La vita scorre lenta sulle montagne intorno a Scutari, dove ogni piccolo cambiamento deve essere negoziato
Testo e foto di Marco Ranocchiari
Il furgon sussulta paurosamente sulla strada sterrata. L’ultima luce sta per abbandonare un cielo lucido, indaco e rosso, steso su uno scenario grandioso, le cime impervie e deserte delle Alpi Albanesi. A un palmo dalle ruote il terreno precipita in una gola di cui non riesco a vedere il fondo. Trattengo il fiato, mi vedo già il vecchio Mercedes lanciato come una stella cadente, coi suoi fari gialli in quello spazio troppo vasto, senza nemmeno una luce.
Il guidatore è concentratissimo, ma non sulla strada, sulla conversazione: gesticola, si gira, indica, guarda indietro. E i passeggeri partecipano, per nulla preoccupati, a volume altissimo. Dobbiamo essere buffi, in realtà: sobbalziamo sincronizzati, tutt’uno con il carico, sacche di caffè, zucchero, badili e rastrelli, tutto legato sul tetto o incastrato tra i nostri piedi. Fuori scorre l’ombra di una regione tra le più isolate d’Europa, il Kelmend.
Fino a Tamara, l’ultimo borgo, arriva da qualche anno la strada asfaltata, una novità arrivata con il turismo. Da lì in poi, però, è ancora il regno della lentezza e della fatica. Tante piccole luci puntellano qua e là i versanti invisibili: case e stalle isolate, appena ripopolate dei loro abitanti. La stagione dell’alpeggio è finita con i primi freddi, e per uomini e animali è tempo di tornare ad avere un tetto.
Martine, l’antropologa francese, da quando siamo partiti da Scutari è un’altra. Prima sembrava anziana, piccola e malandata, con le sue grosse borse portate a fatica, un computer a tracolla, uno zaino. Adesso si muove energicamente, gesticola, chiama tutti per nome, nel suo albanese – mi dicono – perfetto, non fosse per le nasali e l’inconfondibile erre moscia.
In queste valli la conoscono tutti, di qui fino a oltre il confine. È infatti sul versante kosovaro del Bjeshkat e Namuna, le Montagne Maledette, nel periodo turbolento dell’immediato dopoguerra, che ha incontrato i montanari albanesi per la prima volta. Ha visto scene che, giura, non racconterà mai, ma lì ha anche capito che alle comodità del suo paese natale preferiva l’umanità, rude ma generosa, delle montagne.
Ha deciso allora che tra di loro voleva vivere, o come ama ripetere, morire. In Kosovo ci è rimasta dodici anni. Poi, dopo una breve parentesi in Francia per terminare gli studi di antropologia, portati sempre avanti parallelamente alla sua professione di psicoterapeuta, è ritornata, stavolta sul versante albanese, nella nuova veste di etnologa. Da allora vive a Scutari, ma è di casa nelle montagne più remote di tutti i Balcani.
Posti spettacolari quanto le Dolomiti, ma di povertà antica e fierezza incrollabile. Anche sotto i turchi, le tribù del Kelmend e del Dukajin rimasero orgogliosamente cattoliche, devote, più che al sultano, al rigore del Kanun, l’antico codice consuetudinario delle montagne.
Il regime di Enver Hodxa, incapace di domarli del tutto, si è accontentato di proibirgli il possesso di armi e di mantenerli il più a lungo possibile nel loro isolamento. Ma oggi, che la storia si è messa a correre anche quassù, le montagne sono in piena crisi di identità.
Martine vive in questo mondo delicato, in bilico tra più secoli: da un lato la televisione (e gli smartphone di seconda mano, tra i giovani), che gracchia incessante anche nei rifugi più remoti, e invoglia all’adeguamento al mondo globale e all’emigrazione. Dall’altro l’appartenenza alla tradizione, un modo di essere uomini e donne ferito ma ancora vivo, anzi, potente, spesso assillante.
Le novità venute da fuori sembrano infatti in grado di erodere i lati più morbidi del gigantesco edificio della cultura locale – la leggendaria ospitalità e solidarietà, e un estimabile patrimonio di saperi orali, canti epici, colture autoctone – ma non quelli più duri, in aperto conflitto con il mondo di oggi.
Come la vendetta di sangue, che incombe sui maschi di intere famiglie come una malattia congenita, e la rigida separazione di ruoli tra uomo e donna. Una separazione vissuta con sempre maggiore inquietudine da ragazze e ragazzi ormai informati su come vanno le cose nel resto del mondo, ma ancora insanabile. Tra questi due opposti c’è il turismo, che si affaccia su queste terre con le sue straordinarie promesse di ricchezza e il suo altissimo potenziale distruttivo.
Per Martine questi temi hanno la concretezza delle persone reali. Alcune delle “sue” famiglie vivono a cinque ore di cammino dalla strada sterrata, o tre ore di cavallo. Per raggiungerne una bisogna guadare un torrente, l’ultima piena ha portato via il ponte e il governo non si è ancora curato di ricostruirlo. Dell’uomo che questa sera ci sta aspettando quando scendiamo dal furgon si vede solo un largo sorriso sotto il cappuccio, illuminato dalla torcia elettrica, e una voce cordiale e timida.
Qualche minuto di cammino al buio tra campi e rocce, e siamo in una casa piena di luce. Davanti a noi una donna energica, il volto arrossato e scavato dal sole e dalla fatica, lo sguardo determinato.
Ha in testa un fazzoletto bianco con un ricamo. Dietro di lei due ragazze sorridono e ci fanno cenno di entrare. Poco dopo sediamo davanti agli xhezve di caffè turco.
Appesa in bella vista sulle pareti sta un’immagine della Vergine, foto di ragazzoni lontani e sorridenti e antenati coi baffi folti e in testa il qeleshe. In angolo è appesa una gusla, lo strumento a una sola corda dei vecchi canti. Nell’immancabile televisore, muto, ride un presentatore italiano. La cena è squisita e semplice, cotta sul fuoco vivo. La conversazione procede spedita, ammorbidita dai bicchierini, costantemente rabboccati, di un fortissimo raki di prugne.
Verso la fine, si presentano i vicini: una donna uguale alla nostra padrona di casa, solo un po’ più riservata, e un uomo dagli occhi azzurri, con l’espressione da duro e la sigaretta in bocca, una giacca di tela sdrucita e le mani nodose. Gli uomini fumano, Martine, come sempre, conduce la conversazione, e le donne sembrano particolarmente coinvolte.
Com’è diverso nella casa che ho visto nel Dukajin, penso. Lì le mogli erano timide ombre, pronte a sorridere davanti all’ospite e sgusciare via, ricomparendo solo per portare pietanze e riprendersi i piatti vuoti, mentre gli uomini mangiavano, fumavano e parlavano forte. Attento all’apparenza, si infervorava Martine. Da donna, assicurava, lei aveva visto cose che a me sono precluse.
Avevo mai notato come una donna sola, mettiamo una vedova, diventa loquace e sicura di sé? Non c’era bisogno di scomodare le vergini giurate, le donne che, secondo la tradizione, si possono tagliare i capelli e prendere il nome di uomo, un fenomeno quasi scomparso. È una questione di ruolo, non di valore. Gli uomini fanno i macho, ma sotto sotto è una società très matriarcale. Sarà, rispondevo esitante, ma oggi veder discutere tutta la famiglia è un vero sollievo.
La conversazione è seria. Una delle due ragazze si è appena laureata. Studiare, ormai, è un diritto riconosciuto a quasi tutti, anche alle montanare albanesi, purché abbiano il tempo di badare agli uomini della famiglia, fare le cose di casa. Padre e madre si sono letteralmente tolti il pane di bocca per farle finire gli studi a Scutari, e adesso finalmente, c’è un’occasione per dare il senso a tanti sacrifici.
Alla scuola di Tamara c’è una cattedra vacante: se lei prende quel posto, sarà indipendente, senza essere costretta a emigrare o a sposarsi. Ma presentarsi, da sola, a parlare con il direttore, non è una cosa da poco. La ragazza si guarda le mani, scura in volto. Ha l’espressione di chi sta subendo un rimprovero, è lei quella che ha i maggiori dubbi.
Le donne si scaldano, Martine quasi urla, mentre l’uomo fa da paciere, con sguardi amorevoli a moglie e figlia. L’antropologa, infine, propone una mediazione: andranno insieme, lei e il padre. Ma a patto che parli lei, lui deve aspettare sull’uscio. Una soluzione ovvia, ma non quassù.
Martine fa ricerca per le università francesi, ma la sua vera vocazione è questa, fare da mediatrice tra queste famiglie e il difficile mondo di fuori che li sta raggiungendo. Oltre alla questione femminile, dilemmi nuovi si propongono: come gestire la malattia, la disabilità, l’agricoltura sempre più difficile, come non dissipare un patrimonio culturale unico al mondo, come non essere costretti a emigrare.
C’è anche la faida, naturalmente. Complici l’arricchimento sospetto di pochi, rientrati dall’estero, e l’inesistente autorità dello stato, le vendette di sangue hanno visto negli ultimi anni un preoccupante ritorno. Ma fermarsi a questo, come fanno molti osservatori occidentali, è vedere il dito e non la luna, e la luna è lo sradicamento, lo spopolamento, la povertà. L’umanità e la saggezza che hai visto, si accalora Martine, non superano di gran lunga questi stereotipi?
Quando arriva l’autunno e gli ultimi turisti e gli emigrati in vacanza se ne sono andati, Scutari appare malinconica ed elegante. I cani randagi passeggiano in viali lastricati tra decadenti dimore turche e veneziane, mentre le periferie si animano delle famiglie scese delle montagne. L’inverno è diventato troppo duro nei villaggi, tanto più adesso che i pochi giovani sono all’estero e i ragazzi devono studiare.
Così, ogni anno, c’è qualche luce in meno a illuminare i versanti innevati. Sulle vetrine delle agenzie turistiche appannate dalla pioggia, intanto, poster coloratissimi promettono avventure incredibili sul Bjeshkat e Namuna, le ultime montagne selvagge d’Europa.
È possibile leggere qui la puntata introduttiva ai reportage di viaggio sulle montagne dei Balcani.