Russia, cento anni di una rivoluzione
di Maria Izzo
Nell’estate del 1914 un uomo si aggirava per Milano in cerca di Filippo Turati.
Aveva in tasca una lettera, un foglio di carta che gli avrebbe permesso di imbarcarsi a Venezia e intraprendere un lungo viaggio. I suoi compagni di partito in Svizzera gli avevano raccomandato di consegnarla a Turati, che però, con la bella stagione al suo culmine, probabilmente sopraffatto dall’afa, si era rifugiato in campagna.
Quell’uomo – il suo nome era Noé Jordania – non aveva molto tempo: da poche ore era scoppiata la Prima Guerra Mondiale e lui aveva fretta di tornare a casa in Georgia, una terra distesa sulle pendici meridionali del Caucaso che, digradando, conducevano l’Impero russo verso l’Oriente.
La sua patria lontana era un crocevia di popoli e di strade coronate dai monti selvaggi, boschi e antichissime chiese, che narravano una storia di secoli in una lingua oscura, ma ricca e complessa.
Così come lo era il passato di quella provincia, un tempo regno di illuminati sovrani, ora fragile margine esposto alle mire e alle invasioni di imperi belligeranti. L’ultima arrivata a fare da padrone indiscusso era la Russia.
Poco più di un secolo prima, infatti, l’Impero russo aveva disposto una controversa annessione della Georgia che invece da Pietroburgo cercava protezione dalla minaccia ottomana.
Nel corso degli anni gli zar che si erano alternati sul trono nei confronti delle minoranze avevano avuto un atteggiamento altalenante, che si traduceva in un orientamento russificatore imposto con mano più o meno pesante.
Nicola II, lo zar che sedeva in quegli anni sul trono, non era certamente un modello di benevolenza nei confronti dei suoi sudditi. Non lo era per intellettuali, operai, contadini, né tantomeno delle minoranze, trattate con un cerimoniale ben lontano da quello di corte.
Ma alla forza del pugno imperiale già se ne opponeva un’altra uguale e contraria. Se da un lato il sovrano cercava di omogeneizzare il suo variopinto impero, imponendo la veste uniforme della lingua russa e dell’Ortodossia, dall’altro le etnie non russe, sull’onda di una nuova mobilità sociale, spinte dall’alfabetizzazione e dalla modernizzazione, diventavano lentamente nuove nazioni in cerca di autodeterminazione e di dignità per i propri simboli identitari.
Prime fra questi le loro lingue, che, forti di un riscoperto valore letterario, sempre di meno si lasciavano stipare come umili utensili da lavoro negli scantinati dell’uso quotidiano e aspiravano ormai a sostituire quel russo solitamente esibito nel salotto buono. Da chi, ovviamente, un salotto poteva permetterselo, in quel tempo di miseria profonda e oppressione diffusa.
Negli scantinati dell’Impero, infatti, le minoranze non erano sole. Al contrario, gli anfratti nascosti erano affollatissimi e rimbombavano cupi di una rabbia repressa che cercava una falla per tornare nuovamente in superficie, come già era successo nel 1905, quando i tumulti urbani, partiti dalle città industriali del Caucaso, prima Baku e poi Tiflis, si trasformarono nel potente moto tellurico di una rivoluzione.
Dalla capitale Pietroburgo, centro del potere zarista, fino alle periferie di un impero sconfinato, con un unico gesto liberatorio, le minoranze oppresse, insieme a contadini, operai, marinai, rialzarono finalmente la testa. Il monarca tremò; tuttavia, non era ancora disposto a cadere: i moti si spensero.
Gli anni successivi furono un susseguirsi di aperture e chiusure, accentuate dall’inasprirsi del sentimento nazionalista fra i sempre solerti fautori del “La Russia ai russi!”, quel motto usato, trito e banale come un ritornello che si incastra nella memoria e ritorna, disgraziatamente anche i luoghi e tempi diversi.
Alla vigilia del primo conflitto mondiale i rapporti fra l’Impero e le sue minoranze erano ancora fortemente contraddittori. Nei venti di guerra i nasi più fini coglievano già i segnali di una nuova scossa.
Li aveva già colti anche Jordania, che da georgiano e socialista aveva preso parte al movimento di opposizione al regime zarista, e per questo si affrettava a rientrare. Ma Filippo Turati, che, grazie ai suoi legami con il sindacato dei Marinai, avrebbe dovuto aiutarlo a imbarcarsi, non era a Milano.
Mentre già vedeva i suoi piani saltare, si ricordò che la sede dell’Avanti!, organo di stampa del partito socialista, si trovava proprio a Milano e decise di cercare aiuto in redazione.
Era sera inoltrata, ma dalla strada vedeva le finestre ancora illuminate. Dietro una di queste, all’ultimo piano, sedeva il direttore del giornale, ancora affaccendato nonostante l’ora tarda.
Jordania chiese di essere ricevuto. Il direttore accettò di incontrarlo e firmare la sua lettera di raccomandazione, assicurandogli il viaggio. Non prima, però, di aver rivelato all’avventore arrivato da lontano le sue simpatie francofile.
Jordania prima di allora non aveva mai sentito parlare di lui, ma avrebbe presto ritrovato il suo nome fra le pagine più nere della storia dell’umanità.
Quell’uomo, socialista così fervente, a cui Jordania doveva gratitudine era Benito Mussolini.
Si separarono quella sera senza sapere ancora che li aspettavano cammini fra loro lontani e destini drammaticamente diversi, ma entrambi legati con forza all’idea di nazione.
Mussolini, cambiate camicia e bandiera, l’avrebbe trasformata in un’arcigna matrona di marmo, nel cui nome avrebbe innalzato altari, pronunciato roboanti proclami di odio razziale e di guerra, ordinato orbe imprese che l’avrebbero coperta di ridicolo più che di gloria, sempre, però, lusingandola con grande abbondanza di immancabili sacrifici umani.
Per Jordania, invece, la nazione era qualcosa di molto diverso dall’idea di Mussolini, così come lo era da quella dei suoi stessi predecessori georgiani, che nei decenni precedenti avevano riportato alla luce la storia e la cultura dei padri con fervore filologico.
Il sentimento nazionale di Jordania non era fatto di sventolii di monocordi bandiere in parata, né di aspra retorica etnica o di simboli da esporre in musei; al contrario, il suo progetto di autodeterminazione faceva parte di un più ampio ideale di giustizia sociale che non poteva essere separato dalla lotta di classe.
Il principio ispiratore di Jordania aveva una fonte ben precisa ed era il marxismo, che aveva incontrato al termine di un percorso di formazione iniziato con gli studi seminariali e passato attraverso le teorie del populismo.
Jordania arrivava dalla gubernija di Kutaisi, nella parte nord-occidentale della Georgia, un universo sonnolento e tradizionalista, abitato da gente conservatrice e profondamente timorata di Dio. E dello zar, che del divino, nell’immaginario popolare, era promanazione diretta.
Anche nell’immaginario di Jordania l’autocrazia e il divino erano strettamente legati: e infatti la ribellione nei confronti della fede andò di pari passo con la ribellione nei confronti dello zar.
“Nell’opinione comune” scriveva nelle sue memorie “il Signore e padrone del popolo è lo Zar, che è legittimato da Dio. Ma se Dio non esiste, il sovrano del regno non ha alcuna legittimità”.
Il netto rifiuto nei confronti del regime, però, non sconfinava in un sentimento antirusso. Al contrario, Jordania riconosceva il debito di gratitudine nei confronti della letteratura russa, dalla quale aveva ereditato le sue idee rivoluzionarie.
Alla letteratura georgiana, però, era legato da un nodo affettivo: è leggendo i versi di Akaki Tsereteli, scriveva, che si era convinto del fatto che la Georgia dovesse aspirare all’indipendenza.
Tuttavia, in quel momento, la provincia georgiana non offriva un terreno fertile in cui gettare i semi di un movimento nazionale con l’obiettivo di perseguire l’indipendenza. La gente comune, infatti, pur tollerando male la presenza del regime e la burocrazia zarista, vedeva di buon occhio la presenza militare russa, garanzia di sicurezza contro l’Impero Ottomano, la cui fosca presenza incombeva da sud su quel labile confine.
A quei tempi per la maggior parte degli abitanti della provincia imperiale di Georgia, l’indipendenza dall’Impero Russo suonava come l’annuncio ineluttabile di una nuova invasione ottomana.
Diverso era il clima che si respirava a Tiflis, città a quei tempi cosmopolita e brulicante di culture, di lingue, di idee. Qui Jordania si ritrovò, da studente di seminario, a emettere il suo primo manifesto politico.
Nel 1889 infatti si fece promotore di una protesta, nata inizialmente per ottenere pasti adeguati nella mensa dell’istituto, poi culminata con una serie di richieste, fra cui l’introduzione dell’insegnamento della lingua e della letteratura georgiana nei programmi del seminario.
In quegli anni, Jordania era vicino agli ambienti del populismo rivoluzionario, nel quale però non si rispecchiava del tutto. In particolare, scriveva, trovava sospetta l’idea di una rivoluzione sociale, diffusa e immediata, che non prevedesse fasi transitorie, né un democratico processo di costruzione di quella consapevolezza politica al momento assente in gran parte della società georgiana.
Tuttavia, fu in Polonia che il suo progetto prese realmente forma. Qui, infatti per Jordania, arrivato per studiare Veterinaria, si aprirono le porte di diverse rivelazioni: prima fra tutte, il pensiero di Karl Kautsky.
In secondo luogo, Jordania prese coscienza del ruolo della classe operaia come attore politico.
La sua esperienza fra i quartieri operai di Tiflis, abitati da gente che a malapena comprendeva il russo e il georgiano e che quindi era tagliata fuori da ogni forma di attivismo, lo aveva convinto dell’impossibilità di politicizzare il proletariato, ma l’incontro con gli operai di Varsavia, con le loro testimonianze di lotta e la loro netta coscienza di classe, gli aprì gli occhi sull’importanza degli operai nel cammino verso il socialismo.
Nella sua visione non solo la classe operaia poteva agire in prima linea, ma poteva anche trasformarsi in un intermediario affidabile fra due realtà ancora troppo lontane fra loro: quella degli intellettuali e degli attivisti e quella dei contadini.
Terza, ma non per importanza, fu la scoperta della questione nazionale, che era particolarmente sentita in Polonia, dove le rivendicazioni su base etnica erano esacerbate da anni di violente repressioni e di politiche marcatamente russificatrici.
Jordania non poteva non cogliere una certa comunanza di destini che univa la Georgia alla Polonia, entrambe terra di nazionalità in cerca di riscatto. In Georgia però le rivendicazioni etniche non avevano un carattere politico, né un programma preciso.
Nel concreto, non esisteva ancora nessuna lotta per l’autodeterminazione. Al suo rientro in Georgia, nel corso della Conferenza Nazionale, Jordania presentava il suo programma, basato sul socialismo marxista, sul ruolo di primo piano della classe operaia e sui diritti per tutte le nazioni dell’impero.
Il socialismo trovò subito orecchie sensibili in Georgia, anche fra strati diversi di popolazione, dai contadini, che avevano già alle spalle una tradizione di attivismo radicale, al crescente proletariato industriale, dal ceto urbano più colto, animato dal desiderio di modernizzazione, alla classe nobiliare che covava un risentimento neanche troppo nascosto nei confronti della russificazione linguistica e culturale.
A differenza di molti altri gruppi attivi nei territori dell’Impero, Jordania e il suo compagni di partito decisero di non agire in clandestinità e di uscire allo scoperto, con la pubblicazione di un giornale, Kvali (il Solco), che divenne il primo giornale marxista legale dell’impero russo.
Senza mai invitare troppo direttamente alla rivolta, fatto che avrebbe provocato l’immediata reazione della censura, le pagine di Kvali iniziarono a dare voce al progetto socialista georgiano, soffermandosi in particolare sulle battaglie per la riforma agraria, che in Georgia era un nodo abbastanza dolente. In questo modo il partito di Jordania acquisiva un carattere sempre più popolare.
Fu nella redazione di Kvali che Jordania fece il suo secondo incontro con un uomo fatale.
Quell’uomo all’epoca era un seminarista, che, pieno di ardore socialista, si presentò a Jordania annunciando di voler lasciare gli studi per dedicarsi alla lotta operaia. Davanti alla sua scarsa cultura, però, Jordania gli suggerì di tornare sui libri.
Il consiglio restò inascoltato e le loro strade si divisero temporaneamente. La divisione in campo politico invece fu definitiva e avvenne nel 1903, quando il partito socialdemocratico russo si divise nelle due fazioni dei bolscevichi e dei menscevichi.
L’ignoto seminarista scelse i primi; Jordania, e la Georgia quasi all’unisono, appoggiarono i menscevichi, la cui visione inclusiva, basata sull’unione delle classi lavoratrici e sul dialogo con il ceto borghese, sembrava meglio rappresentare le aspirazioni georgiane.
Al congresso di partito del 1906, a Stoccolma, ricordava lo stesso Jordania, la delegazione georgiana era composta unicamente da menscevichi. A parte uno sparuto gruppetto di bolscevichi georgiani, arrivati probabilmente con un falso mandato e guidati da una faccia già nota: l’ignoto seminarista.
Non poteva saperlo a quei tempi Jordania, ma dalle fila dei bolscevichi il seminarista stava già architettando la sua solenne, tragica rivincita, sopraggiunta con l’ausilio di un fato beffardo che avrebbe sconvolto gli equilibri politici e le sorti di un intero paese, portando Jordania sulla via dell’esilio e il seminarista sulla via dell’altare.
Quell’uomo, allora velleitario e avventato socialista, era Stalin.
Ma tutto questo era ancora lontano e nessuno, nemmeno il più irriducibile dei pessimisti, in quegli anni di fermento, di idee e di battaglie, avrebbe mai immaginato di liberarsi dal pugno violento di un tiranno, lo zar, per cadere nella voragine di una guerra civile e finire schiacciato da un altro capriccioso e spietato padrone.
Al contrario, la speranza era forte e sembrò quasi esplodere in strada quando nel febbraio del 1917 a Tiflis arrivò il telegramma che annunciava “Il governo è morto”. I rappresentati locali del potere zarista tacevano e il messaggio non dava dettagli ulteriori. Ma quelle poche scarne parole furono sufficienti a riaccendere gli animi.
Quando alla gente che si radunava in piazza per discutere la situazione, la polizia non oppose alcuna reazione, tutto fu chiaro: la rivoluzione era iniziata. Il 5 marzo del ’17 a Tiflis nelle strade l’aria era quella dei giorni di festa.
A Pietrogrado lo zar era finalmente caduto e la voce si spargeva veloce fra le folle silenziose e in trepida attesa, risvegliandole di colpo come l’arrivo improvviso del primo giorno di primavera.
Operai, contadini, intellettuali, mercanti, tatari, armeni, georgiani, dalle loro case, dalle province, dalle gole sperdute e dalle montagne, da ogni punto della Georgia si misero in cammino e si ritrovarono qui, a Tiflis, ad accogliere la libertà che li aveva raggiunti dopo un lungo viaggio.
Il governo provvisorio, che si era insediato dopo la caduta dello zar, sembrava desideroso di liberarsi in fretta della carcassa zarista, comprese le gabbie delle misure di russificazione. Fu subito avviata infatti la liberalizzazione della politica delle nazionalità: a tutti i cittadini furono concessi i diritti e le libertà civili, oltre ai diritti nazionali e culturali individuali.
Intanto, il governo provvisorio aveva subito messo fine alla provincia imperiale del Caucaso e trasferito il potere locale a una commissione speciale. A Tiflis intanto si lavorava attivamente per costruire istituzioni in grado di portare avanti gli obiettivi della rivoluzione.
Una tale forza non poteva arrivare, scriveva Jordania nelle sue memorie, che dalla classe operaia, ormai esperta e politicamente consapevole. Per questo fu costituito a Tiflis un Soviet operaio.
Questo moto di entusiasmo che sembrava inarrestabile, però, fu presto arginato dagli eventi.
La Prima Guerra mondiale, che imperversava ancora in gran parte d’Europa fino alle porte dell’Asia, la necessità di mantenere l’ordine interno e la scarsità di risorse economiche misero subito in crisi l’estro rinnovatore del governo provvisorio, che si rivelò inadempiente su diverse questioni, compresa quella del diritto all’autodeterminazione, concesso solo in autunno quando molti animi erano tornati già ostili.
I menscevichi georgiani, però, rimasero vicini alle proprie posizioni e al governo, fino a quando un nuovo colpo di vento non arrivò, ancora una volta, a sconvolgere tutto: nel novembre 1917 a Pietrogrado i bolscevichi prendevano il potere.
Molti accolsero il fatto come una buona notizia. Fra questi, anche i partiti nazionali.
I bolscevichi, infatti, per sfruttare la carica rivoluzionaria delle minoranze etniche, si erano mostrati in generale sensibili alle loro rivendicazioni e avevano appoggiato il loro risentimento di fronte alla politica attendista del governo provvisorio, accusando quest’ultimo di voler raccogliere l’eredità sciovinista e russocentrica dello zar.
In realtà i bolscevichi avevano principalmente giocato d’astuzia, nascondendo scaltramente un atteggiamento piuttosto riluttante di diversi membri del partito rispetto ai diritti delle minoranze.
Nell’aprile 1917 la questione era stata discussa nel corso di una conferenza, che terminò con una mozione, nella quale venivano fissati alcuni punti: il diritto di tutte le nazioni alla secessione e alla formazione di uno stato indipendente; il rifiuto delle autonomie culturali, ovvero il diritto di decidere liberamente in materia di lingua e sistema scolastico; l’idea che la solidarietà di classe fosse prioritaria rispetto all’appartenenza nazionale.
A esporre questi punti fu proprio lui, l’oscuro seminarista, che ormai era già noto ai più come Stalin.
Nel suo discorso minimizzava lo stato di oppressione in cui si erano trovate le nazionalità dell’impero come un problema legato all’autoritarismo del sistema zarista. Ora che lo zar era caduto le nazionalità non avevano alcuna necessità di rivendicare i propri diritti. Inoltre, in uno stato governato da un unico partito sovranazionale che avrebbe riunito tutte le forze proletarie, il desiderio di indipendenza non aveva più ragione di esistere, concludeva brillantemente.
All’esterno però i bolscevichi riuscirono a presentarsi come promotori dei diritti delle minoranze e, a supporto di questa posizione, avevano emesso subito dopo la presa del potere la Dichiarazione dei diritti dei popoli della Russia, nella quale veniva sancita la garanzia della liberazione delle nazionalità non russe come parte di un più ampio disegno di liberazione politica e sociale.
Nonostante le premesse, fu subito chiara l’impossibilità di conciliare la volontà centralizzatrice dei bolscevichi con le richieste di autodeterminazione delle singole nazionalità. Che si diedero rapidamente alla fuga: entro l’estate del 1918 si erano già separate dalla Russia la Polonia, la Lituania, l’Estonia, la Lettonia, parte della Bielorussia, la Finlandia e infine, con la caduta della Transcaucasia, anche l’Armenia, l’Azerbaigian e la Georgia, che dal 28 maggio 1918 aveva intrapreso un nuovo cammino da repubblica democratica, socialista e indipendente guidata da Noé Jordania.
Nel suo discorso iniziale Jordania si rivolse alla sua gente dicendo: “Oggi voi siete testimoni di un evento storico, tanto incredibile quanto tragico”, riferendosi la nascita del nuovo stato georgiano, fondato sulle ceneri dello stato russo.
“Il nuovo stato di Georgia – proseguiva – non agirà mai contro l’interesse di alcuna nazione, di un popolo o di uno Stato. Il suo obiettivo è salvaguardare la propria esistenza sullo sfondo delle tempeste della storia che ci attraversano […] Come sapete, la Georgia è abituata a lottare per la propria esistenza. Nel corso dei secoli essa ha lottato per la sua esistenza, per conservare il suo carattere morale, il suo organismo naturale, il suo territorio. Ma nella sua lotta non ha mai messo in pericolo l’esistenza altrui. Essa ha lottato non solo per i georgiani, ma anche per tutti i popoli che l’abitavano”.
Era chiaro, alla presidente della neonata repubblica, fin dalle prime ore del suo mandato, che l’esperienza politica dell’indipendenza era figlia dell’istinto di autoconservazione, venuta al mondo in un momento in cui sulla Georgia pendevano diverse minacce, non ultima quella dei Bolscevichi che cercavano impunemente di svendere il Caucaso in cambio della pace con l’Impero Ottomano.
Pur nel vortice degli eventi, però, in Georgia si cercava di costruire un tessuto istituzionale per la neonata repubblica, che i suoi fondatori immaginavano organizzata secondo il modello della democrazia parlamentare; contemporaneamente fu avviata una ampia riforma agraria per fare fronte, con la redistribuzione delle terre, al malcontento contadino.
A questa si affiancò la riforma della scuola e l’intensa campagna di alfabetizzazione che portò nelle aule 162.342 allievi, rispetto ai circa 80.000 del 1915.
Anche le minoranze linguistiche furono dotate delle proprie strutture scolastiche.
L’esperimento georgiano sembrava procedere a pieno ritmo e con caratteri tutti suoi, creati dall’incontro del nuovo – il socialismo – e del vecchio – lo spirito asiatico e tradizionalista dell’antichissima terra georgiana. Una delegazione americana inviata in Georgia nel 1919 si sorprese di incontrare “commissari” vestiti con in abiti tradizionali, armati con spade seicentesche e ancora investiti del ruolo di capovillaggio.
Ma oltre la bizzarria dell’ibrido che colpiva l’occhio, si coglieva qualcosa di molto concreto. Lo colse Karl Kautsky che la visitò nell’inverno del 1920-21. Definì quello che accadeva nella piccola repubblica l’antitesi stessa del bolscevismo, una struttura statuale fondata su istituzioni democratica, un sistema economico concreto e il rispetto delle libertà personali.
Al suono dell’Opera che, anche nei momenti di maggiore tumulto, nella capitale non aveva mai abbassato il sipario, la Georgia sembrava andare incontro al futuro quasi danzando, sollevata dalla spinta dei grandi entusiasmi e dei nobili ideali. Ma i suoi passi erano forse troppo aerei perché il piccolo stato potesse stare in piedi.
Come scriveva lo stesso Jordania, l’anno 1919 fu particolarmente duro. I nemici sembravano arrivare da ogni dove: dall’interno, dove i bolscevichi, anche se in netta minoranza, avevano ripreso forza e tendevano furtivamente la mano a Pietrogrado; mentre dal lato opposto i turcofili spingevano verso l’Impero Ottomano in funzione antirussa.
All’esterno, invece, la minaccia era rappresentata dall’Armata Bianca di Denikin, che imperversava nel Caucaso con il benestare delle truppe britanniche, presenti nell’area come garante delle condizioni di pace imposte alla Turchia e alla Germania, e non troppo contrarie a una riconquista del Caucaso da parte dei monarchici. D’altra parte, commentò il Ministro della Guerra Winston Churchill, “noi siamo qui per aiutare i piccoli stati non contro la Russia, ma contro l’anarchia”.
Per un momento, però, il peggio sembrò essere ormai alle spalle: nel gennaio del 1920 a Tiflis giunse voce che le potenze alleate avessero concesso il riconoscimento de facto a Georgia e Azerbaigian.
Subito fu di nuovo festa, fra la gente comune e fra le autorità che si affrettarono ad annunciare un gran ballo.
Fra l’euforia della folla, però serpeggiavano infidi i fantasmi della fine, che non erano affatto svaniti.
Al contrario, erano minacciosi, presenti e si avvicinavano a grandi passi da Nordest, dalle montagne del Dagestan dove i bolscevichi erano già arrivati a soffocare il fermento libertario delle popolazioni montanare che avevano tentato di riprendersi l’indipendenza e i propri costumi, costituendo la Repubblica del Caucaso del Nord. Ma i loro sogni di libertà si scontrarono con il pugno di ferro dell’Armata Bianca.
Dopo aver conosciuto la frusta dei Bianchi, i montanari furono ben felici di aprire la porta ai bolscevichi, che senza troppi complimenti entrarono. Da lì dilagarono in Azerbaigian, facendo piazza pulita della neonata repubblica, poi entrarono in Armenia, obbligandola alla resa.
Infine, nel febbraio del 1921 entrarono in Georgia. Solo pochi mesi prima Lenin aveva detto a un diplomatico georgiano: “Costruite pure il socialismo alla vostra maniera, quella dei piccolo-borghesi, noi lo costruiremo nella nostra”. Ma qualche giro di luna era stato sufficiente a fargli cambiare idea.
A fine febbraio le truppe georgiane evacuarono Tiflis, lasciando campo libero ai bolscevichi, che li seguirono fino a Batumi, sul Mar Nero, dove furono sconfitti. Per i membri del governo georgiano, Jordania incluso, si aprì la via dell’esilio.
Da lontano, ormai esuli, provarono a lanciare un appello, ma le potenze straniere avevano già voltato le spalle e i propri interessi altrove.
Era il 1921 e la rivoluzione già folle, stravolta, deviata, abbassava tristemente il sipario sulle ceneri di un futuro sperato e ben presto dato alle fiamme nel finale di una fosca tragedia nel quale nessuno è salvato.
Non si salvò Blok, né le vittime sacrificate per nessun ideale, se non quello del potere e della violenza.
Non si salvarono gli esuli, che vissero altrove incastrati nel ricordo di una patria andata in frantumi.
Né ci fu salvezza per i contadini, i marinai, gli operai, i popoli oppressi, le cui illusioni vissero in un angusto anfratto del tempo, prima di soffocare fra un passato avverso e un futuro che si sarebbe altrettanto malevolo.