Dal 1 febbraio al 3 giugno 2018 il MUDEC di Milano celebra con un’importante esposizione la pittrice messicana; dipinti inediti, fotografie, disegni e lettere ci restituiscono il ritratto di un’artista irripetibile
di Paola Mormina
“Gli incantesimi servono per rendere le persone innocue, stupide, o per farle ammalare. Non ci sono magie per formare guerrieri”, sosteneva Castaneda nel suo Una realtà separata, affidando le sue considerazioni allo sciamano messicano don Juan Matus.
Non esiste affermazione migliore per sintetizzare in poche righe l’esistenza di un’altra celebre messicana, la pittrice Frida Kahlo.
La mostra interamente a lei dedicata al MUDEC di Milano promossa dal Comune di Milano-Cultura, 24 ore Cultura-Gruppo 24 ore che ne è anche produttore, e curata da Diego Sileo, ci permette ci ricostruire completamente la sua figura dal punto di vista artistico e non solo.
Lei guerriera nel 1907 è nata davvero, ma amava dire di avere visto la luce soltanto il 7 luglio 1910, nel fatidico giorno in cui Emiliano Zapata iniziò la sua rivoluzione per liberare il Messico dalla dittatura del Generale Porfirio Diaz.
Figlia del decennio della rivoluzione, rivendicava quindi il fatto che lei e il Messico moderno fossero ‘nati insieme’. Nel clima misto a discrepanze sociali e orgoglio nazionale degli indigeni assoggettati alle potenze occidentali, ebbe modo d’interiorizzare largamente quel desiderio di lotta e giustizia per un mondo libero dalle disuguaglianze, dall’oppressione imperialista e dallo sfruttamento sfrenato capitalista degli uomini e delle risorse.
Si parla spesso di lei in termini di riferimento alla sua arte così influenzata dal suo mondo intimo e personale, manifestato attraverso una pittura costellata da stati d’animo pervasi da terribili sofferenze fisiche e morali; tuttavia tale aspetto non è l’unico presente, anche se predominante.
Sono quattro i perni attorno ai quali si snoda l’esposizione: Donna, Terra, Politica e Dolore, e ogni sezione è ricca di documenti e testimonianze.
La prima terribile prova di donna da affrontare per lei fu, a soli 18 anni, l’incidente in autobus dal quale uscì miracolosamente viva ma con una prognosi disastrosa: spina dorsale, costole, clavicola, bacino e gambe rotti; per la giovane Kahlo avrà così inizio il periodo della sua totale immobilità, costretta a letto per lunghi mesi in un busto di gesso che la trattiene come in una gabbia.
L’infermità le regala però la prima intuizione, quella di diventare un’artista, abbandonando la sua vocazione iniziale da medico.
L’arte diventa così per lei una valvola di sfogo, un mezzo per curare i suoi mali e per riflettere non soltanto su se stessa, ma anche sulla società e sulle vicende politiche che la circondano.
“Non sono morta”, confiderà in seguito alla madre, “e per di più, ho qualcosa per cui vivere. E questo qualcosa è la pittura”.
Nella Colonna spezzata, dipinge chiaramente quel suo povero corpo dilaniato, squarciato, tenuto insieme soltanto dai busti di gesso e dalle medicine.
E’ un corpo carico di chiodi (simbologia ricorrente nei suoi autoritratti, così come la corona di spine) ma soprattutto, è un corpo vuoto, cavo. Un corpo che non riuscirà mai a generare vita, dandole l’enorme sofferenza di non riuscire ad avere figli.
La malformazione pelvica, conseguenza dell’incidente, non consentirà ai feti di posizionarsi correttamente, costringendola così ad una serie di aborti spontanei e chirurgici, altro tema ricorrente nei suoi quadri, come nel terribile e intenso Henry Ford Hospital, ospedale di Detroit dove si trovava per subire il suo secondo aborto.
Nonostante le numerose avversità che le aveva già riservato la sua giovane esistenza non rinuncerà però mai a vivere appieno i suoi giorni, legando così l’impegno di artista a quello politico: diventa attivista del partito comunista già nel 1928, partecipando a manifestazioni e frequentando intellettuali e politici internazionali.
“Devo lottare con tutte le mie energie affinché quel poco di positivo che la salute mi consente di fare sia nella direzione di contribuire alla rivoluzione, la sola vera ragione per vivere”, e terrà sempre fede a questo monito, come testimonia il materiale presente in mostra.
La compagna, amica, e poi anche amante, Tina Modotti, la ritrae in molte fotografie che manifestano il suo impegno politico insieme al marito Diego Rivera, genio creatore dell’epopea del murale messicano, oltre che grande amatore dell’arte, della rivoluzione, e delle donne.
nella foto: Autoritratto al confine tra Messico e Usa, 1932, di Frida Kahlo – olio su metallo (31×35 cm)
In particolare quest’ultima passione diede a Frida parecchi turbamenti, aggiungendo alla sua costante sofferenza fisica un’interminabile tormento del cuore.
Il Messico in quegli anni diventa meta frequentata da rivoluzionari, artisti e attivisti politici. Nel 1938 Frida ospita a Coyoacán, nella loro Casa Azul, Lev Trotsky e sua moglie Natalia, in fuga da Stalin. Nell’aprile dello stesso anno anche il teorico del Surrealismo, André Breton, arriva in Messico con la moglie Jacqueline Lamba, soggiornando nella loro casa studio.
Frida familiarizza con le idee di Breton, che la descrive come “un nastro attorno a una bomba” e insieme, Trotsky, Breton e Rivera scriveranno il Manifesto per un’arte rivoluzionaria indipendente, rivendicando la totale libertà del pensiero artistico.
Vi fu un rapporto più che intimo intercorso per alcuni mesi tra la pittrice e il rivoluzionario russo, quando quest’ultimo era ancora ospite in casa Kahlo. Lui le prestava libri e infilava tra le pagine dei bigliettini che erano altrettante richieste d’appuntamento e dichiarazioni d’amore.
Per trascorrere qualche ora d’intimità s’incontravano così in Calle Aguayo a casa della sorella di Frida, Cristina Kahlo, quest’ultima bersaglio anche delle attenzioni amorose da parte del marito Diego, generando un incesto che forse per primo le diede l’impulso al tradimento, con uomini e donne indistintamente.
Qualche colpo di pugnale, dipinto del 1935, mostra il cadavere di una donna colpita a morte: con il cuore spezzato dalla relazione tra Rivera e la sorella Cristina, Frida riflette tutto il suo dolore e la sua rabbia nell’opera.
E’ però in Autoritratto alla frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti che la sua pittura si fa carico di forte significato sociale; la pittrice è ritratta al centro di una scena volontariamente scissa a metà: a destra è rappresentata la parte messicana, mentre a sinistra gli Stati Uniti.
Frida ha sempre amato la sua terra, e la paura di doversi trattenere troppo a lungo fuori dai suoi confini la destabilizzava; le mancava il sole, la natura, gli animali e le sue piramidi precolombiane, inoltre la solitudine di dover condividere il tutto con un Rivera sempre più assente, assorbito dai suoi incarichi negli Stati Uniti, accorciava sempre più la distanza dal ruolo di sposa che Diego e la high society americana le imponevano.
L’immagine più bella della pittrice è contenuta nelle ultime sale, dove sono esposte le fotografie che la ritraggono durante gli ultimi periodi della sua vita, intorno agli anni ’50.
Frida non nasconde le protesi (subirà l’amputazione della gamba destra), i bustini, le stampelle, mostrando soltanto il suo coraggio: una serie d’istantanee la ritraggono costretta a letto, completamente immobile, con il viso tenuto in trazione dalle cinghie sotto al mento.
A lato, il marito Diego Rivera l’osserva dipingere: si era fatta montare uno speciale cavalletto che sospendeva il quadro all’altezza del suo volto, consentendole di dipingere anche così, completamente sdraiata.
“Ero solita pensare di essere la persona più strana del mondo” rivelerà l’artista “ma poi ho pensato, ci sono così tante persone al mondo, ci deve essere qualcuna proprio come me, che si sente bizzarra e difettosa nello stesso modo in cui mi sento io. Vorrei immaginarla, e immaginare che lei debba essere là fuori e che anche lei stia pensando a me. Beh, spero che, se tu sei lì fuori e dovessi leggere ciò, tu sappia che sì, è vero, sono qui e sono strana proprio come te”.
Nulla di strano, per Frida. Che ha saputo cogliere il fiore della vita e l’ha saputo far germogliare anche se il terreno era arido, spesso impervio. Perché guerrieri si nasce, non si diventa, neppure con un incantesimo.