Un’analisi per leggere la nuova ondata di attacchi nella capitale afgana
di Emanuele Giordana, tratto dal suo blog Great Game
La guerra in sordina dell’Afghanistan, un conflitto che ogni anno reclama un sempre maggior numero di vittime, è tornata improvvisamente sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo.
L’esposizione mediatica è dovuta soprattutto a due attentati che, in rapida sequenza, hanno colpito la capitale e che portano la firma dei talebani, il movimento guerrigliero fondato da mullah Omar e oggi guidato da mullah Akhundzada.
Il primo ha colpito il 20 gennaio l’hotel Intercontinental, un vasto edificio razionalista da sempre residenza di corrispondenti esteri e uomini d’affari che si trova su una collina alla periferia della città.
L’assedio al commando asserragliato nell’edifico, durato quasi un’intera giornata, si è concluso con un bilancio di almeno 25 vittime, tra cui molti stranieri.
Una settimana dopo, i talebani hanno colpito nel mucchio con una strage nel cuore della capitale: un’auto bomba – nascosta dalle insegne di un’ambulanza – è saltata in aria col suo conducente in un’area dove si affacciano gli uffici dell’Unione europea, alcune sezioni del ministero dell’Interno e, poco più in là, il quartier generale della polizia.
La zona, sempre molto trafficata e non lontana dal municipio e dal gran bazar di Kabul, è frequentata da funzionari e poliziotti ma soprattutto da cittadini ordinari. Il bilancio ha superato i cento morti, in uno degli attentati più sanguinari della storia della capitale.
A rendere ancora più tragica la sequenza di attentati talebani, è stato – qualche giorno dopo – la strage di oltre una decina di soldati sempre a Kabul e – alcuni giorni prima – l’assalto alla sede di una Ong internazionale a Jalalabad, nell’oriente afgano a ridosso del Khyber Pass.
I terroristi hanno firmato i due massacri con la sigla dello Stato islamico: prendendo in ostaggio la sede di Save the Children e uccidendo membri del personale locale e dello staff internazionale di un organismo per la protezione dell’infanzia, gli emuli di Al-Bagdadi si sono assicurati la pubblicità che consente loro di dimostrare di essere sopravvissuti alle macerie di Raqqa…
Due scuole di pensiero
Se gli attentati stragisti con vittime civili sono all’ordine del giorno per gli uomini del califfato – che colpiscono senza problemi nelle strade e nelle moschee – i talebani sembrano aver deragliato da una strategia che coltiva quasi esclusivamente obiettivi militari e dove le vittime civili sono “effetti collaterali”, raramente se non mai obiettivo diretto.
Le analisi su questo nuovo “surge” talebano, caratterizzato da azioni dove sono inevitabili le vittime civili, hanno riempito giornali e televisioni, afgane e internazionali. Con due interpretazioni dominanti.
La più diffusa riguarda il Pakistan, che la recente messa in mora del presidente americano Trump avrebbe innervosito.
Trump ha accusato Islamabad non solo di fare il doppio gioco, sostenendo che anziché combattere il terrore in realtà foraggia e ospita i talebani afgani, ma ha tacciato i pachistani di essere solo dei bugiardi che meritano una lezione. Lezione equivalente al taglio dei fondi militari già decisi dal Congresso: un congelamento di circa 1,3 miliardi di dollari per l’anno in corso.
Il Pakistan ha reagito male ma non così duramente- almeno ufficialmente – come ci si aspettava. Ecco allora, sostengono diversi analisti, che Islamabad avrebbe risposto indirettamente, spingendo i talebani a colpire più duramente del solito.
Un messaggio che significherebbe in sostanza una sola cosa: che senza l’aiuto di Islamabad la pace in Afghanistan è una “missione impossibile”.
Altri analisti propendono invece per un’altra interpretazione, ben riassunta il 28 gennaio in un articolo sul New York Times di Max Fisher.
Anche se il Pakistan gioca sempre un ruolo importante nella guerra afgana, il surge talebano sarebbe piuttosto da mettere in relazione con la necessità del movimento di reagire alla nuova escalation nella guerra afgana che Trump ha promesso l’anno scorso e iniziata con un aumento delle forze americane nel teatro da da 11 a 15mila unità.
Quanto conta il Pakistan?
Questa seconda lettura della nuova stagione stragista talebana appare più convincente.
La nuova strategia enucleata nel 2017 da Trump prevede infatti più uomini e un maggior impiego della forza aerea, tradottosi in un aumento dei raid aerei (tre volte in più che negli anni precedenti).
Il presidente inoltre, ha dato luce verde alla Cia per raid mirati e selettivi anche in Afghanistan mentre, con Obama, l’intelligence poteva farli solo in Pakistan.
Secondo gli uomini del presidente (al netto di chi, come l’ex consigliere Steve Bannon erano contrari a questa nuova strategia), i talebani afgani e i leader pachistani, messi alle strette dalle bombe gli uni e dal taglio dei fondi gli altri, si sarebbero visti costretti a far partire negoziati di pace col governo di Kabul. Ma la strategia non sembra aver funzionato. I talebani, più dei pachistani, hanno reagito diversamente tanto che Trump, dopo gli attentati, ha escluso che si possa ancora parlare di negoziati.
Il Pakistan è indubbiamente un attore chiave nella crisi afgana ma non è onnipotente. Controlla il movimento talebano ma solo fino a un certo punto e fino a un certo punto riesce a condizionarlo.
Immaginare che i talebani di Akhundzada siano eterodiretti da Islamabad sembra più un desiderio che non una realtà.
Benché i paragoni in politica siano sempre effimeri e spesso fuori luogo, Islamabad sta ad Akhundzada come Pechino sta al nordcoreano Kim Jong-un che, come si è visto e nonostante le buone relazioni con la Cina, agisce assai spesso di testa sua.
Infine, Islamabad ha un problema interno generato nelle aree tribali pashtun dalla presenza dei talebani pachistani, movimento parente (anche etnicamente) dei cugini afgani ma autonomo e filoqaedista.
Per Islamabad il terrorismo è un grosso problema interno e la sua incapacità di risolvere il nodo in casa testimonia di quanto siano in realtà complessi i rapporti tra governo e guerriglie.
Se è pur vero che i servizi pachistani hanno giocato e giocano a fare i burattinai con i gruppi islamisti (spesso in chiave anti indiana), è altrettanto vero che il gioco è sfuggito di mano.
E stabilizzare l’Afghanistan è probabilmente anche un interesse di Islamabad, pur con tutti i distinguo. Anche perché Kabul chiude un occhio sui talebani pachistani che cercano rifugio in Afghanistan.
Alzare il livello dello scontro
La tesi di una scelta autonoma dei talebani nell’alzare il livello dello scontro ha dunque più di un valido motivo: è non solo un modo di reagire al surge americano appoggiato dal governo di Ashraf Ghani, ma quello di dimostrare che la guerriglia in turbante non è affatto sulla difensiva.
Spingere Trump a dichiarare che la pace è saltata è per i talebani una vittoria.
Il movimento, che raggruppa anime e tattiche diverse, è abbastanza disomogeneo e le direttive vengono da “shure” (consigli) spesso strategicamente distanti, che amministrano la guerra da Quetta a Peshawar ma anche da Mashad, in Iran, o da Doha, dove il movimento ha un ufficio politico.
Con gli attentati i talebani danno però un’idea di unità di queste anime tanto diverse: da quella del teologo Akhundzada, a quella di Sirajuddin Haqqani, leader di una fazione stragista e minoritaria ma ormai numero due del movimento.
A tutto ciò vanno aggiunti altri due elementi: il primo è che le stragi mettono in difficoltà un governo fragile e litigioso che gli afgani percepiscono come incapace di garantire la loro sicurezza persino nel centro della capitale.
Il consenso al governo è così labile che ogni attentato non fa che spingerlo sempre più in basso. L’altro elemento riguarda lo Stato islamico e il suo progetto del “Grande Khorasan”, regione ideale del progetto califfale che comprende Iran, Afghanistan e Pakistan.
Tra i due gruppi guerriglieri si è inevitabilmente stabilita una sorta di rincorsa competitiva per dimostrare chi sono i veri mujahedin. Lo Stato islamico non ha molti combattenti in Afghanistan e ricorre quindi praticamente solo agli attentati: suoi erano stati finora quelli col maggior numero di vittime.
Gli attentati talebani di Kabul sembrano dunque una risposta anche a loro e una rivendicazione di supremazia strategico militare per il primato sulla guerra nel nome di Allah.