Una campagna elettorale monotematica: immigrazione come alibi e cortina fumogena
di Caterina Mazzilli e Lavinia Bertini*
Nella storia recente non c’è memoria di una campagna elettorale giocata così esplicitamente su un solo tema, in questo caso quello dell’immigrazione.
Durante la puntata di Otto e Mezzo del 13 febbraio, Laura Boldrini ha incalzato Matteo Salvini con la frase ‘se non ci fossero gli immigrati su cosa si baserebbe la sua carriera politica?’ E allargando la domanda anche a Meloni, Berlusconi e al Movimento 5 Stelle (che ha recentemente distribuito dei volantini dal titolo ‘Obiettivo sbarchi zero’), se non ci fosse l’immigrazione su cosa si baserebbe il loro programma politico? Quali sono le loro idee su lavoro, istruzione, sanità?
Non rispondere alle domande sul programma di governo non solo è una strategia retorica molto usata da Salvini, ma farlo con tanta persistenza e incontrastati sta trasformando questa non-risposta nella risposta.
É paradossale vedere come lo stesso leader della Lega, dopo aver attaccato la presidente della Camera perché ‘il suo governo non ha fatto niente per i terremotati, i disabili, i pensionati…’, riesca a eludere la domanda e riportare il discorso sul contrasto all’immigrazione.
Sembra così che fermare l’immigrazione dal Nord Africa all’Italia e rimpatriare ‘i clandestini’ possa automaticamente diventare la risposta ai problemi del precariato e della gestione delle ricostruzioni post-terremoto.
D’altra parte, il modo in cui l’immigrazione viene attualmente raccontata – come emergenza fuori controllo, fulcro e ragione di tutto ciò che non funziona in Italia – è ormai accettata come una verità.
Se politici, telegiornali, giornali, talk show pomeridiani raccontano l’immigrazione come un’invasione fuori controllo, pian piano questa verrà davvero percepita come un’invasione fuori controllo.
Ma di fuori controllo nella politica italiana ci sono solo le retoriche che, da destra a ‘sinistra’,
raccontano l’immigrazione in modo parziale: non c’è spazio per i numeri (ad esempio, quelli che indicano che gli sbarchi in Italia nel primo mese e mezzo del 2018 sono diminuiti del 49,93% rispetto allo stesso periodo del 2017), così come non c’è spazio per informazioni obiettive sulle leggi (ad esempio quelle che spiegano che la legge sull’immigrazione ora in vigore si chiama Bossi-Fini.
O che non è così facile rimpatriare gli irregolari, a meno che le loro autorità consolari non dicano ‘sì, lui è un mio cittadino, me lo riprendo’ – quindi, no, Berlusconi e i suoi non riusciranno a rimpatriare 600.000 immigrati come promesso).
Tutto questo, a nostro avviso, danneggia i diritti dei cittadini e non da la possibilità di fare una
scelta consapevole nella cabina elettorale.
L’immigrazione non è l’emergenza da cui scaturiscono tutti i mali dell’Italia: gli stranieri arrivano in Italia da più di 40 anni, come ricorda il ricercatore Enrico Pugliese su Open Migration, e gli sbarchi che fanno tanto spettacolo sono, paradossalmente, solo una piccola parte di essa.
L’emergenza è nel modo in cui l’immigrazione viene gestita e raccontata: l’istituzione dei Centri d’Identificazione ed Espulsione (CIE) con la legge Bossi-Fini ha creato sempre più irregolarità.
L’Italia, come dice Pugliese, ‘non ha mai voluto prendere in considerazione la proposta di una norma per “ingresso per ricerca di lavoro” né ha mai voluto trovare meccanismi di regolarizzazione in itinere come avveniva quando noi andavamo in Germania 50 o 60 anni fa. E anche questo che crea irregolarità.
L’emergenza, però, è anche nei concetti razzisti e logiche neofasciste con cui l’immigrazione viene raccontata.
C’é un intero filone di studi che si occupa di come luoghi, persone e fatti vengono definiti dal modo in cui vengono descritti e raccontati. Il geografo Ryden spiega che ogni luogo, con le sue caratteristiche, inizia a esistere da quando è raccontato e da quando questi racconti sono trasmessi da persona a persona, fino a che si trasformano in verità nell’immaginario comune.
Poi, ovviamente, lo stesso vale per quello che non viene raccontato. Un esempio chiaro ce lo danno i fatti di Fermo del 2016 e di Macerata, qualche settimana fa.
L’uomo che nel 2016, a Fermo, ha ammazzato di botte Emmanuel Chidi Namdi perché si era difeso dagli insulti razzisti rivolti alla sua compagna Chinyery è stato descritto come un ‘ultrà’, nonostante la condanna per omicidio preterintenzionale prevedesse l’aggravante razziale.
Amedeo Mancini aveva chiamato la ragazza ‘scimmia africana’, l’aveva offesa con insulti razzisti. Punto.
Ma nei titoli di cronaca Mancini viene definito come ultrà, come aggressivo, come ex-pugile…non come razzista. E quindi cosa diventa, agli occhi di legge le notizie o guarda un telegiornale? Diventa un ultrà, un aggressivo, un ex-pugile…ma non un razzista.
Nel maggio 2017 Borghezio, europarlamentare di Lega Nord, viene condannato per diffamazione aggravata dalla finalità di odio razziale per le parole espresse contro l’allora ministro dell’integrazione Cecyle Kyenge, in un intervento radio del 2013. Macerata, 2018: Luca Traini spara per le strade e ferisce sei persone, sei immigrati. Come riconosce che sono immigrati? Sono neri.
I giornali ci mettono giorni prima di parlare di attacco razzista; Renzi definisce l’attacco terroristico di Traini come l’atto di un ‘pistolero’ e per le vittime dell’attacco usa un generico ‘ragazzi’, che restano personaggi che si dissolvono nel racconto. Non sappiamo niente di loro, non sappiamo che gli è stato sparato perché neri. Ma sappiamo che Traini è uscito di casa con un tricolore sulle spalle per sparare a tutti i neri che vedeva, in un atto di rappresaglia dopo l’accusa allo spacciatore nigeriano Innocent Oseghale di aver smembrato e nascosto il cadavere di Pamela Mastropietro.
Un solo esponente politico va a trovarli all’indomani dell’attentato e la Presidente della Camera Laura Boldrini è l’unica personalità politica in carica che definisce apertamente l’attacco come ‘fascista’ e ‘razzista’.
Ma questo è un atto fascista: cosa c’è di più fascista che usare il tricolore italiano come scusa per sparare a uomini e donne in una vendetta sommaria e al di fuori della legge, sulla base del colore della pelle?
Nel racconto dell’ “emergenza immigrati”, il neofascismo e logiche razziste si alimentano a vicenda e da lì si propagano al più ampio sentire comune, il “non sono razzista ma aiutiamoli a casa loro”; al linguaggio politico e alla logica trasversale dell’“l’Italia agli italiani” – in cui serpeggia l’idea che italiano equivale a bianco. E scaturiscono nella vendetta individuale.
In questo panorama, lo scorso 15 febbraio, una delegazione di Antropologi biologici e culturali ha presentato presso la sala stampa della Camera dei Deputati un appello a favore della corretta diffusione di informazione scientifica nella battaglia contro il razzismo.
Al cuore di questa iniziativa, la consapevolezza che la risposta al razzismo, di stampo neofascista e no, si basa anche sulla corretta divulgazione nella scuola, nei media e nelle istituzioni, della diversità biologica e culturale, divulgazione in cui il concetto di razza perde ogni valore scientifico. Ma l’appello mette in chiaro che la conoscenza da sola non basta.
Serve, invece, mettere questa conoscenza al servizio di una battaglia politica e civile. Una battaglia che da un lato condanni gli atti di razzismo e fascismo – basta seguire la costituzione – e dall’altro argini il pericoloso diffondersi di idee e sentimenti razzisti.
È chiaro però che al momento ci troviamo di fronte a una debolezza politica, istituzionale e
mediatica allarmante non solo nella diffusione di informazioni corrette sui temi dell’immigrazione, ma anche nella capacità di condannare e agire contro queste derive razziste e fasciste sempre più esplicite e accettate.
Perché ci troviamo di fronte al paradosso per cui Forza Nuova, partito incostituzionale, fa campagna elettorale? Perché Casapound riceve più attenzione mediatica della manifestazione antifascista di Macerata organizzata dopo la sparatoria razzista di Traini? E perché non c’è più un senso comune di indignazione di fronte a questi fatti? Ma soprattutto, perché, di fronte alla crisi economica e sociale, è diventato più facile gridare “caccia allo straniero”, credere all’ “immigrazione fonte di ogni male” che pretendere responsabilità e impegno politico da parte di chi ci rappresenta.
Riprendendo l’idea di Ryden, crediamo che quello che manca oggi in Italia, sia anche, e soprattutto, un racconto alternativo, dell’immigrazione e del Paese. Un racconto fondamentale affinché la corretta informazione si diffonda e trasformi in battaglia politica e civile.
Un racconto che rinforzi l’idea di un’Italia antifascista al di là delle divisioni di partito, perché è su questo che è nata la nostra Costituzione.
Nei modi in cui il nostro paese è raccontato negli ultimi decenni, ci sembra si dia sempre più visibilità a personaggi, fatti e linguaggi che semplificando la realtà sulla base di colore della pelle e provenienza geografica, favoriscono la diffusine di sentimenti e atti anticostituzionali e antidemocratici di stampo neofascista e razzista. Per esempio, perché nei titoli di giornale, anche dei quotidiani più “autorevoli”, si da più rilevanza alla nazionalità di chi ha commesso il reato piuttosto che al reato stesso? E perché questo avviene soprattutto se a commettere i reati sono cittadini di origine africana?
Il punto è che a forza di ripeterci che il problema dell’Italia son gli immigrati e che ogni azione è accettata pur di rimandarli a casa non solo abbiamo finito per crederci ma ci sentiamo anche legittimati!
Di fronte a questa legittimazione, è necessario e urgente riportare al centro del dibattito e della battaglia politica e civile i valori dell’antifascismo, dell’antirazzismo, della solidarietà e dell’accoglienza.
E che si faccia di questi valori pratiche: tramite l’attuazione della costituzione, tramite scelte politiche, tramite il corretto uso dei termini nel dibattito pubblico.
È necessario sostituire al corrente ritornello del “prima gli Italiani”, l’idea che come cittadini
italiani pretendiamo onestà, responsabilità, e competenza da chi ci governa.
La storia dell’immigrazione come unico male dell’Italia non regge più, non basta. All’irritante logica del “o sei con me o sei buonista” dev’essere contrapposto il rispetto dei valori costituzionali; partendo dal riconoscimento che gli immigrati non sono una minaccia per l’Italia, ma xenofobia, razzismo e fascismo sì.
E aggiungiamo che i principi di accoglienza e solidarietà devono essere alla base delle politiche d’immigrazione nazionali. Non perché siamo buoni, ma perché siamo umani.
Parliamo di un Italia in cui essere definiti razzisti è motivo di vergogna e il fascismo è definito in un solo modo: un crimine. Chi tace o comprende, a parole o nei fatti, è complice. Non perché siamo buonisti, ma perché siamo orgogliosi di essere un popolo che settant’anni fa ha sconfitto il fascismo.
Smascherando e delegittimando la logica faziosa che monopolizza questa campagna elettorale, si può riportare l’attenzione su altri temi fondamentale per la ripresa, economica, sociale e culturale, del nostro paese: lavoro, pensioni, scuola, ricerca, sanità, legalità.
E soprattutto ci ritroveremmo tutti un po’ più umani.
*Lavinia Bertini. Il cuore tra la Toscana e Bologna e il domicilio a Brighton, dove sta svolgendo un dottorato in Antropologia Medica e Sociale alla University of Sussex. Appassionata di politica e temi sociali, s’interessa in particolare di pratiche e politiche del corpo e di saperi biomedici nel contesto europeo.