L’accademia britannica è impegnata in uno storico sciopero contro l’istruzione che si fa business e precarizza i suoi lavoratori
Di Daniele Tori
Il settore dell’istruzione nel Regno Unito è in fermento. Uno dei settori più importanti per l’economia del Regno (le Università generano un reddito attorno ai 50 miliardi di sterline, impiegando direttamente e indirettamente circa 420.000 persone) è tornato al centro della discussione politica, qualche tempo dopo i confronti sui possibili effetti della Brexit.
L’annunciata riforma del sistema pensionistico per i lavoratori dell’educazione ha fatto scattare quello che è stato definito come lo sciopero più lungo nella storia del sindacato (e del settore). Ma come si è arrivati a questo punto?
Da circa quarant’anni il sistema pensionistico di un’ampia percentuale dei lavoratori del settore educativo inglese è regolato da un fondo chiamato USS (Universities Superannuation Scheme). Questo fondo pensione, che gestisce circa 60 miliardi di sterline, è uno tra i maggiori nel Regno Unito (e nel mondo).
A pochi anni dalle riforme nel 2011, nel luglio del 2017 il fondo dichiara un defict tecnico di circa 6 miliardi di sterline, sostanzialmente causato (secondo lo stesso USS) da una caduta dei rendimenti sui bond governativi a basso rischio presenti nel portafoglio del fondo. Il punto importante che emerge da questa valutazione è che (secondo i direttori del fondo) al fine di garantire il livello corrente di benefits per i futuri pensionati, i contributi pensionistici versati (da impiegati e datori di lavoro) dovrebbero crescere del 10 per cento.
Riassumendo, il ‘nuovo corso’ proposto porterebbe ad un passaggio da un sistema a benefici definiti (defined benefit) a uno a contributi definiti (defined contribution).
Nel primo caso, la futura pensione mensile non dipende dal rendimento degli investimenti del fondo, ma si basa su criteri quali il salario medio e la durata dell’impiego. Il fondo promette di pagare una certa somma definita al momento del pensionamento. Nel secondo caso, i contributi pensionistici versati da impiegati e datori di lavoro vengono investiti (in bond, azioni, etc.) dal fondo, e il valore della pensione finale può oscillare a seconda della performance finanziaria. Risulta chiaro come schemi pensionistici del primo tipo siano più dispendiosi per i datori di lavoro, anche per il fatto (non secondario) che il rischio di lungo periodo è relativamente spostato su questi ultimi.
Questo cambiamento portato avanti dai gestori del fondo è supportato dai rappresentati dei datori di lavoro, ovvero Universities UK (UUK). Nei mesi scorsi un portavoce di UUK ha affermato che, dato il deficit del fondo e il ‘maggior costo’ delle future pensioni, vi è la necessità di incrementare i contributi versati di circa 1 milardo di sterline all’anno.
Questa posizione ha generato un’intensa vertenza che ha visto il maggior sindacato del sistema educativo prendere una posizione nettamente contraria. Il sindacato denominato University and College Union (UCU) che rappresenta i lavoratori dei settori della scuola secondaria (o ‘further education’, FE) e quelli del settore universitario (o ‘higher education’, HE), con più di 110.000 iscritti (insegnanti, ricercatori, e personale tecnico-amministrativo) è il maggior sindacato al mondo per questo settore.
Secondo il sindacato, la valutazione del fondo è sostanzialmente una rappresentazione falsata della realtà.
Infatti, sostiene UCU, gli asset del fondo USS hanno avuto una buona performance, nonostante la crisi del 2008. Nella proiezione a 40 anni sulla base dello lo status quo, il reddito e le passività rimarrebbero stabili. La crescita dei salari dello staff è fissa all’1 per cento dal 2009, con una riduzione del reddito pari al 17 per cento in termini reali.
Tuttavia, le proiezioni supportate dai datori di lavoro assumerebbero incrementi annuali dei salari, dei quali non si vedono segnali all’orizzonte. Nonostante le passività del fondo abbiano subito una riduzione dopo la revisione effettuata dopo la crisi del 2008, esse sembrerebbero attestarsi a 72 miliardi di sterline.
Si tratta però del risultato di una proiezione basata su un generale ‘de-risking’ (una riduzione del rischio programmato), ma soprattutto su di un’ipotesi che pare alquanto azzardata: il modello utilizzato da USS assume come possibilità il fallimento nel breve termine di tutte le maggiori (e più antiche) università inglesi.
Sebbene considerare un tale scenario sia comprensibile nel caso di una corporation, non è chiaro come questo possa avere senso nel caso del sistema universitario inglese. Si tratta infatti di quello che in gergo è un cosiddetto ‘zero-probability-event’, ovvero un evento sul quale non è sensato basare una previsione.
Secondo il sindacato, inoltre, il passaggio da benefici a contributi definiti sposterebbe il rischio sui singoli impiegati, tradendo il senso stesso dell’appartenenza ad uno dei fondi più grandi del mondo, ovvero la condivisione del rischio.
Negli ultimi anni, il programma di deregolamentazione del governo ha incentivato le università a espandersi e a competere tra di loro. Vari atenei hanno in progetto la costruzione di nuovi palazzi e interi campus per centinai di milioni di sterline, come ad esempio nel caso della università di Bristol o di Birmingham. Voci critiche in linea con la protesta del sindacato suggeriscono che la crescita del portafoglio immobiliare delle università, resa necessaria dalla crescente competizione, possa essere meglio finanziata sulla base di una riduzione del rischio strutturale (seppur fittizia) e quindi beneficiare di tassi di interesse sui prestiti meno elevati.
In breve, l’interpretazione del sindacato è di una ‘crisi costruita’ sulla base di discutibili ipotesi da parte del fondo USS, in un clima di ulteriore attacco al modello educativo in generale nel quale le università vengono considerate come aziende in competizione, invece che come un servizio pubblico.
Le due posizioni, ovvero quella di UUK and UCU, sono rimaste inconciliabili per mesi, raggiungendo uno stallo nell’autunno del 2017. Il sindacato ha quindi chiamato alle urne nel novembre del 2017 i suoi iscritti, chiamati ad esprimersi sulla proposta di indire uno sciopero generale. Con una affluenza pari al 57 per cento (una delle più alte nella storia del sindacato, e più che sufficiente per superare lo sbarramento per indire uno sciopero imposto dal nuovo Trade Union Act), l’88 per cento dei membri votanti ha detto ‘sì’ allo sciopero.
Data la argomentata impossibilità di trovare un accordo con i rappresentanti degli employers (i datori di lavoro, ovvero, i rettori), UCU ha quindi indetto uno sciopero generale, organizzato su più settimane, inziando con il 22, 23, 26, 27 e 28 febbraio, proseguendo con il 5, 6, e 7 marzo, e concludendo con i giorni dal 12 al 16 marzo (inclusi).
I primi giorni dello sciopero hanno visto un’ottima partecipazione, con picchetti in tutte le maggiori università dell’isola, e alcune manifestazioni spontanee.
Il momento topico di questa prima fase è stata la manifestazione organizzata da UCU a Londra per il 28 febbraio, con quasi 10mila persone che hanno sfilato nel centro della capitale, arrivando nella zona di Westminster dove vi è stato il comizio finale.
In una sala gremita della Westminster Hall non abbastanza capiente per accogliere tutti i manifestanti, la segretaria generale Sally Hunt ha spiegato come l’azione del sindacato non si sarebbe esaurita finché un accordo soddisfacente con UUK e USS non fosse stato raggiunto. Il comizio ha visto la partecipazione di vari membri del Labour party, tra i quali lo John McDonnell, che ha ribadito il supporto del suo partito alla causa degli impiegati in sciopero
Da notare anche il sostegno di Shakira Martin, presidente del sindacato degli studenti ‘National Union of Student’ (NUS), che ha sbrogliato uno dei punti critici di questa vertenza sul quale UUK e molti dei media hanno cercato di puntare i riflettori, ovvero gli effetti negativi dello sciopero sugli studenti.
Il King’s College di Londra ha addirittura istituito un fondo per rimborsare gli studenti interessati da spostamento di lezioni, ritardo nella correzione di esami, etc. Questo in un contesto in cui chi sciopera si vede perdere completamente il suo salario giornaliero, con la beffa del fatto che dovrà versare comunque la sua parte dei contributi pensionistici.
Tuttavia, gli episodi di solidarietà da parte di quelli che sono considerati i ‘clienti’ si sono moltiplicati, evidenziando la specificità del mondo dell’istruzione: la corrispondenza bi-univoca e inscindibile tra gli obiettivi di chi insegna e di chi studia. Se gli insegnanti non si sentono sicuri sul loro futuro, ha argomentato la Martin, le loro lezioni ne subiranno gli effetti. È negli interessi degli studenti stessi, ha concluso, supportare le richieste per condizioni di lavoro e di pensione dignitose e certe.
Le prime giornate di sciopero hanno avuto un primo effetto. UUK ha infatti deciso di tornare al tavolo delle trattative con UCU sotto la mediazione di ACAS (Advisory, Conciliation and Arbitration Service), anche se in generale non sembrano intravedersi riposizionamenti sensibili da parte dei datori di lavoro.
Tuttavia, da alcuni giorni si stanno sommando le prese di posizione di alcuni rettori che hanno pubblicamente supportato l’istituzione di una nuova trattativa, al fine di risolvere la disputa sulle pensioni degli impiegati. Nonostante questo, le azioni di protesta continueranno almeno fino alla metà del mese di marzo e, nelle parole della segretaria Hunt, non finirà se non quando un accordo accettabile sarà raggiunto: the strike must go on.
In realtà, come è stato ricordato varie volte dagli esponenti sindacali, il senso di questo sciopero formalmente rivolto alla disputa sulle pensioni è molto più ampio. Infatti, si inserisce in una continuativa critica alla recente evoluzione del sistema educativo britannico.
Secondo il sindacato, la privatizzazione e ‘marchetizzazione’ del settore (iniziate sostanzialmente con le riforme del New Labour di Blair) hanno portato a un’esplosione delle rette universitarie (e del debito privato studentesco), a una concentrazione delle energie (e risorse economiche) sugli aspetti manageriali e gestionali, in generale a un tradimento della missione originaria di un sistema che nei secoli è stato un solido punto di riferimento.
A questo si aggiunge un progressivo incremento nel salario dei Vice-Chancellors (gli equivalenti dei rettori italiani) che negli ultimi anni ha raggiunto livelli oggettivamente esorbitanti (a grandi linee, il rapporto tra il salario annuale di un VC e quello di un professore è di circa sei volte). Questo avviene in un contesto generale di stagnazione reale dei salari e di crescente precarizzazione dello staff universitario.