Photon: un Neo-Darwinista dal Regno di Cristo

Il secondo film dell’artista polacco Norman Leto anima la storia dell’universo come apoteosi dell’informazione

di Carlo Comanducci

In Polonia concetti complementari a volte sembrano non collimare. Lo spazio che unisce le cose e il loro significato sembra comportarsi in modo bizzarro e forse non può essere descritto con le stesse parole che usiamo altrove. Concetti come “eguaglianza” ,“politico”, “comune”, richiedono spiegazioni sempre più lunghe, premesse sempre più lontane.

Questa nazione che si dice etnicamente omogenea ma che porta come tutte i segni dell’eterogeneità della sua spesso sanguinosa, altrettanto spesso dimenticata, storia sta cercando, come altre, di combinare la logica del capitalismo globale con una chiusura identitaria attorno a presunti valori tradizionali. I risultati, prima di misurarsi, si respirano.

Sono arrivato a Varsavia lo scorso ottobre, per insegnare un anno in una piccola università privata e i contrasti qui sembrano più palpabili. La ricchezza un po’ più arrogante. La miseria un po’ più ampia e più profonda. I grattacieli di vetrocemento assediano il Palazzo della Cultura, un mastodonte costruito sulle rovine della guerra, come tutto a Varsavia, sul modello dell’edificio centrale dell’Università Lemonosov a Mosca.

Nell’enorme piazza antistante, il 19 ottobre scorso, Piotr S. si è immolato per protestare contro il governo di Jaroslaw Kaczynski. Nelle campagne c’è chi si lascia morire di freddo ubriaco per strada mentre nei caffè del centro dei quali i turisti ammirano il décor sono tutti belli, tutti eleganti, o quasi.

Photon

Vado a vedere Photon di Norman Leto (Polonia, 2017), una proiezione sottotitolata “english friendly”: perché Varsavia è una grande capitale europea non solo per dimensioni e certi stranieri li sa accogliere piuttosto bene.

Del film mi hanno colpito le immagini, viste su uno schermo nel foyer di un altro cinema: strane forme fluide e masse vibranti, universi di molecole o particelle evocati in un buio liquido che sono e restano la parte migliore del film. Mi hanno ricordato una versione, più fredda, dell’alchimia aliena delle performances di Hicham Berrada.

Mi informo: è un film sulla storia della materia, dalle origini al lontano futuro, raccontata in una specie di intervista al personaggio di uno scienziato poco convenzionale. Niente di meno. “Rappresentazione della storia della vita come fenomeno,” dice la pagina Wikipedia connessa al profilo del regista. Uhm, mi chiedo se sia un film creazionista.

Non lo è. E nel paese che nel Novembre 2016 ha visto nominare Gesù Cristo suo sovrano davanti al capo dello stato e in cui l’anno scorso decine di migliaia di clerico-fascisti marciavano il giorno dell’indipendenza nazionale gridando in coro “Vogliamo più Dio!” mi dico: è già qualcosa.

Ma qualcos’altro non va. Esco dal cinema con una sensazione di sconforto senza sapere interamente cosa l’abbia causata. Per quanto possa capire di meccanica quantistica, la prima parte del film, che illustra la formazione della materia dal nulla attraverso puri processi casuali, mi ha convinto. Quando si passa all’evoluzione di nuovo nessuna traccia di creazionismo, ma sembra insinuarvisi comunque una certa idea di volizione, come se l’informazione genetica in fondo in fondo avesse sempre saputo quello che stava facendo.

Tra questa seconda e la terza parte, in cui Leto immagina un futuro decisamente fabbricato a partire da teorie cibernetiche – fusione delle intelligenze umane e biologiche in un superorganismo disincarnato che si estende gradualmente a tutte le galassie – si trova la parentesi umana, dalla quale Photon elimina ogni questione politica o considerazione storica.

Il conflitto sociale, la società stessa, sembrerebbero in fin dei conti riducibili ad una questione di omeostasi.

Leggo che Leto cita il fisico David Deutsch come influenza e qui cominciano a chiarirsi i problemi: non solo Deutsch è un neo-Darwinista ma, come ha ben scritto David Albert sul New York Times, “il suo entusiasmo per la trasformazione scientifica e tecnologica della totalità dell’esistenza porta con sé naturalmente una fondamentale impazienza verso le devozioni dell’ambientalismo, del relativismo culturale e addirittura della democrazia parlamentare – cosa che è a volte esilarante, a volte fa paura.” (i)

Capire il neo-Darwinismo è capire un aspetto importante della tecnoscienza e con essa di un capitalismo tecnocratico che pur essendo, su alcune questioni, secolare e, per certi versi della parola, liberale, non si nega la collaborazione o quanto meno la spartizione del sensibile con cristiani, fascisti e nazionalisti identitari.

Il discorso di Photon fa perno su uno dei principali contributi del neo-Darwinismo, ovvero la versione dominante della Sintesi Moderna (cioè della combinazione della teoria dell’evoluzione e della genetica), fondata sull’idea di codice e di programma genetico.

Recentemente Denis Noble, professore emerito ad Oxford e pioniere della biologia dei sistemi, si è impegnato a più riprese a criticare l’impianto concettuale del neo-Darwinismo – non solo smentito a livello sperimentale ma addirittura non falsificabile in alcune delle sue affermazioni – proponendo di sostituirlo con una Sintesi Estesa, che prenda in considerazione un molto più vasto campo di influenze epigenetiche e di interazioni complesse tra DNA e cellula. Questa visione propone un’idea meno riduzionista dell’evoluzione, più sofisticata e, aggiungerei, meno adatta all’ideologia e alle pratiche della tecnoscienza.

In particolare, Noble disapprova l’idea di “codice” perché prevede una certa intenzionalità (un codice presuppone un messaggio scritto da qualcuno) e l’uso del termine “programma”, perché implica l’assunto che il DNA determini il comportamento dell’organismo come un programma informatico determina ciò che fa un computer.

Al contrario, la replicabilità del DNA è solo uno dei fattori che contribuiscono all’ereditarietà dei caratteri e, cosa più importante, il codice genetico non può essere considerato né come causa agente, né come causa finale del processo evolutivo.

Nel complesso, quella sposata dall’artista polacco è una concezione della scienza e dei fenomeni biologici che adotta una concezione di causalità riduzionista (perché centrata principalmente sull’idea di codice invece che su interazioni complesse), determinista (perché tende a presentare il programma genetico come causa attiva nel processo evolutivo) ed essenzialista (perché minimizza fattori politici e culturali laddove si avventura a parlare dell’antroposfera).

In particolare, Photon presenta una versione particolarmente riduzionista della netta distinzione tra replicatori e veicoli e che è il “culmine,” scrive Noble, del pensiero neo-Darwinista (ii). Leto combina questa versione con una apoteosi del concetto di informazione. Se si pensa al genoma nei termini di un algoritmo che programma e dirige la vita biologica, il resto dell’organismo diventa idealmente dispensabile, come in effetti si verifica nello scenario fantascientifico che conclude il film.

Insomma, Photon, al di là delle mirabili animazioni in computer grafica, propone un’idea di evoluzione che, pur essendo del tutto laica, è scientificamente questionabile e politicamente sospetta. Ma purtroppo non è finita qui. Se si prende in considerazione anche il precedente film di Leto, Sailor, uscito in concomitanza con un suo romanzo omonimo, Photon appare come la facciata più presentabile di discorsi scientificamente ancor meno sostenibili e politicamente molto più pericolosi.

Sailor

Se Photon mi ha sollevato dei dubbi, il precedente e primo film di Leto, Sailor (Polonia, 2010), me li ha chiariti nella peggior direzione possibile. Il film è scandito in tre lezioni di “fisica” (in realtà, si tratta di piuttosto di un misto di sociologia e neuroscienze) animate in computer grafica, inframezzate da qualche stralcio della vita personale di uno scienziato, interpretato da Leto stesso, arrogante, vanesio, sessista, politicamente scorretto, aggressivo e intollerante.

Non mi voglio dare la pena, né voglio a dare voi l’onere, di ricostruire il film con cura. Mi limito a darvi un’impressione attraverso qualche frammento.

La prima lezione spiega la differenza tra individui geniali ed idioti e ha il titolo “Struttura del cervello: sempliciotto fottuto contro una mente straordinaria” (la traduzione cerca di rendere l’inglese originale un po’ goffo).

“Gli organismi viventi sono programmati generalmente per avere paura dell’entropia e del distacco [credo Leto volesse dire ‘frammentazione’]. Ecco perché la polvere o uno stivale in stato di entropia avanzata turbano tutte le casalinghe.”

La seconda lezione introduce le “lifeshapes,” sculture digitali attraverso le quali lo scienziato nel film rappresenta la vita di una persona sulla base di un questionario con 150 domande e, se lo si crede, un complessissimo algoritmo. Leto lo fa per davvero: se volete vedere la forma della vostra vita secondo lui, basta pagare.

Inutile dire che la lifeshape di una casalinga è considerata più piccola e banale di quella di Gerladine Chaplin o di Stalin, ma sorprendentemente anche di quella di una persona in coma dall’età di dodici anni. Lo aspettiamo a Viterbo.

Per Leto tutto è simulabile, tutto è calcolabile. La terza lezione introduce una simulazione in cui “delegati”, creature informatico-biologiche, offrono al commento fascistoide dello scienziato una pantomima della società umana. Foderatevi lo stomaco per questa allucinante tirata omofoba ed eterosessista.

Fermiamoci qui: è quanto basta per discutere l’idea che la Polonia non sia solo un paese di un clerico-fascismo delirante, ma anche permeata da un discorso capitalista estremamente brutale che non gli è veramente opposto, anche se si presume che lo sia o si presenta come unica alternativa.

In particolare, Sailor evidenzia il profondo anti-egualitarismo che ho riscontrato sia tra alcuni dei miei studenti che, in forma più subdola ma più incallita, tra i miei colleghi e che aggiunge tratti essenzialisti ad un liberismo tanto economico quanto sociologico: per chi è nato stupido, non c’è niente da fare.

La riduzione quasi automatica dell’idea di uguaglianza a quella di uniformità che ne deriva, poi, sarà pure in parte una reazione immunitaria estrema alle violenze del comunismo autoritario, ma ora è una troppo facile giustificazione per le prevaricazioni più sfrenate su cui si va avanti a costruire e distruggere, distruggere e ricostruire, il paese.

Ulteriore segno di come in Polonia diventino confuse anche le situazioni più chiare, quando ho raccontato il film mi è stato detto che magari Norman Leto non le pensa veramente queste cose, che in fondo il narratore è così platealmente scomodo e insopportabile che non si può certo criticare il film per quello che vi viene detto. Sarà buona come scusa, per alcuni, ma non è di certo una spiegazione. Rimuovere ogni molecola di correttezza da un commentario pseudo-scientifico è sicuramente un risultato. Ma un risultato che serve a quale scopo?

Sia chiaro, non ho niente contro il dispositivo di un narratore scomodo di per sé: critico l’intento, che è quello di provocare, di confermare idee autoritarie e sfottere i più deboli.

Due esempi contrari: in modi diversi, sia The Axe (Francia, 2005) di Costa-Gavras (dove un ingegnere chimico licenziato da una multinazionale fa una lista delle persone con un curriculum migliore del suo per ucciderle) sia Shallow Grave (Regno Unito, 1994) di Danny Boyle (dove un gruppo di giovani “creativi” commette una serie di omicidi per mantenere il possesso di una valigia di soldi che si sono trovati in casa) adottano il punto di vista interno di personaggi detestabili e una visione del mondo inaccettabile, ma lo fanno per criticare questa visione non, o non solo, per darsi la licenza di godere, nell’immaginario, della sua scorrettezza. In più, in entrambi i film il bersaglio del cinismo sono i carnefici e il potere, non le vittime.

Leto invece questo dispositivo lo usa esclusivamente per una presa di distanza ipocrita da affermazioni di cui sembra proprio essere convinto. In una intervista non disdegna un paragone con Michel Houllebecq e si lascia scappare uno di quei commenti intolleranti – “l’arte contemporanea è troppo politica, troppo omosessuale, troppo ecologica [sic], o troppo come i video di MTV” (iii) – che in teoria avrebbero dovuto appartenere solo al suo impresentabile pseudo-scienziato. Che dire: a volte la vita imita l’arte, a volte annegano entrambe nei canali di scolo.

Il prossimo film nel cantiere di questo one-man-band della computer graphic si chiama Pilot e dovrà essere una simulazione degli attentati dell’11 Settembre 2001 dal punto di vista di un pilota militare Americano. Sembra il genere di argomento che si addice allo stile di un personaggio come Leto, diviso tra conformismo e shock e attento più che altro alla carriera.

i David Albert, “Explaining it All: How We Became the Center of the Universe,” The New York Times, 12 Agosto 2011, traduzione dell’autore. Accessibile online: http://www.nytimes.com/2011/08/14/books/review/the-beginning-of-infinity-by-david-deutsch-book-review.html

ii Denis Noble, “Evolution Beyond neo-Darwinism: A New Conceptual Framework,” The Journal of Experimental Biology 218 (2015): 7-13. Accessibile online: http://jeb.biologists.org/content/218/1/7.long

iii Neil Young e Norman Leto, “Polish Sailor Seeks New Horizons: An Interview with Norman Leto,” Neil Young’s Film Lounge: http://www.jigsawlounge.co.uk/film/reviews/leto-ivw/