Da anni i media italiani ripetono che 19.000 italiani vivono e lavorano in Albania. Ma secondo il ministero degli Interni albanese sono meno di 2.000. Come si spiega una differenza simile?
di Nicola Pedrazzi, tratto da Osservatorio Balcani Caucaso
foto di copertina: @ Andrea Skerlavaj
19.000. Che sia in articoli, in trasmissioni televisive o in semplici esternazioni social, quando si parla della migrazione italiana in Albania quella è la cifra che ci siamo abituati a riportare.
Ma dove e quando nasce questo numero? E soprattutto: chi l’ha mai verificato? Se l’affascinante narrazione dell’inversione dei flussi si è da tempo affermata nel giornalismo italiano, il primo articolo che si è azzardato a quantificare il fenomeno risale all’ottobre 2014: venne pubblicato online, con virale riscontro, dal Corriere della Sera.
La fonte, che l’articolista riporta accuratamente tra virgolette, è albanese: si tratta di Erion Veliaj, al tempo ministro del Welfare, oggi sindaco di Tirana.
Questo il passaggio: “‘Nel nostro paese vivono e lavorano 19 mila italiani’, calcola Erion Veliaj, ministro albanese del benessere sociale e della gioventù nel governo socialista guidato da Edi Rama.
Numeri che, al netto degli imprenditori, dei rappresentanti diplomatici e degli studenti iscritti ai corsi di medicina all’Università Cattolica Nostra Signora del Buon Consiglio, indicano in 15-16 mila quelli che hanno un contratto di lavoro dipendente”.
Ora, come ricorda lo stesso articolo del Corriere, similmente a quanto accade in Italia per tutti i cittadini provenienti da paesi extra Schengen, anche in Albania gli stranieri che vogliano rimanere nel paese per più di tre mesi consecutivi sono obbligati a richiedere il permesso di soggiorno: per motivi di lavoro, di studio o di ricongiungimento famigliare.
Detto altrimenti, eccezion fatta per i diplomatici, un italiano che lavori o studi stabilmente in Albania ha il dovere di presentarsi presso la questura albanese e di dimostrare di essere in possesso dei requisiti previsti dalla legge.
Ne sanno qualcosa i pensionati italiani che sognano un economico (e detassato) riposo oltre Adriatico, e il cui progetto spesso si scontra con lo stato albanese , che alla pari di altri stati del mondo non considera un reddito da pensione un criterio sufficiente alla concessione del diritto di risiedere sul proprio territorio.
I dati ufficiali del ministero degli Interni albanese
Stiamo dunque alla legge albanese: se è vero che 19.000 cittadini italiani “vivono e lavorano” in Albania, 19.000 cittadini italiani devono aver richiesto e ottenuto un permesso di soggiorno dalle autorità.
È qui che casca l’asino, perché stando all’ultimo rapporto pubblicato congiuntamente dal ministero degli Interni e dal ministero del Welfare albanese (il dicastero che fu di Veliaj), nel 2016 i cittadini stranieri con permesso di soggiorno erano 8692, tra cui solamente 1694 italiani.
Sempre secondo il rapporto, al 1° gennaio 2017 si contavano sul suolo albanese 12.519 cittadini stranieri, pari allo 0,4% della popolazione. Tra questi 1854 italiani, ovvero qualche centinaio in più dei detentori di permesso di soggiorno annuale, ma meno di un decimo di quelli celebrati sui nostri giornali.
Insomma, la “carica dei 19.000” descritta dal “Corriere” nel 2014 non si raggiunge nemmeno sommando agli italiani tutte le nazionalità straniere presenti in Albania nel 2017: 3954 turchi, 719 kosovari, 331 cinesi, 184 siriani….
In conclusione e a scanso di equivoci: che i cittadini italiani attualmente presenti in Albania siano di più dei permessi di soggiorno rilasciati dalla questura è probabile e presumibile.
I casi sono molteplici: ci sarà, ad esempio, chi pendola tra i due paesi, o chi semplicemente il permesso non l’ha richiesto. A voler essere completi, in Albania vivono anche “albanesi di ritorno” provvisti di cittadinanza italiana.
Vogliamo contare anche loro? Il problema è che qualunque criterio si scelga per approssimare per eccesso, quel 19.000 rimane incompatibile con l’ordine di grandezza indicato dai dati ufficiali.
Una “fake news” a fin di bene?
Se non siamo disposti a credere che il ministero degli Interni albanese pubblichi dati falsi, e se non siamo disposti a credere che in Albania risiedano illegalmente, senza permesso di soggiorno, più di 17.000 italiani, una sola conclusione rimane a nostra disposizione: nel 2014 Erion Veliaj ha diramato numeri esagerati, cui importanti testate italiane hanno fornito per anni una grancassa di pregio, senza mai verificarli. Perché?
Le motivazioni di Veliaj sono comprensibili: nel maggio 2014, quando per la prima volta ha dato in pasto all’ANSA il fatidico “19.000”, era a Roma per incontrare l’omologo ministro Poletti. Il suo obiettivo era quello di avviare i negoziati per un accordo sul mutuo riconoscimento delle pensioni, un problema “storico” delle relazioni italo-albanesi, perché se un cittadino albanese lascia l’Italia prima di avere maturato la pensione perde tutti i contributi che ha versato (ad oggi l’accordo tra i governi continua a mancare).
Alla luce del saldo migratorio albanese, Veliaj aveva dunque tutto l’interesse a gonfiare i dati sugli italiani in Albania, al fine di crearsi un appiglio negoziale: riconoscete i contributi versati dagli albanesi, noi riconosceremo i contributi versati dagli italiani.
Se la “bugia a fin di bene” nasce in quel contesto, la sua resistenza nel tempo si deve però a una ragione più profonda. L’idea di un’Albania nuova, ambita e desiderata proprio da chi, per decenni, ha associato l’Albania ai gommoni, è un guizzo di marketing in linea con la propaganda dei governi Rama: una strategia mirata al rinnovamento dell’immagine internazionale del paese e indirizzata tanto agli imprenditori stranieri quanto agli albanesi della diaspora, che grazie a questa politica godono finalmente di uno stereotipo positivo – e che un giorno, forse, potranno sdebitarsi votando dall’estero, proprio come propone la maggioranza socialista.
Più difficile da comprendere sono le cause della credulità italiana. Con l’eccezione del portale EXIT – che pubblica anche in italiano , ma che è registrato a Tirana – al di qua del mare nessuna voce ha criticato le cifre provenienti dalla politica albanese, sebbene i dati dell’AIRE fossero di per sé già molto eloquenti: come ricordato dall’ambasciatore d’Italia Alberto Cutillo, gli italiani che al 1° gennaio 2017 hanno dichiarato di risiedere in Albania sono 1385.
Evitando di tirare in ballo il deterioramento della nostra politica e del nostro giornalismo – un problema più ampio del singolo episodio – l’incredibile leggerezza con cui in Italia abbiamo dato credito a un numero senza riscontri poggia nel caso specifico su due difetti tipici della relazione italo-albanese: lo spensierato disinteresse di parte italiana nei confronti dell’“Albania reale” (un paese di cui ci siamo sempre occupati tanto, ma a partire da noi stessi e dalle nostre emozioni, senza porci il problema di comprenderlo, né al tempo del fascismo, né al tempo del comunismo, né al tempo della democrazia); e per converso l’inamovibile importanza simbolica che l’”Albania dei migranti” ricopre nell’immaginario collettivo italiano.
Ecco perché, per raccontare la nostra crisi (e non i progressi albanesi) siamo ricorsi volentieri alla barzelletta de “gli albanesi ora siamo noi”.
Un parallelo che non conosce il rispetto per la storia che evoca e che uno scaltro politico albanese, a quanto pare esperto conoscitore della mentalità dei suoi vicini, è stato lieto di suggerire, nella certezza che l’avremmo bevuto.
Un’amicizia retorica
Sia chiaro: l’immigrazione italiana in Albania rimane una novità degna di nota. È vero che la nostra imprenditoria frequenta assiduamente il paese, è vero che aerei per Tirana decollano tutti i giorni dai principali aeroporti italiani, è vero che ogni anno decine (centinaia? Qualcuno conosce le cifre esatte?) di studenti che non superano il test nazionale di medicina si iscrivono alla Buon Consiglio, è vero che il turismo italiano è in aumento esponenziale, è vero che dopo il terremoto un ristoratore de L’Aquila si è rifatto una vita a Tirana; insomma è vero che l’Adriatico di oggi è un confine poroso, soprattutto se pensiamo ai tempi della cortina di ferro e del regime enveriano.
È tutto vero, e se si vuole dare a questa novità un giudizio di valore, ben venga: è tutto “positivo”! Tuttavia, nessun dato ufficiale ci consente di affermare che 19.000 italiani “vivono e lavorano” stabilmente in Albania.
Continuare a ripeterlo è umiliante nei confronti della nostra professione, mentre sul piano politico non migliora le relazioni tra i due paesi, non contribuisce alla conoscenza dell’Albania in Italia, non abbatte gli stereotipi, non fa onore agli albanesi e non li aiuta a stare meglio dopo decenni di difficoltà – per la cronaca, il disagio e la migrazione albanese non sono finiti, basta dare uno sguardo alle richieste d’asilo in Europa.
È triste ammetterlo, ma questa retorica amicizia italo-albanese, vuota e improvvisata come le cifre con cui la raccontiamo, serve più che altro a dare un po’ di ossigeno mediatico ai governanti dell’altra sponda: politici in difficoltà nonostante la bella immagine che vendono agli albanesi che in Albania non ci vivono più, “amici” che in questa fase cruciale del cammino europeo avrebbero tanto bisogno di un serio partner adriatico, ma cui negli ultimi tempi l’Italia riserva soltanto selfie e falsi entusiasmi. Viene il serio dubbio che ciò accada anche perché non abbiamo molto di meglio da offrire.