La storia del quartiere Scampia, una storia di emarginazione e violenza, come raccontato in Gomorra, ma anche di tante iniziative di resistenza e costruzione di un futuro diverso.
Di Tommaso Siviero
Quando si parla di Scampia, poche immagini corrono nella testa: camorra, droga, la sagoma inquietante delle Vele. Nelle orecchie risuona il rumore degli spari della faida. Gomorra. Chi non ha mai letto il libro di Saviano, o almeno visto il film e la serie che ne sono stati tratti? Il quartiere è legato a quell’immagine cristallizzata: del prima e del dopo non si sa nulla.
Come si è arrivati alla faida e, soprattutto, cos’è oggi Scampia sono interrogativi a cui spesso mancano le risposte. “[…] ho gli stessi occhi di Scampia” cantava dal palco dell’Ariston Enzo Avitabile, cantautore originario del quartiere, durante l’ultima edizione del festival di Sanremo.
Bisogna cercarli quegli occhi, troppo spesso ignorati, schiacciati da chi cercava solo le immagini forti dei morti, dello spaccio, per riuscire a capire davvero cos’è stata e cos’è oggi Scampia, oltre Gomorra.
Dalla nascita alla prima faida
“Scampia nasce grazie alla legge 167 del ’62 sull’edilizia agevolata” mi racconta Mirella La Magna del Gridas, centro sociale nato sul quartiere nell’81. “A luglio del ’72 iniziano gli espropri dei terreni: fino ad allora qua era zona di campi, masserizie e ruderi romani. Precedentemente erano stati edificati alcuni rioni che poi entreranno a far parte del quartiere, come il rione Monterosa, del secondo settennio del piano INA-Casa, e il rione ISES del ’68, nato dietro bando dell’Istituto di Sviluppo per l’Edilizia Sociale”.
I problemi arrivano con il terremoto dell’Irpinia del dicembre del ’80. 280.000 persone rimangono senza casa da un giorno all’altro.
Il progetto del quartiere viene velocemente modificato: c’è bisogno urgente di nuovi alloggi. Gli uffici del centro direzionale previsto dal progetto originale, così come ogni altro spazio adibito a servizi o centro di ritrovo, lasciano il posto ad appartamenti. Nasce così la “167 di Secondigliano”, 21° circoscrizione e, dal 2006, VIII municipalità di Napoli: il quartiere conosciuto come Scampia, che oggi conta una popolazione tra i 60.000 e i 70.000 individui, tra residenti e abusivi.
Nasce come un ammasso di cemento armato e calcestruzzo, privo di qualsiasi tipo di servizio, sopra al quale troneggiano le sagome inconfondibili delle Vele. Progettate dall’architetto Francesco di Salvo, pensate per essere strutture all’avanguardia per l’epoca. 45 metri e 14 piani per ogni palazzina, costituita da due blocchi paralleli a gradoni e un grande vuoto centrale, che avrebbe dovuto portare luce ed aria ai vani degli appartamenti.
Per diversi problemi, la realizzazione non segue il progetto originale: cambiano la struttura e soprattutto la larghezza del vano centrale. Il risultato è un intrico di ballatoi, scale e passerelle che di fatto toglie ogni luce e ogni privacy agli abitanti. Gli spazi verdi, le zone comuni e i vani per i servizi sanitari e gli esercizi commerciali, presenti nel progetto originale, non vengono mai realizzati.
Tra occupazioni abusive e completa assenza di manutenzione, le vele sono diventate simbolo del degrado urbanistico e sociale di Scampia.
Il quartiere appena nato non aveva mezzi di trasporto che lo collegassero alla città – la metropolitana arriva solo nel ’95 – né strade praticabili: quelle presenti erano ancora montagne di terra smossa per gli allacciamenti di telefono, gas e acqua.
“Era un quartiere dormitorio. Non si trovavano negozi” sottolinea Mirella “né tanto meno scuole. Intere generazioni non hanno studiato per mancanza delle strutture. Si è radicata un’abitudine all’analfabetismo e la scuola è stata svalutata: molti hanno imparato a farne a meno, ad arrangiarsi con quel che avevano. In assenza di negozi, c’è chi ha iniziato a vendere senza licenza i beni necessari.
Questo è un primo passo nell’illegalità, un precedente quasi obbligato, vista la situazione. La mancanza totale di posti di lavoro completa il quadro. Il quartiere così costruito era l’habitat ideale per la camorra: un concentrato di ignoranza, microcriminalità e gente senza lavoro”.
I grandi appalti pubblici stanziati per l’edificazione delle palazzine sono una manna per i piccoli gruppi camorristici del rione ISES e Monterosa, che fanno soldi a palate con il movimento terra. Questo permette al clan dei Di Lauro di fare un salto di qualità: “da contrabbando di sigarette e gestione della prostituzione” spiega Mirella “riescono a mettersi in contatto diretto con vari cartelli sudamericani”.
Sono gli anni in cui va forte l’eroina, che inizia ad arrivare in grandissime quantità nel quartiere insieme alle altre droghe: vengono vendute a prezzi stracciati e Scampia diventa presto il luogo in cui da tutta Italia si viene per comprarle.
Grazie al traffico di droga, negli anni d’oro dello spaccio, 15.000 persone del quartiere si guadagnavano di che vivere, secondo una ricerca dell’Università “Federico II” di Napoli. “Non si parla di grandi camorristi” ci tiene a specificare Mirella “ma di bassa manovalanza”.
Il clan di Lauro prende il controllo sul territorio: la droga si vende nelle piazze di spaccio, che spesso sono i cortili delle palazzine di cui i camorristi si sono appropriati delle chiavi. I proprietari degli appartamenti sono costretti a chiedere il permesso per entrare ed uscire dalla propria casa.
Girano i milioni nel quartiere, e c’è chi reclama la sua parte. Si arriva così alla famosa faida: nel 2004 una costola dei Di Lauro si stacca. Inizia una guerra tra il clan, capeggiato da Paolo di Lauro, e i cosiddetti “scissionisti” di Raffaele Amato.
Le vittime sono per lo più camorristi, ma non mancano gli innocenti coinvolti per errore o per ottenere informazioni sui nascondigli dei bersagli prestabiliti. 2004 e 2005 sono gli anni che portano il nome di Scampia alla ribalta: la faida è seguita dalla stampa di tutto il mondo e ripresa poi in Gomorra, libro di Roberto Saviano uscito nel 2006 e subito diventato bestseller internazionale. È in questi anni che l’immagine di Scampia viene a legarsi indissolubilmente alla faida, è ora che nasce l’immaginario delle Vele “roccaforti della camorra”, ambientazione del film e della serie Gomorra.
“Saviano ha un grande merito” – Mirella è chiara e non vuole essere fraintesa – “che è quello di aver infranto il tabù della camorra, e di averne parlato con un’ampia prospettiva, mettendo in mostra le sue mille ramificazioni. Il problema nasce quando la denuncia passa dalla carta alla televisione. Le immagini vanno a semplificare e schiacciare i temi, ne danno una narrazione fuorviante. Penetrano nella testa e si legano per sempre ad un territorio, che poi è condannato.
Qui si crea il cosiddetto “effetto pigmalione”: la realtà si adatterà all’immagine che ne abbiamo. Se un bambino cresce con l’idea che il quartiere sia l’inferno e che non esista nessun possibile opportunità per il futuro, come potrà mai fuggire da quello che vede come il suo unico destino? Nessuno vuole negare il passato difficile del quartiere. Quello che chiediamo è che la narrazione che ne viene fatta tenga conto delle trasformazioni positive degli ultimi anni”.
Interventi di riqualificazione edilizia
Nell’85 arrivano in quartiere la sede della Circoscrizione, a cui fanno seguito scuole e, nell’87, una stazione di polizia. “Le istituzioni in realtà non hanno mai contato molto qui, come la politica” dice Gennaro Sanges, ex sindacalista della CGIL oggi in pensione, residente nel quartiere da quando questo è nato. “Sono arrivate tardi e hanno poi dovuto lottare a lungo per riprendersi gli spazi che spettano loro. Tutto ciò che si è realizzato a Scampia è partito dal basso, dai movimenti e dalle associazioni del quartiere”.
Movimenti come il Comitato Vele, organizzato da abitanti delle Vele che lottano per rendere il quartiere un posto più vivibile.
Il Comitato ha scritto il progetto che è poi stato alla base del primo intervento di riqualificazione edilizia, del ’95. In collaborazione con la giunta De Magistris e il dipartimento di urbanistica dell’università “Federico II” di Napoli, ha recentemente scritto anche il secondo piano di riqualificazione, presentato a Roma il 4 marzo del 2015 di fronte all’allora Ministro per le Infrastrutture e Trasporti Maurizio Lupi.
“La situazione pare essersi sbloccata” mi dice al telefono Lorenzo Liparulo, dal 2001 residente nelle Vele e guida del comitato “ma sembrava lo stesso quando nel ’95 venne approvato il nostro progetto di allora, che prevedeva l’abbattimento di tutte le Vele.
Ne vennero abbattute solo tre, perché qualcuno si intascò i fondi destinati all’abbattimento delle altre, e ad oggi non hanno ancora finito di consegnare i mille appartamenti. Secondo il progetto attuale, delle quattro vele rimanenti tre saranno abbattute e al loro posto verranno costruiti palazzi più bassi e più vivibili per un totale di 350 appartamenti.
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La Vela Celeste sarà invece riqualificata e adattata ad uffici: qui dovrebbe essere spostata la sede della Città Metropolitana di Napoli, portando posti di lavoro sul quartiere. Le nostre battaglie non termineranno finché questi mostri non saranno abbattuti e i nostri diritti fatti rispettare”.
L’altro progetto architettonico importante è il cantiere per la costruzione della nuova sede della facoltà di medicina della “Federico II”, ottenuto dopo lotte e proteste della società civile capeggiata dai parroci del quartiere guidata da padre Vittorio Siciliani. “Il quartiere è stato aperto nel 2008, e ad oggi non è ancora concluso” mi spiega Gennaro. “I fondi stanziati hanno raggiunto i 31 milioni, ma i lavori si sono di nuovo arrestati lo scorso mese. La regione non ha stanziato gli ultimi 3 milioni, che sul totale sono una piccola percentuale. Per noi questo significa attendere almeno altri due anni prima dell’inaugurazione della sede e dei promessi posti di lavoro”. La costruzione avrebbe dovuto terminare nel 2014.
Gli interventi statali su Scampia sono sempre stati interventi edilizi imponenti: grandi strutture all’avanguardia, che hanno tentato di far voltare pagina al quartiere.
Franco Maiello ha scritto il libro Passaggio per Scampia sull’urbanistica di Scampia. “Ho visto nascere Scampia come progetto, presentata dall’architetto Arrigo Marsiglia su un tavolo di Palazzo Donn’Anna e l’ho vista poi venire edificata.
L’organizzazione del quartiere è deleteria. La maggior parte degli edifici è costruita su palafitte: i piani inferiori, di solito utilizzati per esercizi commerciali, sono aperti e quindi inutilizzabili. Le strade sono troppo larghe, è pericoloso attraversarle: si potrebbero rendere più strette ricavando spazi per bar, ristoranti e negozi.
Quando stavano progettando quella che oggi è piazza Giovanni Paolo II, andammo in delegazione per portare quelle che erano le nostre idee e i nostri progetti. Chiedemmo la realizzazione di piccoli locali per far nascere bar e botteghe ai margini della piazza, al posto di quel porticato immenso che si può vedere oggi. Hanno realizzato la piazza per i grandi eventi, quando a Scampia mancano i luoghi per la vita di tutti i giorni, e di fatto la piazza oggi è sempre deserta. La storia di Scampia è legata anche a come è stato pensato e realizzato il quartiere: senza un progetto ben pensato di riqualificazione il cambiamento rimane difficile”.
La rinascita del quartiere
Gli abitanti sono gli unici che hanno fatto fronte all’abbandono del quartiere. I primi gruppi di volontariato nascono all’inizio degli anni ’80. Ad oggi si contano più di 120 realtà fra associazioni e cooperative. Si battono su diversi fronti: la riqualificazione edilizia, l’educazione dei giovani, l’integrazione degli abitanti del campo rom, la rinascita economica del quartiere.
Le loro battaglie sono spesso culturali, oltre che politiche: la rinascita del quartiere coinvolge entrambi gli aspetti. È il caso del Gridas (Gruppo di Risveglio dal Sonno, quello della ragione di Francisco Goya). È il primo gruppo che nasce sul quartiere.
La sua storia si intreccia con quella di Scampia. I murales di denuncia sociale di Felice Pignataro, marito di Mirella e insieme a lei anima fondatrice del Gridas, segnano i muri. Sono stati creati insieme ai bambini delle diverse scuole di quartiere, con cui Felice collaborava. Dall’83 il Gridas organizza un carnevale sociale. Negli anni sono riusciti a creare una tradizione sentita e partecipata, il carnevale più importante di Napoli, in un quartiere nato senza storia. Attira gruppi e singoli da tutta Italia, ed ogni anno il numero di partecipanti cresce. Come il Gridas ci sono molti altri gruppi che spaziano da doposcuola a centri di formazione, come il Centro Mammut, che fa ricerca in ambito formativo sul territorio.
“Dopo la seconda faida del 2011, molto meno sanguinosa della prima, la presenza criminale s’è fatta sentire sempre meno” dice Gennaro Sanges. “I clan sono spostati altrove anche grazie allo sforzo congiunto di esercito e polizia che dal 2010 hanno aumentato la presenza sul territorio. Le associazioni di cittadini si stanno riappropriando degli spazi, creando nuove forme di convivialità e di socialità. Ciò che servirebbe adesso è la creazione di nuovi posti di lavoro”.
Con il tempo Scampia è diventata un enorme laboratorio sociale. Sono molte le sperimentazioni nel terzo settore che sono state avviate negli ultimi anni. Oltre alle associazioni, numerose cooperative sono nate sul territorio, con l’obiettivo di creare economie alternative per far fronte al problema cronico della mancanza di lavoro.
Ad esempio la cooperativa “La Roccia”, che opera nel centro Hurtado, fondato dai gesuiti nel 2004. La cooperativa gestisce una sartoria, un laboratorio di rilegatura libri e una scuola d’Istruzione e Formazione Professionale (per recuperare gli studenti non frequentanti la scuola dell’obbligo). “Per ora abbiamo forti debiti” spiega padre Sergio Sala “e stiamo in piedi grazie alle donazioni di amici e simpatizzanti. Il nostro obiettivo è quello di riuscire a renderci indipendenti e mantenere i nostri 12 dipendenti, continuando i progetti di educazione dei più giovani”.
A pochi metri dal centro Hurtado si trova Chikù. È un ristorante multietnico, gestito dall’impresa sociale “La Kumpagnia” insieme all’associazione “Chi rom… e chi no”. Emma Ferulano, fondatrice e ad oggi membro attivo del ristorante, mi spiega le particolarità di Chikù.
L’associazione e l’impresa sono due vasi comunicanti, che si sostengono e si animano a vicenda.
“Dal 2002 con l’associazione “Chi rom… e chi no” (rom in dialetto napoletano significa dormire) ci siamo battuti per creare relazioni tra la comunità rom e italiana del quartiere. Nel 2013 abbiamo deciso di provare a crescere: abbiamo voluto creare “La Kumpagnia”, con l’obiettivo di continuare i progetti sociali, ma allo stesso tempo riuscire a darci un’indipendenza economica.
Ad oggi siamo in 10 tra italiani e rom a lavorare nel ristorante, che in realtà rimane uno spazio dove si organizzano corsi di teatro, feste di quartiere, attività educative. Tra la cucina e i laboratori per bambini si intrecciano la cultura balcanica e napoletana. Chikù è ancora oggi un luogo dove si fa politica dal basso: è complicato fare convivere il sociale e una sostenibilità economica, ma è questo aspetto che ci caratterizza e che non potrà mai venire meno”.
La cooperativa r(E)sistenza è un’altra importante presenza sul quartiere. La sua principale attività si basa sulla gestione di un campo confiscato alla camorra nel quartiere confinante di Chiaiano, dove coltiva viti per la produzione di vino e peschi per la produzione di marmellate. In collaborazione con altre realtà locali ha inoltre recuperato quella che oggi è l’Officina delle Culture “Gelsomina Verde”. Ex istituto tecnico del quartiere, la struttura venne abbandonata durante gli anni della faida e fu utilizzata dalla camorra come deposito d’armi e luogo per lo spaccio. Ristrutturata, è oggi sede di una biblioteca, di associazioni e di cooperative che hanno creato una quindicina di posti di lavoro.
Queste cooperative sono in rete fra di loro, e contribuiscono a creare una nuvola di piccole economie che danno respiro al quartiere. Molte fondazioni da sud a nord stanno finanziando il lavoro di questi gruppi, riconoscendo il valore sociale e l’innovatività dei loro lavori, essenziali per la rinascita del quartiere.
“Le azioni di questi gruppi sono dei bei segnali” conclude Gennaro “ma se confronti la loro dimensione con quella del quartiere la situazione rimane critica.
La disoccupazione è un problema cronico, e la maggior parte degli abitanti vive ancora di lavoro in nero. Con l’università e gli uffici della Città Municipale la situazione potrebbe migliorare, ma io sono convinto che qui ci sia il bisogno di attività produttive, non solo legate alla fornitura di servizi. Il cambiamento deve partire dal basso, e qui lo ha fatto, ma ora serve l’intervento delle istituzioni per supportare le realtà che esistono e implementare il loro lavoro”.
Scampia è un quartiere pieno di contraddizioni. È il quartiere più verde d’Italia, nonostante sia famoso per le sue strutture in cemento armato. È il quartiere più giovane d’Europa, anche se la disoccupazione giovanile si aggira attorno al 60%. Non è più una piazza di spaccio a cielo aperto in mano alla camorra. È un quartiere dove convivono fortissimi disagi e una altrettanto forte spinta al cambiamento, già in atto. Del quartiere che Saviano attraversava con la sua vespa negli anni di Gomorra non rimane molto, se non le Vele, e fra non molto nemmeno quelle.
Photogallery:
- Piazza Giovanni Paolo II di notte
- Venditori abusivi sulla strada
- Festa della murga Banda Baleno di Scampia nello spazio di Chikù. La murga è un’arte di strada argentina portata in Italia dopo il ritorno degli emigrati italiani dal Sudamerica
- Il baracchino di un venditore abusivo, l’unico posto dove ci si può procurare un paio di birre la sera
- Mirella a casa sua, Scampia
- Il cantiere della sede della Federico II a Scampia
- Gennaro Sanges al Centro Hurtado