Oltre la guerra – capitolo 1

La Colombia, tra processo di pace ed elezioni

di Lorenza Strano

Un viaggio virtuale nella Colombia che resiste. Ogni episodio darà voce a uno dei municipi de Los Montes de Maria, in cui i sopravvissuti al logorante conflitto parlano di sé, dei loro talenti, della loro resilienza.

Video, foto e audio cercheranno di tramettere l’immensa accoglienza della gente, tra scene di vita quotidiana, emergerà quel lato della storia poco raccontato, quello delle “vittime” che non si arrendono ai ricordi di dolore.
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CAPITOLO 1 SAN JUAN

San Juan, piccolo municipio a un’ora da Cartagena, sfiora l’anima con una statua al centro della piazza.

È un omaggio alle vittime del massacro de Las Brisas. Non c’è sangue né un minimo accenno alla violenza. Dentro l’immagine di un contadino, con i suoi attrezzi di lavoro, si muove la vita.

È un omaggio all’identità, all’orgoglio, a tutto ciò che è speculare alla morte. “Dios ilumina el violento para que desarmen su alma malvada, ya no queremos mas llanto cultivemos todos la paz esperada”.

Con queste parole, Rafael, l’ideatore dell’opera, mi colpì la prima volta che visitai il paesino. Il suo sguardo è quello di uno che ha vissuto l’inferno ma che adesso sorride perché ha capito la chiave per andare avanti.

Non abbassa mai lo sguardo, sorride e dice: “Montes de Maria es decima, versos, cancion, fraternidad, oralidad. Empezamos a expresarnos con la creatividad a utilizar muchos medios para dar visibilidad a la verdad. Soy victima sobreviviente de Las Brisas, donde los victimarios dicen que no hubo tortura, pero a traves del arte hicimos reparacion simbolica, mostramos la verdad. Esta vale mas que la reparacion economica”.

San Juan è un rifugio di artisti che sentono la natura attorno con visceralità, che attraverso l’arte si proteggono da un passato aspro, decantano verità per ricostruire il futuro.

Il poeta

Se capita di passare per San Juan, la sera ci si può imbattere a sorpresa tra i versi poetici del Maestro.

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Cosi l’ha ribattezzato Manuel De la Rosa, giovane cantante che ha deciso di fuggire dai rumori di Cartagena per lasciarsi ispirare dal piccolo municipio. E lì trova ispirazione nello studioso di sonetti, una delle prime forme di poesia italiana, lo elegge a suo mentore nelle sere montemariane, quando il poeta si affaccia alla sua porta per godere del fresco.

Ha un passo lento, la voce chiara quando declama i suoi versi, gli occhi lucidi quando parla del suo paese.

“Amo tantissimo questo paese, ma non mi hanno mai capito”.

Ha passato la vita a insegnare matematica e dal rigore dei numeri ha tirato fuori la poesia che nel sonetto riconosce il matrimonio tra l’esercizio rigoroso del calcolo e la libertà della creazione.

Adesso passa le giornate nel suo studio pieno di libri e fotocopie, stampato a grandi caratteri Il cantare dei Nubelunghi.

Insegna metrica della poesia e arte del sonetto su internet in una università spagnola, la sera con il suo bastone si accomoda sull’uscio e con un po’ di fortuna si può ascoltarlo recitare a memoria le sue poesie. Mai ha lasciato san Juan, seppur in tempi violenti, non ha smesso di creare con le parole.

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Il cantante e la sua famiglia

In una casa umile, in una strada solitaria che dà sulla grande strada che attraversa la regione affollata di camion, si sentono i clacson impazziti e lo sfrecciare delle gomme sull’asfalto ondulato.

Ma non è l’unica cosa che si sente. Dopo le varie tende e porte di fortuna, in un patio marrone di foglie aride estive che lentamente scendono giù come neve, lo sguardo si posa su una foglia impigliata tra i capelli della nonna di Manuel de la Rosa.

La Abuela del Bolivar grande, quella che tiene in sé l’essenza dei miti delle leggende montemariane. Una memoria che va su due piedi e due occhi beffardi. I suoi racconti bisbigliati riportano in vita aneddoti sepolti da una violenza egocentrica.

Non le piace il trucco che le viene spalmato in faccia dalla figlia che la prepara all’intervista.

La figlia Cristina, scappò anni fa da San Juan ma non dalla musica. Se la portò dentro. Già nel ‘95 partecipò a programmi artistici per la pace.

I figli come lei ammette fiera sono cresciuti in questo clima di cultura di pace. Cristina provò la via della resistenza artistica prima di andar via, come istruttrice di gaita e tamburi nelle campagne attorno a San Juan.

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Riceveva minacce per questi processi artistici perché diventò vittima del meccanismo perverso del conflitto per cui se non eri da un lato eri dall’altro, infiltrato o guerrigliero.

Era difficile vivere a San Juan e molti sono andati via, artisti compresi. Per una madre non era semplice così si rifugiò nella fredda Bogotà. Cantavano per strada, tiravano loro monetine nei viali bogotani.

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Oggi canta da questo cortile insieme al figlio Manuel al quale ha insegnato tutto quello che sa. Una voce orgogliosa la sua, che esprime la tradizione orale che la madre le ha trasmesso. Parla della montagna, della casa tipica di barreque.

Di scenari montemariani che anche Manuel dipinge nelle sue canzoni.
Immersa tra i suoi successi del passato, tira fuori una valigia piena di ritagli di giornale, dischi, foto che la ritraggono nella festa dell’indipendenza di Cartagena.

Camaleontica, cambia d’abito come in diverse scene di un atto teatrale. Prima un’immagine molto gitana, poi una colorata molto caribena, tra le maschere ogni tanto emerge Cristina che non lascia mai la sua anima di artista.

La voce di questi cantanti vibra della rabbia di non aver potuto vivere grazie al talento, si emoziona nel continuare a cantare, a decantare il dolore e la speranza. “Ci sono uccellini che ancora cantano” ripete Manuel nelle sue canzoni dal sapore malinconico che lasciano intuire il potenziale dell’arte come mezzo di memoria, risanamento e condivisione.

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Attraverso il nucleo familiare hanno coltivato l’arte, la pace e la tradizione. Vivono insieme nonna figlia e nipote, suonando, cantando, recitando. Lì in quella umile casa sul ciglio della strada, con qualche gatto salvato all’abbandono a cui è stata condannata la vita di molti.