La rotta balcanica è sbarrata e molti richiedenti asilo sono rimasti bloccati in Serbia. Inoltre, con l’abolizione dei visti per i cittadini di India e Iran, si sono aggiunti flussi nuovi da questi due paesi
di Francesca Rolandi, tratto da Osservatorio Balcani Caucaso
Scendendo dal mercato di Zeleni Venac, a Belgrado, per una strada ripida, Balkanska ulica, ci si lascia alle spalle il centro amministrativo della città per immergersi nella “Belgrado di sotto”, un nugolo spontaneo di case basse, alternate a palazzi del dopoguerra.
La Balkanska ulica dei tempi andati è stata raccontata dallo scrittore Ivo Andrić, con le sue centinaia di piccoli artigiani, i nuovi arrivati giunti nella capitale con la valigia, i mendicanti seduti nella polvere, che ricordavano un bazar orientale in una città che aveva voluto cancellare la sua identità ottomana.
Oggi di quell’epoca sopravvivono tratti di selciato, alcuni edifici tra i più antichi della città e poche botteghe, crescono i chioschi, sullo sfondo negozi cinesi e piccoli centri commerciali che hanno visto tempi migliori.
In fondo alla discesa si apre la zona delle stazioni degli autobus e dei treni, che, da quando la Serbia si è trasformata in un paese di transito, è stata sempre più segnata dalla presenza costante di profughi dal Medio Oriente.
Fino alla chiusura della rotta balcanica nel marzo 2016 trascorrevano alcune ore nel parco antistante in attesa di proseguire il viaggio. Successivamente, da quando le frontiere si sono trasformate in muri, il parco ha continuato ad essere un luogo di ritrovo.
Negli ultimi anni tutta l’area è diventata luogo di forti contrasti, tra il faraonico progetto di Belgrade Waterfront e la persistenza di aree di marginalità.
E proprio nelle strutture abbandonate, retrostanti la stazione dei treni, avevano trovato alloggio per alcuni mesi profughi provenienti da Afghanistan e Pakistan, che, nelle condizioni climatiche estreme dell’inverno 2016-2017, avevano attirato l’interesse dei media internazionali.
Il quartiere dei profughi
Nel maggio 2017 le autorità serbe hanno proceduto allo sgombero e al ricollocamento nei campi, distruggendo le baracche per evitare che venissero ripopolate. Da allora di profughi si è iniziato a parlare sempre meno, ma non è diminuita la loro presenza nel centro città.
E proprio nelle vie sovrastanti la stazione degli autobus si è creato in maniera informale un “quartiere dei profughi”, in una delle capitali europee che fino a pochi anni fa non aveva conosciuto flussi migratori di rilievo.
Queste trasformazioni sono passate inosservate alla stampa locale, che negli ultimi mesi non ha mostrato interesse per i nuovi sviluppi della presenza dei profughi in città.
Qui si trova anche l’ufficio di Info park, l’Ong nata sulla scia dei grandi arrivi dell’estate 2015 e diventata uno dei punti di riferimento per i profughi bloccati in Serbia. Info Park monitora anche la loro presenza nel quartiere.
Alcuni vi arrivano dal vicino campo di Krnjača per contare sul supporto delle associazioni non governative, locali o internazionali, qui presenti o per incontrare i trafficanti.
Centinaia di persone dormono in alcune delle numerose strutture abbandonate, che periodicamente vengono sgomberate dalle autorità, su pressione degli abitanti. In generale la polizia cerca di non intervenire, i trafficanti agiscono alla luce del sole e l’ostilità tra i locali cresce, senza che tuttavia si siano mai verificati scontri.
“Il transito esiste ancora. Nel 2017 calcoliamo che 8.000 – 10.000 persone siano passate nel paese. La chiusura delle frontiere ha solo aumentato la zona grigia e messo a repentaglio la loro sicurezza” spiega Stevan Tatalović di Info Park. “Mentre nel 2015 i profughi di solito rimanevano in città una settimana, nel 2016, con la chiusura della rotta balcanica questo periodo si è allungato a 5 mesi e nel 2017 a 9 mesi. La permanenza in Serbia dipende dalla quota che si è disposti a pagare ai trafficanti, più questa è alta e più le possibilità di successo aumentano. Ad aspettare più a lungo sono coloro che decidono di attendere la possibilità di entrare legalmente in Ungheria attraverso il sistema delle liste”.
Le tre rotte verso il cuore dell’Europa passano da Croazia, Ungheria, e da tempo ormai anche dalla Romania, popolare in particolare tra i curdi.
Nuovi flussi
Negli ultimi mesi, ai vecchi flussi se ne sono aggiunti di nuovi, in particolare dopo l’abolizione dei visti, da parte del governo serbo, per i cittadini di India e Iran.
Gli iraniani, da settembre 2017, sono la vera novità nel panorama dei profughi in Serbia. Il loro percorso e il loro profilo mettono in luce le discontinuità rispetto ai flussi precedenti. Arrivano in aereo da Teheran, provengono dalla classe media urbana, parlano inglese.
Alcuni di loro appartengono a minoranze e nei loro piani vedono la Serbia come trampolino per presentare la domanda di asilo in altri paesi europei. Sono poco visibili, raramente alloggiano nei campi, ma si appoggiano piuttosto alla comunità iraniana preesistente.
Il visto permette loro di soggiornare un mese legalmente in Serbia, trascorso il quale scivolano nell’illegalità e sono messi di fronte alla scelta se fare domanda d’asilo.
“Da settembre a oggi circa 6.000 cittadini iraniani, secondo i dati della polizia, sono arrivati in Serbia. Abbiamo chiesto informazioni alle autorità del ministero dell’Interno e degli Esteri circa la decisione di abolire i visti per i cittadini iraniani e indiani ma non siamo riusciti ad arrivare a una risposta univoca”, spiega Tatalović.
Continuano ad arrivare pakistani, siriani, iracheni (curdi e yazidi) e afgani. Il flusso di questi ultimi, tuttavia, appare in calo, anche come conseguenza dei rimpatri forzati, ma sono ancora molti coloro che si trovano bloccati in Serbia.
M. è arrivato con la famiglia dell’Afghanistan ormai 19 mesi fa e ha provato due volte ad entrare in Croazia. La prima volta è riuscito ad arrivare a Zagabria per essere poi espulso in Serbia, la seconda è stato malmenato alla frontiera.
“Se ci riprovi, I will kill you, mi ha detto il poliziotto in Croazia” racconta M., ma questo non ha mutato il suo proposito di raggiungere la Francia.
Q. ha lasciato la provincia di Nangarhar al confine con il Pakistan. Due anni fa era uno studente quindicenne, ma la sua famiglia decise di farlo partire perché si sparava notte e giorno, uno zio era stato ucciso e il padre ferito. Vorrebbe andare in un altro paese ma ha provato nove volte a entrare in Croazia e una in Ungheria, senza riuscirci.
Oggi ha 17 anni, collabora con Info Park come traduttore e inizia a comprendere il serbo, ma il suo principale problema è la sicurezza nel campo di Krnjača, alle porte di Belgrado, dove è alloggiato.
Il campo di Krnjača
Krnjača, situato alla periferia di Belgrado dopo il ponte che porta verso Pančevo, è attualmente l’unico campo nella capitale serba, gestito dal Commissariato per i profughi e le migrazioni della Repubblica di Serbia. Da non molto tempo sono stati ricollocati gli ultimi ospiti serbi, profughi dagli anni ’90.
Sebbene precedentemente avesse una fama relativamente tranquilla, da mesi il campo è segnato dalle violenze. Vi sono stati scontri tra diversi gruppi nazionali, una ventina di afgani e una ventina di pakistani hanno avuto un scontro a inizio febbraio conclusosi con alcune ferite da coltello. Ma soprattutto i network criminali che gestiscono i traffici sono penetrati all’interno del campo.
“I trafficanti, i mafiosi, aggrediscono e rubano soldi e telefoni cellulari. Sono andato più volte a parlare nell’Ufficio del Commissariato, ma mi hanno detto: Cosa ci possiamo fare?”.
R., afgano, è arrivato alla sede di Infopark dopo essere stato medicato dagli operatori di Medici senza frontiere. Giunto da poco in Serbia, racconta di essere stato aggredito da mafiosi nei pressi del campo che gli avrebbero rubato il cellulare.
La jungle, l’area dismessa, che separa il campo dalla fermata dell’autobus, è un frequente teatro di aggressioni, il che fa desistere molti dall’uscire dal campo.
In questa situazione di paura e frustrazione, oggi all’interno della struttura alloggiano molti minori, sia accompagnati che non, come molti giovani afgani, alcuni dei quali di soli 13 anni. Il Ministero del Lavoro ha di recente menzionato in un incontro del gruppo di lavoro dell’Unicef Child Protection l’intenzione di creare case sicure per i minori non accompagnati.
Al momento, tuttavia, in mancanza di programmi reali, sono loro le principali vittime del caos e dell’inerzia delle autorità serbe.