La rivoluzione del 1974, e le sue dinamiche, in mostra a Genova
testo di Marcello Sacco
foto di Fausto Giaccone
La storia in piazza, festival a cura di Luciano Canfora e Franco Cardini, quest’anno ha per tema le rivoluzioni, una rassegna che va da Spartaco a Mao passando per il tumulto dei Ciompi.
Si svolgerà a Genova dal 12 al 15 aprile, ma già dal prossimo 16 marzo offre un appetitoso aperitivo con l’inaugurazione, a Palazzo Ducale, della mostra fotografica Una storia portoghese, di Fausto Giaccone, fotoreporter che nell’estate del 1975 visitò il Portogallo e documentò quella fase della Rivoluzione dei garofani nota come PREC (Processo Revolucionário em Curso), seguendo in particolare le lotte dei contadini del Sud per il diritto alla terra e contro il latifondo.
“Troppo presto/troppo tardi” è una vecchia formula che sintetizza bene la fatale e beffarda tempistica rivoluzionaria.
Presa da una lettera in cui Engels parla della Rivoluzione francese a un giovane Karl Kautsky (che Lenin, anni dopo, bollerà come rinnegato), divenne il titolo di un film della coppia Straub/Huillet, Trop tôt, trop tard, famoso tra cinefili/militanti e militanti/cinefili di qualche decennio fa.
Anche la rivoluzione portoghese giunse quando forse erano in pochi ad aspettarla. E se la storia ci fa pensare al presente, dunque al Portogallo di oggi, facciamo allora, come nei film, un passo indietro…
Il regime di Salazar era nato prima di Salazar e a Salazar era sopravvissuto. L’anonimo professore dell’Università di Coimbra aveva trasformato in una sua creatura il golpe militare del 28 maggio 1926 (a cui era inizialmente estraneo) facendo leva sul potere acquisito come ministro delle Finanze in un Paese sprofondato in una grave crisi del debito sovrano.
Da ministro divenne poi presidente del Consiglio e quindi padre costituente col varo, nel 1933, di una Costituzione che chiudeva la fase militare del regime e avviava il cosiddetto Estado Novo, una dittatura molto astuta e a suo modo moderna, perché capace di stabilire alleanze sia con i regimi ideologicamente più affini, come l’italiano e il tedesco, sia con democrazie storiche come l’Inghilterra (partner secolare del Portogallo) e gli Stati Uniti.
E Salazar prima gestirà abilmente un’epocale crisi dei rifugiati in fuga da Hitler, poi presterà l’arcipelago delle Azzorre all’offensiva aerea in Europa, che risulterà decisiva per la vittoria degli Alleati.
Così il Paese superò lo scoglio della seconda guerra mondiale, come e più della Spagna di Franco, che non sarà mai ammessa, per esempio, nella NATO, di cui Lisbona fu invece membro fondatore.
Una volta messe le istituzioni nella botte di ferro delle buone relazioni internazionali, tutte le speranze di sovvertire il regime si videro costrette a fallire per altri tre decenni, sia che si trattasse di tentativi insurrezionali, sia che si cercasse di rinnovare “dal didentro”, come quando il generale Humberto Delgado, sfruttando la candidatura alla presidenza della Repubblica in elezioni normalmente considerate una farsa, riuscì nel 1958 a unire le opposizioni, anche quella comunista nella clandestinità, in una campagna elettorale memorabile finita poi con i brogli, l’esilio e, qualche anno dopo, l’assassinio del suo coraggioso protagonista.
Passato lo scoglio della guerra mondiale, però, il Portogallo non riesce a doppiare il capo di Buona Speranza di quella decolonizzazione che sta trasformando velocemente il volto dell’Africa.
Con il sorgere dei nazionalismi armati anche nelle loro colonie, i portoghesi si ritrovano presto impantanati su più fronti, tra Angola, Mozambico e Guinea, in una lunga guerra che risulta sempre più ardua da vincere sul piano militare. Per questo motivo il riscatto nazionale riparte dall’Esercito.
Nel ’68 Salazar era caduto da una sedia (in seguito a un ictus) e non si era più ripreso. L’aveva sostituito un suo vecchio delfino, Marcelo Caetano, che per un po’ aveva perfino fatto respirare ai più ottimisti il profumo della cosiddetta “primavera marcelista”, eppure la guerra “oltremare” era proseguita più dura che mai, insieme con la repressione interna della polizia politica.
Qui entra in gioco il neonato Movimento delle Forze Armate e la manovra che all’alba del 25 aprile 1974 porta le autoblindo nelle strade della capitale. Ancora una volta i militari.
Quello dell’Esercito, pur democratico nelle intenzioni, è all’inizio un “piano solo”, perché non prevede la partecipazione di civili né coopta Marina e Aeronautica (che però quel giorno restano a guardare, evitando il bagno di sangue), ma trova l’adesione attiva della gente, che dà un’impronta di movimento di massa a ciò che poteva sembrare solo una resa dei conti interna.
E mentre le fioraie con i loro garofani rossi provvedono al “marketing rivoluzionario”, per i movimenti dal basso questo non è che l’inizio.
Rientrano gli esuli, si costituiscono nuovi partiti e si insediano quelli a lungo proibiti e ridotti alla clandestinità, il popolo è chiamato a eleggere un’Assemblea costituente e nel frattempo si nomina una Junta de Salvação Nacional per governare la transizione.
Ma il movimento ha molte anime e gli attriti si vanno facendo più forti. Il generale Spínola, nominato presidente della Junta, è un soldato che ha avuto la lucidità di scrivere una verità scandalosa sotto il regime, ma ovvia per gli esperti di guerriglia (siamo o non siamo negli anni del Vietnam?), e cioè che la guerra in Africa non poteva essere vinta solo con le armi.
Ma Spínola è in fondo un uomo dell’apparato, un riformista in ritardo come lo stesso Caetano (anche certi conservatori arrivano troppo presto o troppo tardi, come i rivoluzionari secondo Engels), e quando si vede scavalcato a sinistra tenta prima uno sciopero della “maggioranza silenziosa” (28 settembre ’74), che viene proibito, poi una sorta di contro golpe (11 marzo ’75) che fallisce e lo costringe all’espatrio.
A questo punto nasce il Consiglio della Rivoluzione (eredita i poteri della Junta) e inizia il PREC, fase in cui prevalgono le posizioni dell’ala radicale del MFA e del Partito comunista portoghese.
Questa “egemonia” culturale e tattica tuttavia non trova riscontro nei risultati delle prime elezioni a suffragio universale, a un anno esatto dall’alba dei garofani, il 25 aprile 1975, e si spegnerà di lì a pochi mesi, il 25 novembre, dopo una prova di forza dei comandi militari più estremisti, i quali scoprono di non poter contare sull’appoggio né del resto dei commilitoni né dei militanti del Pcp, e così devono arrendersi.
Tra i capisaldi del PREC c’era la riforma agraria nelle campagne, una nuova politica abitativa nelle città, nonché la nazionalizzazione della banca e dell’industria; azioni decretate dal governo, ma precedute e seguite da intense occupazioni di terre, case e fabbriche.
Un attivismo sociale che, al di là degli intrighi di Palazzo e delle fumisterie ideologiche, traduceva concretamente i bisogni delle classi più povere di una nazione che usciva da mezzo secolo di dittatura.
E mentre i padroni di un tempo prendevano il volo verso altri lidi (specialmente il Brasile), da tutto il mondo arrivavano giornalisti come Giaccone per fissare sulla carta e sulla pellicola gli eventi di questa turbolenta ma vivace tappa rivoluzionaria.
Tra rivendicazioni giuste e inevitabili eccessi, quel Portogallo sembra però destinato a naufragare soprattutto per la mancanza di un contesto internazionale favorevole.
Lo stesso contesto che ha conservato così a lungo la dittatura non pare realmente interessato ad alimentare ora un focolaio rivoluzionario nel lembo estremo dell’Europa occidentale. Oltre alla prevedibile azione controrivoluzionaria dell’Ambasciata americana e alla pressione dei numeri macroeconomici (si veda la caduta vertiginosa del PIL di quegli anni), sarà la stessa URSS di Brežnev a frenare i comunisti portoghesi in nome della coesistenza pacifica stabilita negli accordi firmati a Helsinki proprio nell’estate del ’75.
Se sul piano delle neonate istituzioni democratiche, con il 25 novembre, si chiude una fase in cui la deriva autoritaria era un pericolo reale, sul piano sociale inizia un’epoca di nuove sconfitte.
I socialisti, veri vincitori alle urne e vicini alle posizioni delle socialdemocrazie occidentali, plasmeranno un Portogallo certamente pluralista (anche contro le pulsioni reazionarie di chi voleva rimettere al bando i comunisti), ma si apriranno al dialogo politico solo a destra. Per i comunisti ortodossi saranno i nuovi “rinnegati” (ognuno ha i Kautsky suoi) e dovranno passare diversi decenni e ben tre interventi del FMI (1977, 1983 e infine la troika del 2011) per vedere un governo basato sul sostegno di tutte le sinistre, come l’attuale governo Costa, che da un po’ di tempo a questa parte suscita la curiosità della stampa internazionale e la stima particolare della litigiosa sinistra italiana.
In realtà, guardando in filigrana il nuovo Portogallo attraverso le vecchie foto di Giaccone (i contadini scalzi, le bambine alla presa dei palazzi padronali armate di bambolotti, le bandiere portoghesi in netta prevalenza su ogni simbolo politico…), vediamo ancora un Paese che semplicemente fatica a coniugare crescita economica e ridistribuzione della ricchezza, quadratura dei conti pubblici e riconoscimento di diritti minimi; un Paese paradossalmente bisognoso della cosiddetta ultrasinistra per attuare una politica sociale che altrove sarebbe considerata timida.
E delle follie del PREC, col passare del tempo, anche in Portogallo non rimane che un ricordo a metà del guado, fra l’utopico e il distopico, secondo i punti di vista di un dibattito che non è soltanto storiografico, ma politico: momento irripetibile di collettivizzazione e democrazia diretta ancora tutta da realizzare (trop tôt…) o trionfo degli abusi della piazza e della caserma, esperimento tardivo (trop tard…) di un improbabile soviet in riva all’Atlantico.