Quando rimuovere un articolo è necessario ma insufficiente
di Alberto Savioli e Francesco Petronella*
Lo scorso 4 gennaio sul sito di La Repubblica è stato pubblicato un pezzo non firmato dal titolo “Siria, le
narrazioni fasulle dell’Osservatorio siriano sui diritti che copre i crimini dei cosiddetti ‘ribelli'”.
L’articolo, che partiva dalla news riguardante la morte di 28 civili a seguito di raid aerei russi e del regime nella Ghouta Orientale, si risolveva nell’ennesima filippica contro il Syrian Observatory for Human Rights (Sohr), definito una fonte inattendibile che nasconde le violazioni e i crimini dei ribelli.
Questi ultimi, invece, vengono descritti dall’articolo de La Repubblica semplicemente come terroristi di ispirazione islamica tout court(e questo spiega l’immagine ritraente miliziani dell’Isis che accompagnava il pezzo).
Prima di entrare nel merito di Sohr, è opportuno precisare che il più importante giornale italiano ha modificato il pezzo, il titolo in particolare, a poche ore dalla pubblicazione dell’originale.
La nuova versione dell’articolo, questa volta firmata da Carlo Ciavoni, titolava: “Siria, chi c’è dietro l’Osservatorio sui diritti”.
Poche ore dopo ancora è comparsa la terza ed ultima versione dell’articolo intitolata “Siria, il difficile mestiere di informare”, nuovamente in forma non firmata. Il nuovo pezzo, completamente differente dalle due stesure precedenti, è una panoramica delle fonti utilizzate dai media per coprire la crisi siriana.
Il testo è preceduto dal seguente disclaimer: “Il 4 gennaio in questa pagina è stato pubblicato un articolo dal titolo “Siria, le narrazioni fasulle dell”Osservatorio siriano sui diritti’ che copre i crimini dei cosiddetti ‘ribelli'” che non rispettava gli standard di accuratezza e imparzialità di questa testata. Ce ne scusiamo con i lettori. Quello che
segue è un tentativo di fornire un punto documentato e il più possibile oggettivo sullo stato dell’informazione riguardo alla guerra in Siria.
Come mai questo cambiamento?
L’articolo, prima versione, è stato segnalato alla testata da diversi soggetti ed ha suscitato immediatamente
un grosso dibattito sui social. A prescindere dal contenuto, di cui si discuterà a breve, gli standard non
rispettati da La Repubblica riguardano la forma e l’utilizzo delle fonti.
Alcuni attivisti che si occupano di social media, con una rapida ricerca internet, si sono accorti in un batter d’occhio che la versione iniziale dell’articolo altro non era se non un raffazzonato collage di pezzi (vecchi di un paio d’anni) di siti web come controinformazione.info, che a sua volta riprende ilfarosulmondo.it.
L’autore del pezzo, che sia Ciavoni o meno, utilizza fonti alquanto improbabili (citate entrambe da siti anti-bufale come Butac) proprio in un articolo in cui descrive Sohr come una fonte inattendibile. Il bue che dice cornuto all’asino, verrebbe da dire.
Il dietrofront di La Repubblica, che è quanto di più meritorio si potesse fare, ha comunque scatenato la
fantasia di tutta quella galassia di siti vicini alle posizioni del regime di Assad e al governo russo, in odore di ‘rossobrunismo’, come viene definita quell’unione tra le frange più estreme del panorama politico, dove convergono radicali di sinistra e di destra.
Da L’Antidiplomatico a Il primato nazionale, da Vietato parlare ad Ancora fischia il vento fino a L’intellettuale dissidente, tutti hanno descritto il pezzo di La Repubblica (prima versione) come una crepa inaspettata e meravigliosa in un impianto di menzogne ben radicato.
Secondo costoro, Ciavoni sarebbe stato richiamato all’ordine da non meglio specificati ‘poteri forti’ che ne hanno appunto censurato l’opera di svelamento.
In realtà lo stesso Ciavoni, pur lasciando aperti i dubbi sull’autorevolezza di Sohr, ha ammesso in un tweet di aver fatto lavoro non proprio eccelso a causa della fretta di pubblicare.
Passiamo al contenuto: cos’è Sohr e come mai viene attaccato?
L’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani è un ufficio informazioni fondato nel maggio 2006 che documenta
le violazioni dei diritti umani in Siria.
In realtà, e questo è uno dei principali motivi di critica, l’ufficio è composto da un’unica persona di nome Rami Abdelrahman, pseudonimo di Osama Suleiman; tuttavia si appoggia su una fitta e consolidata rete di attivisti e testimoni sul posto, secondo un profilo del Times sarebbero quattro collaboratori che si avvalgono di più di 230 attivisti sul campo.
Altro motivo di critica è il fatto che l’Osservatorio sia basato a Londra, nella residenza di Abdelrahman a Coventry.
A livello di schieramento, Sohr è considerato un organismo anti-Assad e vicino ai ribelli.
Di articoli che attaccano Sohr basandosi su questi elementi, il web è strapieno. Persino Matteo Salvini, in un
video pubblicato ad aprile dell’anno scorso, utilizzava queste argomentazioni per attaccare Sohr e per lanciare dubbi sul fatto che le forze del regime avessero lanciato il famoso attacco chimico a Khan Sheikhun.
L’Osservatorio, definito come attendibile dalle indagini delle Nazioni Unite e di Amnesty International, è
una delle fonti più citate dalle agenzie stampa e dalle testate internazionali come Reuters, CNN, BBC etc.
Questa autorevolezza, spesso data da chi cita più che dalla fonte stessa, si è probabilmente sedimentata sin
dai primi anni della crisi in Siria, per poi cristallizzarsi soprattutto per motivi di praticità (Sohr pubblica
notizie in inglese, non in arabo come altre fonti sul campo).
Il fatto che sia una fonte vicina ai ribelli (e in odore di Fratellanza Musulmana) è ben noto a chi si occupa di
Siria. Questo, però, non inficia a priori la veridicità di ciò che riferisce, specialmente se confermato da altre
fonti.
Alcune fonti.
Se è evidente che la complessità della situazione siriana si riflette anche sulle fonti che narrano il conflitto, e
non sempre è facile districarsi in questo ginepraio, è altrettanto palese che l’informazione non possa essere
lasciata a giornalisti poco attenti, frettolosi o che utilizzano come fonte blog o siti diffusori di fake -news.
Sulla questione delle fonti già nel 2011 il corrispondente Ansa a Beirut, Lorenzo Trombetta a proposito di Sohr scriveva: “I sostenitori siriani e stranieri del regime di Damasco si sono accaniti sull’Osservatorio, accusandolo di essere un centro finanziato dall’Occidente per diffondere menzogne. Nessuno di questi critici conosceva Sohr prima del 15 marzo 2011. Se ne sono accorti solo a inizio della repressione. Eppure da anni l’Osservatorio denuncia arresti di dissidenti e oppositori, rivolte nelle carceri, violazioni di vario tipo commesse dal regime. Tutte denunce confermate dai fatti in questi lunghi anni”.
Tra le organizzazioni più serie che documentano le vittime di guerra c’è il Violations Documentation Center
in Syria (Centro di documentazione delle violazioni in Siria o Vdc), frutto del lavoro di attivisti e ricercatori
siriani sul campo, in collegamento con i Comitati di coordinamento locali (Lcc).
Dopo un lungo lavoro di verifiche incrociate, il Vdc pubblica in un database consultabile online il nome della vittima, le generalità, il luogo dell’uccisione e la circostanza della morte, specificando se si tratta di civili o militari.
Vengono spesso allegate foto e link a video amatoriali in cui si mostra il corpo della vittima. Lama Fakih, di Human Rights Watch, che usa il VDC come riferimento, ha descritto come questo opera, “hanno più di un attivista in un luogo, e gli attivisti non sono in contatto tra loro. Raccolgono informazioni separatamente, e poi usano questi dati per corroborare le informazioni che ricevono”.
Dai sostenitori del regime siriano queste organizzazioni vengono accusate di essere di parte poiché operano spesso in aree controllate dalla galassia ribelle. Ma l’imparzialità del Vdc ad esempio, è testimoniata anche dai fatti accaduti a uno dei fondatori, l’avvocato e attivista Razan Zeituneh.
La Zeituneh ha fornito testimonianze dirette sull’attacco chimico dell’agosto 2013 nella Ghuta (Damasco), ed è stata tra i primi a puntare il dito contro il regime di Damasco. Ma è stata anche tra i primi attivisti ad aver documentato le violazioni commesse dai ribelli.
Per questo motivo è stata rapita assieme ad altri tre collaboratori (Samira al-Khalil, Wael Hamada e Nazim Hammadi) a Douma il 9 dicembre 2013. Della sua scomparsa è stata accusata la Brigata dei Leoni della Ghouta (Liwa ‘Usud al-Ghouta), una banda di ladri affiliati a Salim Idris dell’Esercito siriano libero (Esl).
Un’organizzazione altrettanto seria è The Syrian Network for Human Rights (Snhr), che fornisce dati simili a quelli del Vdc ma aggiunge anche informazioni statistiche sui bombardamenti, le munizioni utilizzate, i responsabili degli attacchi e su argomenti specifici. A tutti gli effetti Snhr è riconosciuto come strumento di informazione attendibile.
Per notizie specifiche ci sono diversi siti di think tank come ad esempio Syria Deeply, che dedica alla Siria una copertura sistematica e scrupolosa, è stato co-fondato dalla giornalista americana Lara Setrakian, esperta di politica del Medio Oriente.
Syria Deeply, per tracciare i dati e documentare la crisi siriana,si avvale della tecnologia di crowdsourcing Ushahidi, che riunisce corrispondenti freelance dal Medio Oriente, è una combinazione di attivismo sociale e citizen journalism.
Del supporto di Ushahidi si avvalgono anche canali di informazioni su argomenti particolari come Women Under Siege e Syria Tracker.
Un occhio non necessariamente siriano è The Tahrir Institute for Middle East Policy, che si occupa di analizzare e sostenere tramite l’informazione le transizioni democratiche nel Medio Oriente, in particolare in Egitto.
Tra i suoi autori c’è Hassan Hassan, vice-opinion editor per The Guardian, giornalista esperto dell’est siriano e dell’Iraq, delle relazioni intertribali e dell’Islam militante.
Diversi analisti si occupano di Siria, oltre al già citato Hassan Hassan c’è Charles Lister, del Middle East Institute per il quale ha gestito un progetto di controterrorismo; ha incontrato diverse volte i leader di oltre cento gruppi armati di opposizione.
Oppure Aron Lund, scrittore svedese di questioni mediorientali della The Century Foundation e membro del Center for Syrian Studies della St. Andrew’s University di Edimburgo.
Joshua Landis, direttore del Center for Middle East Studies, si occupa della politica siriana da molto prima dello scoppio delle Primavere arabe. Aymenn Jawad Al-Tamimi, originario di Mosul e laureato all’Università di Oxford, è citato dai principali media statunitensi, è uno dei principali esperti sullo Stato islamico.
Dell’operato del blogger Eliot Higgins, che usa lo pseudonimo Brown Moses, e del suo sito Bellingcat, si è avvalsa anche l’organizzazione internazionale per i diritti umani Human Rights Watch.
Higgins è stato accusato di essere di parte dai sostenitori di Assad, per aver documentato l’uso di bombe a grappolo e bombe a botte usate dal regime. Ma Higgins è stato anche il primo a individuare l’uso tra i ribelli di armi croate fornite dall’Arabia Saudita, col governo degli Stati Uniti a conoscenza dei fatti.
Altrettanto schierato ma valido è il giornale Enab Baladi, consultabile anche online. È nato alla periferia di Damasco nel 2011 e un anno dopo è stato chiuso dalle forze governative. Trasferito nella Turchia meridionale sostiene di avere una tiratura di 7mila copie nelle zone di Aleppo, Latakia e Idlib.
Infine una schiera di media-attivisti e citizen-journalist (“giornalisti partecipativi”) è sorta dal conflitto siriano, per documentare quanto accade soprattutto in aree controllate dall’Isis o da milizie qa’idiste, dove i giornalisti occidentali non possono entrare.
Il fotografo e media-attivista Firas Abdullah, del Ghouta Media Center di Douma, da ottobre 2017 ha iniziato una campagna mediatica per informare la comunità internazionale sull’assedio della Ghouta orientale che dura da quattro anni e che ha portato alla morte per fame di bambini e civili, senza contare gli incessanti bombardamenti delle forze governative.
Tuttavia si è espresso anche contro i due gruppi armati che controllano l’area, Jaish al-Islam e Failaq al-Rahman, perché interferiscono negli affari pubblici e privati della popolazione, e i pochi alimenti che entrano vengono sottratti dai miliziani.
Rami Jarrah è un giornalista siriano nato a Cipro e cresciuto in Svezia. Arrestato durante una protesta a Damasco nel 2011, è stato torturato dagli agenti dei servizi segreti. Co-produce ANA News Media Association, un gruppo indipendente che offre formazione e supporto a una rete di giornalisti in Siria.
Jarrah, sicuramente schierato sulle sue posizioni, ha accusato i media occidentali di aver trascurato il fatto che gli attacchi aerei siriani e russi su Aleppo, abbiano bersagliato zone residenziali non sotto il controllo dell’Isis, uccidendo indiscriminatamente civili e ribelli.
Tim Ramadan è lo pseudonimo di un giornalista siriano. Ha collaborato con il gruppo Raqqa is Being Slaughtered Silently che ha denunciato i crimini dello Stato islamico nella città di Raqqa. Ha fondato un’organizzazione, Sound and Picture, per far arrivare al mondo notizie su quello che accade.
Fonti di parte, non di propaganda.
A un livello inferiore dell’universo dell’informazione siriana ci sono organizzazioni, siti di informazione, blog,pagine facebook e canali twitter di media-attivisti che possono venire utilizzati come strumento di indagine e testimonianza, ben sapendo che si tratta di racconti di parte se non decisamente schierati.
Una cosa sono le fonti schierate che sostengono una certa fazione politica e fanno vera e propria propaganda alterando o addirittura fabbricando i fatti. Altra cosa sono le fonti di parte. Per fare un esempio, Abdalaziz Alhamza è un giornalista co-fondatore del noto gruppo Raqqa is Being Slaughtered Silently.
Si tratta di una fonte di parte in quanto da subito ha denunciato le violazioni che avvenivano nella città di Raqqa da parte del regime. Ma ha continuato a farlo quando la città è stata catturata dallo Stato Islamico, ed è grazie a questo gruppo se abbiamo avuto racconti, foto, video e testimonianze di quanto stava accadendo sotto l’Isis.
La serietà del lavoro di molti media-attivisti e citizen-journalist, accusati di parzialità dai media di regime e di connivenze con i “terroristi”, è dimostrata da un esempio.
Quando i pulmann con i civili sciiti che venivano evacuati dai villaggi di Fuaa e Kafraya sono arrivati alla periferia di Aleppo, a Rashi din sono stati attaccati da un gruppo ribelle che ha compiuto un attentato suicida uccidendo una ventina di persone. Sono stati proprio i media-attivisti come Abd Alkader Habak a documentare l’attacco, a soccorrere i feriti e dare informazioni di quanto era accaduto. Inoltre è stato il bistrattato Osservatorio di Rami Abdelrahman a fornire il numero di 24 morti.
In questo caso l’Osservatorio non è stato messo in discussione, e il materiale dei media-attivisti è stato utilizzato per documentare i fatti.
Un errore più grave di ciò che sembra.
Non servirebbe dirlo, ma sta al giornalista serio verificare le informazioni incrociando i dati. Come ha scritto Massimiliano Trentin, ricercatore e studioso di Storia internazionale del Medio Oriente e del Nord Africa all’Università di Bologna: “In situazioni di guerra rimane indispensabile incrociare più fonti, anche se queste non rispecchiano le proprie opinioni”.
Eliot Higgins spiega come debbano essere usate queste fonti: “Le persone devono iniziare a pensare ai rapporti sui social media non come singole informazioni, ma come parte di una rete”.
Per fare un esempio, l’attacco aereo governativo che ha colpito il mercato di Douma, nell’agosto 2015, e che ha provocato 110 vittime e 300 feriti tra la popolazione civile, è stato documentato incrociando i dati, le informazioni e i video forniti in modo indipendente dall’Osservatorio, dal media-attivista Firas Abdullah e della Protezione Civile di Douma.
Delegittimare una singola fonte è ciò che fanno i media di regime e i siti di “controinformazione”, da cui suo malgrado ha attinto Carlo Ciavoni. Questo è il motivo per cui La Repubblica ha modificato il pezzo. Nessun complotto o coercizione da parte dei poteri forti.
Ma il risultato di quest’errore è che l’articolo di Ciavoni è diventato virale, mentre la rettifica di Repubblica è servita solo ad alimentare i sospetti di chi con entusiasmo aveva condiviso l’articolo.
Questo “grave errore, risultato imperdonabile della fretta”, come scrive Ciavoni, è colpevole non solo verso la corretta informazione e i lettori, ma è colpevole nei confronti di quei giornalisti siriani che per fare correttamente il loro mestiere e raccontare la verità a volte negata in occidente, muoiono.
*Alberto Savioli: Archeologo ed esperto di tribù beduine, ha lavorato in Siria dal 1997 al 2010, poi in Libano, Turchia, Arabia Saudita e Iraq. Attualmente è impegnato nel Progetto Archeologico Terra di Ninive nel Kurdistan Iracheno. Dal 2011 ha partecipato attivamente alle vicende della rivolta siriana, ha fatto parte della redazione del sito web SiriaLibano e ha collaborato con la rivista di geopolitica LiMes.
*Francesco Petronella: lavora nella sezione esteri del giornale online “il24.it” occupandosi di politica del Medio Oriente e del Nord Africa. Co-fondatore del blog “Dialogare Conoscendo” è editor per il magazine “Sedici Pagine” e per il blog collettivo sulla Siria “Le voci della libertà”. Ha scritto articoli per QcodeMag e Il Sussidiario.