Intervista a Emilio Isgrò

Una vita d’artista

di Giusi Affronti

foto di copertina di Michela Battaglia

Un artista lo riconosci dallo sguardo, dallo sguardo scaltro di due occhi blu come il Mediterraneo da cui proviene.
Emilio Isgrò (1937, Barcellona Pozzo di Gotto) pittore, poeta, giornalista, scrittore, drammaturgo, è l’artista che – mutuando licenziosamente da Paolo Conte – ha cancellato di tutto, convinto che, negli anni Sessanta e Settanta, le Cancellature bastassero ad abrogare il capitalismo più della lotta armata con il passamontagna sulla testa.
La sua pittura si serve di pagine stampate e d’inchiostro nero di china, quando non di linotype da cui disintossicarsi bevendo un quarto di latte a fine giornata. La cancellatura è come lo zero in matematica. Niente a che fare con il vuoto Zen, con la pagina bianca di Mallarmé. È una grammatica gorgogliante quanto quella d’ingrandire un miliardo e cinquecento milioni di volte un seme d’arancia (2016) in Parco Sempione, a Milano, dove Isgrò vive da oltre sessant’anni.

Sellerio ha pubblicato, lo scorso novembre, il suo Autocurriculum. Non un’autobiografia, dunque, ma una narrazione personale e “curriculare” segnata da vicissitudini e incontri. Da quale necessità nasce questo libro?
Autocurriculum, presentato in occasione di BookCity a Milano, è un libro insolito per un artista. Se avessi scritto un’autobiografia, avrebbe avuto un’aura monumentale lontana dalla curiosità di un artista ancora nel vivo della sua ricerca come me. Autocurriculum è il curriculum di un artista in cerca di lavoro, che sta ancora interrogandosi sul suo ruolo sociale. Nasce dalla curiosità del pubblico di conoscere la mia esperienza d’artista lunga una vita. Non uso coscientemente la parola “carriera” perché le “carriere” vincolano gli artisti alle dinamiche consumistiche del mercato. Io, invece, ho incardinato il mio percorso sulla libertà dell’arte.

Lei vive a Milano dal 1956 ma nasce in Sicilia, guardando le Isole Eolie. Per dirla con le parole di Gesualdo Bufalino, in Sicilia, “tutto è dispari. Vi è la Sicilia verde del carrubo, quella bianca delle Saline, quella gialla dello zolfo, quella del miele, quella purpurea della lava. Quella babba e quella sperta”. Di quale Sicilia è impregnato il suo lavoro?
La Sicilia somiglia al più ibrido dei continenti e non a una regione. Tant’è vero che, dopo la guerra, le fu riconosciuto uno statuto speciale. Che, poi, non ne sia stato fatto uso secondo i disegni dei costituenti, questa è un’altra faccenda! Io sono nato nella provincia babba, la provincia messinese non mafiosa. Mi sono formato in una Sicilia eminentemente colta, dove la piccola borghesia frequentava il melodramma e l’Opera dei Pupi. Mio padre era un artigiano e conosceva la letteratura più del mio professore d’italiano. La cultura, allora, era uno strumento di riscatto dal complesso di minorità di cui la Sicilia ha sempre sofferto, per via della sua storia di sudditanze, invasioni e oppressioni. È proprio delle isole costituirsi un’identità culturale epica, come, per esempio, esiste una grande cultura irlandese …

Emilio Isgrò, Dichiaro di non essere, 1971 Courtesy Archivio Emilio Isgrò

‘L’insularità’, appunto, ancora secondo Bufalino “non è una segregazione solo geografica ma se ne porta dietro altre: della provincia, della famiglia, della stanza, del proprio cuore”. Ovvero la soluzione di non partecipare a un movimento collettivo, né quello della Poesia Visiva né quello Concettuale. Perché la scelta di giocare all’arte da solo, accompagnandosi più ai letterati e meno ai pittori?
Non mi sono legato a un movimento perché sono cresciuto in una famiglia dove la singolarità delle persone era percepita come un valore. Ho pubblicato la mia prima raccolta di poesie nel 1956, Fiere del Sud, e sono considerato fra i teorici della Poesia Visiva ma, per quanto rivoluzionaria, non mi è bastata. Questa scelta non ha significato autoreferenzialità. La mia ricerca artistica è sempre calata nella storia. Ho voluto rispondere al mio principio di libertà e non ai principi condivisi di un’organizzazione. L’arte è per sua natura asociale e anarchica, dove il disegno determinista di Darwin fa sì che a vincere sia il più forte. Nell’arte il più forte regala cultura ed è questa l’unica guerra che io accetto.
Nel mio percorso artistico, poi, c’è pure una ragione caratteriale. D’indole sono democratico ma non amo la folla, come molti nell’Unione Sovietica si dichiaravano comunisti pur non amando la coabitazione coatta.

Un artista deve essere intelligente ma non troppo, ha dichiarato. Cultura e natura, insomma. Qual è la responsabilità di un artista? Oggi come ieri.

Oggi l’artista è diventato come la bitcoin, una moneta virtuale della quale non conosciamo niente. In un’epoca d’inquietudine come quella in cui viviamo, dove né i filosofi né gli spiriti religiosi concordano sulle verità, l’artista è chiamato a esprimere l’autenticità umana. Nell’arte convergono il sangue e le passioni degli uomini, non il calcolo del management e del marketing. Quando la politica internazionale naviga a vista, come accade oggi, l’arte sa ispirare.

L’arte è sempre politica?

L’arte è la più alta forma di politica che ci è rimasta. È l’unica che raccontando la realtà com’è, attraverso gli occhi e le mani dell’artista, senza abbellirla e senza neppure degradarla, offre gli strumenti all’azione di cui la stessa politica è incapace. Leggere, leggere, leggere. Bisognerebbe insegnare nei licei e nelle Università come navigare e informarsi su Internet. Sarà pure un vecchio modo di pensare – niente paura, ci sarà sempre qualcuno a dirlo! – ma una certa umanità, o meglio umanesimo, deve essere preservata. L’uomo deve resistere come su una roccia a difendere le proprie idee. A forza di sostenerle neppure i missili riusciranno a distruggerle.

Resistere, dunque. Negli anni Sessanta, mentre dilaga la Pop Art americana e la tautologia ipertrofica dell’icona, Lei risponde con opere come Poesia Jacqueline (1965) e con le Cancellature. Ovvero una ricerca, la sua, che sembra mutuata dalla maniera michelangiolesca della scultura “in levare”, della sottrazione, della riduzione, dell’essenza. In una società 2.0 oggi governata dalla scoperta del mondo by browsing, dove una tempesta d’immagini ci fa ciechi e dove un effluvio di parole ci rende indifferenti, qual è l’attualità delle Cancellature?
Un quadro di Pollock o di Rothko erano figli dell’incontro tra la cultura europea e l’America. La grande cultura americana finisce con l’avvento della Pop Art; negli anni Sessanta non è stato facile non lasciarsi abbindolare dalla prepotenza del mercato statunitense. Si è potuto resistere, individualmente. E così ho fatto. Quanti anni ci sono voluti perché la mia ricerca venisse riconosciuta internazionalmente? La mia pazienza è stata contagiosa e alla fine tutti hanno capito. Il mondo si prepara a poco a poco, a passi successivi. Per me è importante che la strategia estetica, visiva e mentale che origina le Cancellature oggi sia stata compresa. Anche un piccolo uomo può diventare un gigante se si trova davanti all’ottusa ignoranza del mondo.

Una grammatica iconoclasta di Resistenza, insomma. La Cancellatura non intende distruggere ma crea nuove immagini possibili. Per questo conserva un valore positivo, è così?

La mia premura è da sempre quella di preservare tenacemente la natura positiva della Cancellatura, scevra da ogni nichilismo di matrice Dadaista. La negazione è premessa sine qua non dell’affermazione. Cancellare non equivale a un azzeramento del significante ma alla potenzialità di un nuovo significato: è la trasformazione di un segno negativo in un’azione positiva.
Ho servito quella che era la mia vocazione. L’arte – come la medicina – è una vocazione. Non capisco perché oggi ci siano tanti artisti nel mondo. Aveva ragione Platone. Troppi artisti stroppiano e il mondo va in malora!

Un artista – e lo affermo da storico dell’arte – lo riconosci dalla necessità …

Lo stato di necessità è quello di cui scrive anche Rainer Maria Rilke quando un giovane gli chiede se potrà o meno diventare un giorno poeta. Parafrasando a memoria, gli risponde così: quando avrai voglia di scrivere una poesia, non scriverla; se ti torna la voglia di scriverla, non scriverla; se ancora tornerà la terza volta, provaci …

Lei ha affermato che quella del cancellare è un’azione necessaria come parlare, amare o vivere. Perché?

Che l’arte debba nascere dalla vita non v’è dubbio; nasce dalla passione, dai sentimenti e dai risentimenti.
La Cancellatura, però, costituisce un cortocircuito etico, un distanziamento epico tra chi “legge” e l’artificio dell’arte. Nella Cancellatura risiede l’opportunità di guardare il mondo criticamente. Avendo occasione di concentrarsi sulle immagini che rappresentano il mondo e sulle parole che raccontano la vita si è indotti a riflettere sul mondo e sulla vita. Ma resta che non credo al fatto che l’arte possa sostituirsi alla vita.

Emilio Isgrò, Poesia Jacqueline, 1965 Courtesy Archivio Emilio Isgrò


Sebbene abbia provocatoriamente affermato – con grande ira di Eugenio Montale che smise per questo di salutarla – che la parola fosse morte, la Cancellatura non è uno stile ma assurge a linguaggio. Perché?

Se la Cancellatura fosse stata uno stile, oggi, sarebbe morta. La Cancellatura non è la morte della parola, è l’altra faccia della parola. Come fosse l’altra faccia della luna. Sotto vi brulicano tutte le parole del mondo possibili. Antropologicamente resta salva la parola umana, la possibilità che abbiamo, in questo momento, io e lei di parlare. E magari di contraddirci.
Le stesse religioni, specialmente quelle giudaico-cristiane, cominciano dalla parola. “In principio era il Verbo”.

I libri di storia dell’arte raccontano che la prima Cancellatura nasce a Venezia, dove Lei ha vissuto negli anni 1960-67 lavorando alla Terza Pagina de Il Gazzettino. Si narra che l’idea provenga dall’editing di un articolo di Giovanni Comisso. Cosa c’era in nuce?

Quell’episodio l’ho inventato io perché tutti chiedevano spiegazioni sulle Cancellature. Per sdrammatizzare a proposito di quella che era – e lo sapevo già – un’invenzione audace, millantai quell’episodio per dare materiale di scrittura ai giornalisti. La Cancellatura era nata già qualche tempo prima da una riflessione sulla parola. La mia domanda era: può sopravvivere la parola in una società delle immagini? Pensavo soprattutto agli Stati Uniti che erano stati uniti dai fumetti e dal cinema …

Pagine di giornale, libri, I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni (2016), L’Enciclopedia Treccani (1964), la Costituzione Italiana (2010) e La cancellazione del debito pubblico (2011): Emilio Isgrò ha cancellato di tutto fino all’Onnipotenza dell’Arte che le fa ascrivere le sue Cancellature a Gesù Cristo (Il Cristo Cancellatore, 1968). Ha indagato la dinamica della Cancellatura nella lingua italiana, inglese e francese, su codici ottomani. Cosa resta ancora da cancellare?

C’è da cancellare l’idea della Cancellatura intesa come elemento di negazione. È stato cancellato tutto il possibile, forse, ma avendo trasformato la Cancellatura in un “mattoncino” nero da costruzione non resta che costruire. E continuerò ancora a svolgere la Cancellatura secondo molteplici soluzioni: i dettagli ingranditi non sono Cancellature essi stessi? Mio padre mi ha insegnato a non accontentarmi mai, a essere sempre scontento. Di me stesso, soprattutto.

In un minuetto di negazioni che affermano, nel 1971, in un’opera – Dichiaro di non essere Emilio Isgrò – certifica la sua autocancellazione mentre nel 2008 Dichiaro di essere Emilio Isgrò è il titolo di una sua antologica presso il Museo Pecci di Prato. Chi è oggi Emilio Isgrò?

Se potessi rispondere a questa domanda, il mio Autocurriculum sarebbe stato un’autobiografia.
Il talento è pazienza, educazione e scuola. Educazione alla dignità di essere uomini. Pensi ad Amleto. La vita è fatta di oltraggi ma anche di vittorie. Questa è un’epoca di tensione, di occupazione. Ma l’arte è capace di guardare oltre. Sempre. L’arte non crea il mistero, li svela tutti. L’arte è divenuta una forma di religione, libera dal rischio del fondamentalismo, perché aperta alle contraddizioni e perché nasce dal dubbio. In fondo, pure il Vangelo legittima il dubbio mantenendo nelle sue Scritture la figura dell’Apostolo Tommaso. La fede per un laico è la fiducia in se stessi, fiducia che pur restando piccoli si può affermare qualcosa di grande.
Il segreto è imparare da Ulisse, senza dimenticare Achille. Come ti chiami? Nessuno.