Vento, tempesta.

Non vale tutto nel discorso pubblico. I fatti di Macerata lo urlano in maniera limpida, non ci sono scusanti. Se da anni il ruolo delle figure pubbliche è stato stravolto dalla mediatizzazione e dal marketing elettoralistico permanente del messaggio è tempo di fermasi e riappropriarsi di un dibattito civile, nei contenuti e nei modi.

di Angelo Miotto

Non è difficile ipotizzare che sentiremo parlare di perizie psichiatriche e profili boder-line, come ha già accennato qualche conoscente del fascio-leghista razzista che ha sparato a Macerata. Vedremo. Oggi, però, ci sono cose limpide e chiare, evidenti, così come il sangue versato dai proiettili della Glock sabato 3 febbraio.

Seminare vento, e odio, con pervicacia, con disprezzo, giocando a spingersi sempre più in là rispetto a ‘quel che si può dire’ porta a queste conseguenze. Non c’è dibattito ammissibile su questo.

Le regole del discorso pubblico non sono un lacciuolo censorio imposto. Sono il sale della convivenza civile. 
Quando le funzioni intermedie abbandonano un ruolo di mediazione e diventano una miccia, sempre più corta, per ordigni che fanno esplodere nel nome del catturare la pancia del Paese ci troviamo di fronte a personalità pericolose, che meriterebbero di essere espulse dal gioco democratico per attentato alla convivenza democratica.

Chi decide?

Certo la responsabilità dei messaggi d’odio è di chi li pronuncia, e lo fa in base a una strategia ragionata, cinica, ma ragionata. Non si faranno indietro, vanno cacciati.

Se fossimo davvero in un Paese maturo una parte significativa la farebbe l’informazione, smettendola di ripetere e provocare il ping-pong in cui questi inadeguati politici che invadono la nostra quotidianità riversano odio. Puro odio, misto a facili ironie o hashtag dementi.

Di fronte a un discorso d’odio il giornalista, prima ancora che il suo caporedattore o direttore, ha il diritto e forse anche il dovere di smettere di registrare, di scrivere o di filmare ed evitare che quell’odio si moltiplichi come un orribile blog nelle orecchie dell’opinione pubblica.
Non è una limitazione al diritto di cronaca. È una scelta consapevole. Lasciare chi odia muto.

Chi decide? Decidono i nomi in vista della tv, soprattutto quelli che vanno a invitare la destra o i razzisti nei loro dibattiti in tv, perché siamo maturi e così democratici da poter ingoiare di tutto. Fatevi un giro per le strade e parlate con le persone, non è questione di maturità. Il fascismo non è un’opinione, dice uno slogan azzeccato. E far correre i messaggi d’odio nel nome dell’essere democratici non fa che rimandare uno scontro che dovrete combattere con armi spuntate voi (presuntuosi), mentre i nemici della libertà con consenso racimolato a botte di populismo e con pratiche di violenza mai sopite saranno ancora più forti.

Decidono i cittadini, quelli che riconoscono l’odio e lo combattono. E però quanta fatica e solitudine nel vedere che molti di quelli che abbiamo delegato ad amministrare e rappresentarci nella vita pubblica non siano perentori nel tagliare, recidere legami con chi semina odio. Io, tu, cittadina e cittadino, dobbiamo sopperire non solo alla mancanza di un codice del discorso pubblico, ma addirittura dobbiamo lottare contro quei corpi intermedi che non solo sono scomparsi, ma che giocano contro di noi in un tifo da curva bestiale.

Macerata ci chiede una cosa precisa: di chi è la colpa? 
Non si è trattato di cosa nomale, né saremo fra le cassandre del ‘è solo l’inizio’, ma non si può eludere la domanda.

Non è colpa nostra. Non si dovrebbe chiedere ai sinceri democratici e antifascisti di caricarsi sulle spalle tutta una nuova resistenza. Ma meglio essere chiari. Se il livello di difesa delle regole di convivenza che viene assicurato dalle forze progressiste e dalla figura del ‘politico’ è solo quello di petizioni di principio, mentre interi territori vengono colonizzati o invasi dall’odio razzista, dalla propaganda fascista, dalla rimozione della storia, da un becero e facile populismo, allora dobbiamo parlarci chiaramente. Non saranno le forze politiche progressiste a governare questa priorità, ma un tessuto sociale che esiste e che spesso è arrivato a pratiche e stili di vita e azione che nulla hanno più di che spartire con il dibattito politico del Palazzo.

Come si fa a gestire una soluzione del genere? Si fa scegliendo. Un dibattito con Salvini? Non si va. Una polemica con la Lega o i fascisti? Non c’è ping pong a uso elettoralistico che tenga. Si scelgono i luoghi e dove apparire, non si stringono mani, non si accettano buffonate mediatiche che ai televisivi portano share, a noi portano Macerata.

È un pensiero drastico, che si fonda su dati di realtà, inoppugnabili, che dicono di una incapacità e inadeguatezza nel difendere e preservare la nostra repubblica antifascista. Non c’è solo il dibattito libero, dove l’espressione non ha confini. C’è la salvaguardia attenta di un dono che dobbiamo essere capaci di presevare, pur nell’era digitale, pur nel discorso social, anzi vieppiù per questa nuova sintassi che non fa che acuire il discorso d’odio di molti, troppi ‘politici’.

Non vuol dire ignorare la realtà. Vuol dire tornare a combattere nuove battaglie non più con Bella Ciao – che sempre canteremo emozionati – ma con gesti, parole e idee contemporanei. Senza arretrare, mai, nemmeno di un centimetro.

Si inizia dalle piccole cose. Il discorso di Salvini dopo Macerata non lo riportiamo in questo articolo, perché dovrebbe solo vergognarsi dell’odio che sparge. Salvini ieri è tornato a far leva su uno schema vecchio e ripetitivo, che si gioca sul fatto che qualsiasi frase dirà verrà riportata. Qualsiasi. Pensateci bene, perché non è questa la libertà. Noi possiamo premiare o punire, perché la scelta colpisce, alla fine, nelle economie i gruppi di potere. Le battaglie di principio si fanno certo affermando i principi, ma soprattutto colpendo gli interessi mediatici, quindi economici, di chi ci minaccia e tornando a creare rispetto ed entusiasmo nelle parole chiave del nostro convivere civile.

Salvini OFF