Tra i popoli indigeni della Colombia
di Anna Maria Volpe
Tra le montagne delle Sierra Nevada di Santa Marta, nel nord della Colombia, circondati dalla giungla, dall’azione dei narcotrafficanti e dei guerriglieri, vivono, da almeno 500 anni, circa 70mila indigeni, appartenenti ai popoli Arhuacos, Kogi, Wiwa e Kankuamo.
Pur parlando lingue differenti, essi condividono la stessa concezione dell’universo, della vita, e una comune e solida base culturale. Fortemente attaccati alla natura, credono che il fine ultimo della loro esistenza sia quello di prendersi cura del mondo. Un mondo, il loro, che sta cambiando rapidamente.
Nel 1990, in un celebre e lungimirante documentario della BBC (The Heart of The World: Elder Brother’s Warning), i Kogi sviluppano dei contatti con le società industrializzate.
L’obiettivo è di avvertirle circa i disastri naturali imminenti, provocati da un incontrollato sviluppo industriale. Da allora un po’ di tempo ne è passato, e siamo ancora molto lontani dall’aver colto il loro messaggio.
La Sierra Nevada è un luogo unico da un punto di vista ecologico. Può persino essere considerata uno specchio dello stato di salute del pianeta.
Lo sa bene Amado, uno dei leader indigeni del popolo Arhuacos.
Sguardo fiero, profondo, vestito in un abito bianco tradizionale, una vita dedicata alla lotta per la preservazione del territorio cui sente di appartenere. Una terra ancestrale, la Sierra, cuore del mondo, insieme unico di aspre montagne che si innalzano a poca distanza dal mare caraibico, non lontane da un’ampia superficie che lascia spazio ad una savana senza limiti.
La battaglia di Amado
Amado parla con convinzione della più grande minaccia che colpisce la sua gente: l’industria estrattiva.
“In Colombia buona parte dello sviluppo economico si basa sull’estrazione dell’idrocarburo e lo sfruttamento delle miniere. Ciò pone in serio pericolo gli equilibri della Sierra.
Oggi si contano 172 titoli minerari e 273 siti che stanno per aprire”, afferma preoccupato, continuando poi con toni convinti: “il popolo Arahuco, che fa della protesta pacifista, uno dei suoi pilastri, è in mobilitazione dal novembre dello scorso anno, fermo nel suo rifiuto delle attività estrattive e di qualsiasi altro mega progetto economico che possa stravolgere gli equilibri del territorio”.
Una marea di persone ha infatti occupato le strade di Valledupar (cittadina del Nord-Est della Colombia) con l’obiettivo di attirare l’attenzione del governo su questo spinoso tema. Al grido di “Difesa del territorio delle Sierra Neveda, territorio di pace!” e “Sierra Nevada, madre sacra”, il popolo Arahuco è in mobilitazione da fine novembre.
Come riportato dal Consiglio Regionale Indiano del Cauca, i siti minerari della Sierra impattano 332 fonti d’acqua e vi sono 1320 richieste di sfruttamento del territorio in attesa del via libera da parte dell’Agenzia Nazionale degli Idrocarburi.
I negoziati col governo
Secondo il giornale El Colombiano, il governo nazionale ha avviato un dialogo con le diverse comunità della Sierra a fine novembre, con l’intento di calmare le mobilitazioni.
Il compromesso proposto consiste nel proteggere 585mila ettari di terra che si aggiungono ai 400mila del Parco Nazionale della Sierra Nevada di Santa Marta, per un totale di 1,6 milione di ettari protetti.
Ma la domanda che ancora anima le popolazioni indigene è sempre la stessa: perché non dichiarare definitivamente l’intera Sierra libera da ogni sito minerario?
Sempre El Colombiano riporta che Leonor Zalabata, uno dei leader indigeni seduti al tavolo dei negoziati, ha dichiarato di essere sorpreso dall’annuncio del governo poiché non riflette la posizione delle comunità coinvolte.
Il governo, in risposta, sottolinea che si tratta di un lungo processo, composto di più fasi.
Secondo Il Vice Ministro degli Interni, Luis Ernesto Gomez, la zona da dichiarare protetta è solo l’inizio del nostro impegno.
“Lavoreremo insieme per raggiungere un accordo per una Sierra priva di attività minerarie. Il nostro obiettivo è che la Sierra sia libera prima della fine del mandato del Presidente Santos (le elezioni sono previste per Maggio 2018, ndr)”.
Queste le parole riportate dalla stampa colombiana.
Come rilevato dal giornale El Espectador, il vero seme della discordia è la delimitazione territoriale della Sierra Nevada de Santa Marta.
Per gli Arhuacos, essa ingloba un territorio così ampio che include le città di Riohacha, Santa Marta e Valledupar. Un’area, tra l’altro, che ricevette protezione come zona teologica nel 1973, poiché parte del territorio ancestrale Arhuacos.
Per il governo invece la Sierra Nevada di Santa Marta coincide con l’area de parco nazionale naturale, della riserva forestale e delle riserve indigene. E’ su questo punto che si gioca un eventuale accordo. Proporre uno strumento che chiarisca la delimitazione della Sierra concordato con gli Arhuacos e gli altri popoli potrebbe essere la soluzione.
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Cosa dice il Diritto Internazionale
Analizzando la situazione dal punto di vista del diritto internazionale, emerge subito che vi sono varie convenzioni e possibili approcci nella gestione di tali questioni, che rafforzano la posizione dei popoli indigeni.
Il Free Prior Informed consent (FPIC) è un metodo basato sulla partecipazione e la consultazione della popolazione indigena prima che venga avviato un qualsiasi progetto di natura economica sulle terre ancestrali.
Si considera, infatti, che i popoli indigeni abbiano un legame speciale con la loro terra e le loro risorse.
Il concetto di proprietà collettiva comune alla maggior parte delle popolazioni indigene è in conflitto con il moderno mercato globale e il suo continuo bisogno di risorse e terra.
Per questo, il diritto internazionale ha creato processi volti alla tutela del loro stile di vita, aventi anche l’obiettivo di incoraggiare la partecipazione al processo decisionale.
Il FPIC consente alle popolazioni indigene di avere il diritto all’autodeterminazione e all’autogoverno nel processo decisionale dei governi nazionali e locali su progetti che riguardano le loro vite. Si noterà inoltre come il concetto di “consenso” abbia un maggior peso e significato rispetto a quello di semplice “consultazione”.
Lo United Nations Permanent Forum on Indigenous Issues (UNPFII) stabilisce e struttura questo metodo, cosi come l’articolo 10 della Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli Indigeni (UNDRIP) adottata nel 2007.
Anche la convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro afferma i principi sovra citati.
Infine, la questione della mancanza di accesso delle popolazioni indigene ai meccanismi di reclamo per affrontare e contrastare le violazioni dei diritti umani è stata sollevata formalmente in seno al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite.
Come sostiene Luis Alberto Moreno Presidente dell’Inter-American Development Bank in un articolo del Guardian, se osserviamo la situazione da un punto di vista ancora più ampio, ci renderemo conto che in America Latina vivono circa 40 milioni di indigeni.
Complessivamente, le loro terre rappresentano circa il 23% della superficie totale della regione: un territorio immenso, equivalente alla superficie combinata di India, Pakistan e Afghanistan.
Gran parte di questa terra è ancora coperta da foreste e praterie la cui conservazione è un modo comprovato ed economicamente efficace per ridurre le emissioni di anidride carbonica, così come rilevato in un rapporto del World Resource Institute.
Rafforzare i diritti dei popoli indigeni sulle loro terre significa avere foreste che godono di migliore salute e effetti positivi sulle condizioni dell’intero pianeta.
Certo – prosegue Moreno- i diritti alla terra non sono una panacea. Anche quando ottengono il controllo, le comunità hanno bisogno di supporto su come utilizzare in modo più efficace le risorse locali, come fornire un sostentamento dignitoso alle loro persone e come affrontare attività illegali quali l’estrazione clandestina e il bracconaggio. Per questo il dialogo con il governo (nazionale e locale) non dovrebbe mai venire meno.
VITE IN PERICOLO
E qui giungiamo alle minacce e ai pericoli che Amado e la sua gente corrono nella vita di tutti i giorni. Perchè, purtroppo, la lista di attivisti uccisi è sempre più lunga.
Durante l’intervista, Amado ricorda le ingiustizie subite dalla sua gente: “molti leader di questo movimento sono stati assassinati da gruppi armati, teniamo il registro di coloro che sono spariti, ma noi non ci arrendiamo perchè queste montagne e il rispetto dei nostri diritti sono per noi garanzia delle sopravvivenza della nostra cultura”.
Non si tratta di numeri, ma di persone, di storie, messe a tacere per sempre.
Queste vite spezzate sono reali e ci interpellano. Emilsen Manyoma, ad esempio, era leader delle Comunidades Construyendo Paz en los Territorios (Conpaz), con sede a Buenaventura, Colombia.
L’organizzazione lavora con le comunità sfollate in seguito alla realizzazione di progetti minerari e agricoli. La regione è caratterizzata dalla presenza di paramilitari e trafficanti di droga.
Manyoma ha documentato uccisioni e sparizioni forzate ed è stata una feroce critica delle imprese che costringevano le persone ad abbandonare il loro territorio.
È stata uccisa con suo marito, Joe Javier Rodallega. I loro corpi sono stati trovati il 17 gennaio dello scorso anno.
Yoryanis Isabel Bernal Varela ha combattuto per i diritti delle donne indigene. Ha guidato la tribù Wiwa nella Sierra Nevada di Santa Marta. È stata uccisa da assalitori armati su una moto.
Efigenia Vásquez Astudillo era una giornalista di Renacer Kokonuko, una stazione radio comunitaria gestita dal gruppo indigeno Kokonuko. L’8 ottobre è stata raggiunta da colpi di armi da fuoco mentre copriva gli scontri tra la polizia e i membri della comunità locale, che occupavano terreni a Puracé, nel dipartimento sudoccidentale di Cauca. È morta per le ferite riportate in ospedale .
Queste sono solo alcune delle storie atroci che gli indigeni colombiani e del mondo intero hanno subito e, molto probabilmente, subiranno.
«Noi chiediamo solo al governo di manifestare in modo deciso e determinato la volontà politica di liberare la Sierra dai nefasti impatti degli interessi industriali», mi scrive Amado, “Chiediamo il riconoscimento reale, e non meramente formale, della nostra identità, del nostro modo di concepire il mondo e di continuare a vivere in armonia con ciò che siamo”.