Ammessi i ricorsi di 5 cittadini sudanesi rimpatriati il 24 agosto 2016 dopo un accordo di polizia tra l’Italia e il governo di Al Bashir
tratto da Redattore sociale
L’Italia rischia una nuova condanna alla Corte europea dei diritti dell’uomo per un respingimento collettivo, dopo quella avvenuta nel febbraio 2012 per il caso Hirsi. Stavolta a portare il nostro paese davanti alla corte di Strasburgo sono 5 cittadini sudanesi, rimpatriati illegittimamente il 24 agosto del 2016, in seguito ad un accordo tra il capo della polizia italiana e il suo omologo del Sudan.
Il governo italiano ha tempo fino al 30 marzo per rispondere alla Cedu e la sentenza non arriverà probabilmente prima di un anno ma ora sulla vicenda “si apre un dibattito pubblico, si entra nel merito del processo, nessuno potrà dire che non sapeva”. A sottolinearlo è Salvatore Fachile, avvocato di Asgi, in una conferenza stampa organizzata oggi a Roma insieme ad Arci.
Sono state proprio le due organizzazioni, insieme ad una delegazione di parlamentari europei, che tra il 19 e il 22 dicembre 2016 si sono recate a Khartoum ad incontrare i ragazzi respinti, oggi ricorrenti.
I ricorsi sono stati dichiarati tutti ammissibili. All’Italia viene contestata la negazione del diritto di difesa dei cittadini sudanesi, la negazione della possibilità di fare richiesta d’asilo e la violazione del divieto di discriminazione.
“Il rimpatrio di queste persone è stato fatto dopo una serie di retate avvenute al confine con Ventimiglia – aggiunge Fachile. Si tratta di persone provenienti dalla zona del Darfur, che hanno cercato in tutti i modi di presentare domanda d’asilo. Alcuni di loro hanno fatto resistenza fisica sull’aereo, che li stava riportando indietro, e sono stati fatti scendere a terra. Hanno dunque potuto fare domanda d’asilo in Italia e ora hanno ottenuto lo status di rifugiato. E’ noto a tutti che anche le altre persone sul volo sarebbero potute essere riconosciute come rifugiati”.
L’avvocato dell’Asgi spiega che l’accordo di polizia tra l’Italia e il governo di Al Bashir è stato fatto 20 giorni prima della retata, “è stato fatto addirittura un bando per scegliere quale compagnia potesse riaccompagnare indietro queste persone, in un paese dove sono soggette a persecuzioni sistematiche.
Era tutto alla luce del sole – prosegue Fachile -. Nonostante questo il governo per ragioni politiche ha ordinato i rimpatri. E’ una mossa illegittima che abbatte il principio democratico di non rispedire le persone verso luoghi in cui possono morire”. Quello che ci si aspetta dalla Cedu, spiega, è anche un risarcimento danni per i cittadini sudanesi.
“Punteremo a fargli avere anche un risultato maggiore: possibilità di entrare in Italia e fare richiesta d’asilo. Se poi l’Italia deciderà di non dare questi 5 visti ci rvolgeremo al Tribunale civile di Roma”.
Della delegazione in Sudan faceva parte anche Sara Prestianni di Arci, che ha sottolineato il ruolo del governo italiano come “apripista in Europa del principio dell’esternalizzazione delle frontiere. Dopo di noi è stato fatto da altri stati, come la Francia e il Belgio. In Belgio, in particolare, per la vicenda analoga della deportazione di cittadini sudanesi si è aperta una crisi di governo con mozione di sfiducia verso il ministro responsabile Theo Franken. L’impunità del governo italiano a un fatto altrove considerato molto gravo fa riflettere”.
Prestianni spiega che il nostro governo era a conoscenza dei casi di tortura e morte in Sudan. “Nella nostra missione a Karthoum abbiamo cercato di capire anche il ruolo centrale del governo sudanese nel controllo delle sue frontiere, in particolare per bloccare le partenze dall’Eritrea – aggiunge – Nella zona Sud si è istituita una forza di controllo, in cui sono stati riciclati alcuni capi janjawid che hanno preso parte agli eccidi in Darfur.
Quello che sappiamo è che c’è un clima di terrore negli stati del Darfur. In tutto ciò l’Unione europea continua a finanziare progetti per rafforzare l’ esternalizzazione delle frontiere e a dialogare con capi di stato come Al Bashir. La popolazione sudanese stessa è convinta che finché ci sarà questo dialogo non si potrà avere mai giustizia per quanto avvenuto in Darfur”.
Il progetto di esternalizzazione delle frontiere ha però come conseguenza quella di produrre altre morti, secondo Filippo Miraglia, vicepresidente dell’Arci: “esprimiamo soddisfazione per la notizia dell’ammissibilità del ricorso di queste persone a cui è stato impedito di presentare domanda d’asilo. La scelta dell’Italia di trasferire la responsabilità del blocco delle frontiere ad altri governi sta facendo già molte vittime – spiega – tragedie e morti, che non vedremo perché non accadranno in mare ma in altre frontiere, come quella del Sudan, molto più lontane dai nostri occhi. Inoltre in Africa i governi stanno facendo accordi da anni per la libertà circolazione, che ora da noi viene rimessa in discussione, in una sorta di neocolonialismo”.
Per Miraglia è sorprendente il silenzio dei partiti politici sulla vicenda: “in campagna elettorale quanto avvenuto non avrà grande spazio. Il governo italiano a guida Gentiloni ha fatto queste azioni con il ministro Minniti, già elogiato da tutti, da destra e sinistra. Ma per noi i diritti non possono essere sacrificati in nome del consenso elettorale. Andremo avanti anche sulla vicenda delle risorse per la cooperazione distratte al fine di esternalizzare le frontiere”.
E proprio sulla vicenda dei 2,5 milioni di euro del Fondo Africa, utilizzati per rimettere in efficienza le motovedette della guardia costiera libica, Giulia Crescini, avvocata Asgi, ricorda che la sua associazione ha presentato un ricorso al Tar: “dovranno dirci se questo utilizzo è corretto, e soprattutto se è corretto rispetto a quanto prevede la Costituzione italiana. Inoltre – aggiunge- in questa fase stiamo presentando un nuovo ricorso sul Fondo Africa: non chiediamo più che si giudichi solo il decreto da 2,5 milioni euro ma di guardare in modo più ampio all’intesa. Stiamo aspettando la fissazione dell’udienza per fine gennaio”.