rustiche. Più che un villaggio, un barlume impolverato di civiltà nelle sconfinate vallate di steppa. Dalla collina pare quasi più piccolo della casa di accoglienza per adolescenti che si trova alla sua estremità, dove trascorro il weekend.
Un mastodontico, irreale caseggiato a “U” rosa chiaro, disposto su tre piani ospita ragazzi tra gli undici e diciotto anni. Cinquantatre maschi e sei femmine.
A bordo del furgoncino bianco che ci è venuto a prendere all’inizio della strada sterrata, una decina di chilometri più indietro, oltrepassiamo il cancello di una recinzione nera sormontata da filo spinato, aggiriamo l’edificio ed eccoci all’entrata pulita e relativamente maestosa.
Mattonelle grigie formano la piazza di fronte al palazzo, al centro di essa una fontana non esagerata ma comunque kitsch, esige attenzioni. Affianco al recinto all’interno del quale ci troviamo, ce n’è un altro in asticelle di legno anch’esse sormontate da filo spinato. Racchiude un deposito d’acqua posto in cima a un trabiccolo alto forse sette metri.
È solo una stupida cisterna ma mi è impossibile non immaginarvi una sentinella all’interno pronta a sparare su chissà chi. “Guantanamo” alza un sopracciglio Alex (il volontario tedesco), guardandomi.
Saliamo sei scalini, attraversiamo le porte di vetro salutando un portiere annoiato davanti a telecamere a circuito chiuso assai meno affascinanti di quelle della Rinascente, ed eccoci all’interno. Soffitti altissimi, lampade di luce fredda, ragazzini si accalcano per presentarsi come se fosse arrivata una qualsiasi rockstar a far loro visita.
Inusuale sentirsi tanto attesi da una piccola folla di sconosciuti.
Mentre il personale ci offre tè caldo con latte, pane, burro, marmellata e wafer, la direttrice insiste perché facciamo un tour della struttura. Così, capitanati dalla nostra co-ordinatrice, in prima fila con una reflex Canon pronta a sparare flash ovunque sebbene la sottoesposizione fosse l’ultimo dei problemi, ci lanciamo alla visita di: refettorio, palestra, campo interno di basket e calcetto, aree comuni, campetti e parco giochi esterni, sale tv, cucine, bagni e camere da letto.
Nei corridoi su bacheche di legno sono ordinatamente appesi disegni degli ospiti. La gamma di soggetti non è purtroppo molto vasta: carri armati che sparano, carri armati che non sparano, soldati sanguinanti, soldati sorridenti, soldati sanguinanti e sorridenti, fucili, pistole, kalashnikov, bombe, missili, bandiere.
Gli educatori raccontano che nel tempo libero, le attività principali dei ragazzi sono il pugilato, il bodybuilding, un po’ di calcio e svariati stili di ozio. Hanno tavoli da ping pong, computer, televisori lcd, impianti home theatre, videogiochi, poltroncine-sacco e una vasca di boccette in plastica in cui ci si può tuffare prendendo la rincorsa illuminati da luci blu al neon.
Non avvisto alcun libro, o strumento musicale, o cavalletto o arnese che possa servire per dipingere, scolpire o simili. Nè laboratori di falegnameria o meccanica o altro.
Vengo informato che questo è un orfanotrofio di livello molto alto, rispetto alla media, attrezzato di tutti gli svaghi eccetera.
Finalmente termina il giro di ricognizione e posso smettere di fare irruzione nella privacy altrui con la mia squadriglia umanitaria.
Presto mi trovo un pallone tra le caviglie e ho la sensazione che quello è il modo in cui trascorrerò le successive trenta ore. Non sbaglio. Mentre tento di fare qualche palleggio con i più giovani degli ospiti nel campo interno di calcetto, intorno altri si allenano con i pesi e a tirare cazzotti. Si danno consigli a vicenda su mosse, pugni e postura.
In fondo al campo invece ci si esercita con i pesi. La vista di un ragazzetto, che mi arriva forse alle costole, mentre solleva con dedizione un bilanciere enorme mi impressiona leggermente, ma ho una partita da giocare su cui concentrarmi.
Dopo pranzo la direttrice davanti a due dozzine dei ragazzi dice a voce molto alta che adesso Matteo gli parlerà del paese da dove viene.
“Ciao! Sono Matteo e vengo dall’Italia!”
Silenzio.
“Qualcuno conosce l’Italia?”
Silenzio.
“Qualcuno sa qual è capitale dell’Italia?”
Silenzio. Poi mentre sto per perdere le speranze, Dima, un quattordicenne con capelli castani, sguardo irrequieto e braccia e mani molto tatuate, con convinzione azzarda un “Cile!?”
“Beh l’Italia è piccina ma ci sono il mare, le montagne e le colline
e Venezia, Roma e Milano… e la pasta, la pizza, Leonardo Da Vinci, Caravaggio…”
Silenzio.
Non ho il minimo impatto sui loro occhi nonostante mi dimeni tra sorrisi ed entusiasmo. Uno di loro indossa una felpa del Milan, forse degli anni Novanta, altri due recenti maglie dell’Inter e nelle camere ho visto molti poster di calciatori.
“Io sono di Milano, dove ci sono il Milan e l’Inter, El Shaarawi, Balotelli, Thiago Motta…”
Silenzio.
“E l’Italia ha vinto i mondiali nel 2006! Cannavaro, Totti, Del Piero…”
Silenzio.
Il calcio non sembra poi essere questo così accattivante stimolo.
Poi la direttrice finge interesse e le racconto cosa significa per noi il 25 aprile, condisco con qualche battuta sul presente volontario tedesco e mi libero dell’imbarazzo.
Raggiungo uno degli educatori in pausa sigaretta. Lo ringrazio per la calorosa accoglienza e con l’aiuto di Alex, il quale parla un ottimo russo, gli chiedo qual è la prospettiva dei ragazzi una volta maggiorenni, quando lasceranno la struttura smettendo di essere sotto la “protezione” dello stato.
Aspira leggermente più fumo del solito:
“Drink vodka.”
***
Sasha a pranzo si dimostra piuttosto incuriosito dal sottoscritto, passiamo molto tempo insieme tra una partita di calcio, la merenda e altre partite di calcio.
Ha dodici anni, biondo, piuttosto alto, un buon controllo di palla, occhi svegli ma pacati. Gli piace sedersi a tavola con gli adulti, ascoltare me e Alex parlare inglese, domanda il perché di questo e quello con sincera curiosità. Chiede in continuazione di usare la mia macchina fotografica. La tiene con cura e si impegna nel cercare inquadrature.
Mentre aspettiamo il tè pomeridiano, si mette a disegnare su un tovagliolo con un pennarello verde trovato per terra. Si accorge che lo sto guardando, sforzo un sorriso ma straccia con frenesia il disegno.
Era una bottiglia di un alcoolico, in mezzo a due mitra, kalashnikov o qualcosa di simile.
Dopo cena ho un gran bisogno di fare due passi in silenzio e respirare aria fresca. Mi segue e giochiamo a calcio nella brezza serale della steppa. Oltre la recinzione mandrie di vacche pascolano nella prateria incredibile e punteggiata di spazzatura e cavalli selvaggi smagriti corrono sagomati dal tramonto. La luce orizzontale indurisce le ombre, sottolinea i contrasti, le inadeguatezze, i tratti grotteschi della realtà.
Sasha mi racconta di essere cresciuto nell’orfanotrofio di Malyshok, la struttura dove lavoro durante la settimana a Ulan Ude, in città. Ha passato la sua intera giovane vita in strutture pubbliche dai corridoi enormi e odorosi di detersivo e minestra, vivendo in gruppo con coetanei, con rari momenti di silenzio e sporadiche occasioni di avere l’attenzione di un adulto tutta per se.
Ha aspettato per tutto questo tempo una richiesta di adozione che non è mai arrivata. Si sono prese cura di lui solo persone che lo facessero per lavoro, scandite dai turni, dagli appalti eccetera. E uno di questi sono io.
Un altro venuto da chissà dove a fortificarsi l’autostima, a trascorrere mezza giornata giocando a pallone per raccontarlo poi in patria tra lo stupore dei conoscenti. A mettergli un braccio intorno alle spalle e pretendere che sorridesse quel pomeriggio.
Un altro che dalla vita ha avuto tutto senza nemmeno il bisogno di chiederlo, è venuto a esigere che avesse fiducia negli umani e nel futuro. A organizzare giochi di gruppo e pretendere entusiasmo.
Un altro sparito il mattino dopo sul furgoncino bianco prima che si svegliasse, così da evitarsi lo spiacevole inconveniente dei saluti.
Ma Sasha appare sui gradini dell’ingresso con il pallone logoro sotto il braccio. Sventola la mano libera e accenna qualcosa di simile a un sorriso, mentre il conducente avvia il motore e fa manovra intorno alla fontana in una domenica mattina per qualcuno soleggiata, per qualcun’altro infame.
Ricambio.
E il cortile di quella struttura enorme e assurda, con un ragazzino biondo in ciabatte e calzettoni dell’Inter all’ingresso, si dissolve nella polvere.
***
Ogni nome – eccetto il mio – presente nei testi di questa rubrica è fittizio, al fine di proteggere l’identità dei soggetti, i quali invece, come i fatti, sono reali.
Parte dei contenuti di questa rubrica sono un’estensione testuale del mio lavoro di fotografia documentaria, che potete approfondire a www.matteospertini.com
Questo il presidente non lo sa è il lavoro fotografico che Matteo Spertini ha realizzato negli orfanotrofi in Siberia, durante il suo anno di viaggio nella regione.
L’intro della rubrica è stata pubblicata qui
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