Un viaggio in Italia, per raccogliere storie di donne e uomini che tentano di sopravvivere nella morsa del sesso in cambio di lavoro
A metà ottobre del 2017, dopo le dichiarazioni dell’attrice Alyssa Milano, inizia la campagna #MeToo. Un’iniziativa culturale per uscire dal silenzio delle molestie sessuali nel sistema dello star system cinematografico.
Ma la logica del sesso in cambio di lavoro, la grammatica del potere rispetto allo sfruttamento, riguarda solo quel mondo? Riguarda solo le donne? E oltre la possibilità che hanno personaggi ricchi e famosi di accusare e di difendersi, quali sono gli equilibri nel mondo sommerso dei ‘senza diritti’?
Badanti, braccianti, migranti, operai e molti altri, uomini e donne, in una posizione di estrema debolezza – senza documenti, senza disponibilità economiche – sono estremamente fragili rispetto al ricatto del lavoro. Anche quando il prezzo è la violenza sessuale.
Questo progetto nasce da questa domanda. Un viaggio in Italia, per raccogliere storie di donne e uomini che tentano di sopravvivere lavorando in condizioni spesso molto dure, accettando e subendo violazioni della propria dignità a causa di un contesto che non li difende e non li tutela e li rende invisibili.
Questa è la prima storia, dalla quale è iniziato il nostro viaggio che non sappiamo dove arriverà. Segnalateci storie e realtà che si battono contro tutto questo alla mail sottoricatto@gmail.com
di Martina Di Pirro* e Christian Elia**
Quando era in viaggio in uno di quei grossi ilos, camion utilizzati per la tratta di essere umani, pensati per contenere il più alto numero possibile di persone, che attraversavano la Nigeria per arrivare in Libia, P. si sentiva soffocare.
Aveva ancora negli occhi la paura di quella malattia che si era portata via suo padre, e l’idea di quel viaggio le sembrava senza dubbio la cosa migliore da fare. Una famiglia senza soldi, senza possibilità di farla studiare, nessuna prospettiva di lavoro, un Paese in guerra, non solo contro i miliziani jihadisti di Boko Haram, ma anche contro i rancori settari e la lotta contro le multinazionali del petrolio.
“Non volevo venire in Italia. – sussurra P. – Però un’altra donna mi disse che in Italia c’era lavoro. Mi disse che in Italia avrei potuto studiare. Mi disse che, in Italia, avrei potuto essere tutto quello che avrei voluto, mi sarei potuta creare un futuro, senza paura, senza malattie, con un lavoro. Un lavoro.”
Il caldo, il sudore, la pelle di uomini e donne accatastate per mancanza di spazio, le parevano un buon compromesso. Era stata la sua vicina di casa a suggerirle quella soluzione. Dopo lunghe chiacchierate e confidenze, P. aveva deciso di fidarsi di lei e di seguire il consiglio di lasciare la Nigeria.
“Mi disse che sarebbe stato facile, che non dovevo avere paura. – racconta P. ad occhi bassi, voce timida, seduta su un divano del centro accoglienza Train de Vie, a Pescara – Mi disse che aveva una persona in Italia che mi avrebbe accolto. Una donna nigeriana di nome J. che viveva a Napoli e mi avrebbe fatto studiare. La chiamava Madame. Io volevo studiare, sai. Volevo studiare.”
P. è nata a Ado Ekiti, villaggio della Nigeria meridionale, e per arrivare in Libia ha dovuto cambiare molti mezzi di trasporto e passare confini di cui non aveva mai neanche immaginato l’esistenza.
Il paesaggio però, con i suoi duri cieli azzurri e l’aria limpida e secca, gli orizzonti paurosamente estesi, lo conosceva bene. Lo intravedeva ogni tanto dalle piccole fessure del camion e, nei momenti di solitudine, era la sabbia a costringerla a ricordarsi il giuramento che aveva fatto pochi giorni prima. Era infatti il rito juju a legarla per sempre alla sua Madame.
“Eravamo obbligate a fare quel rito, tutte noi che decidevamo di partire. – continua P., questa volta con più confidenza e un italiano quasi perfetto – Mi portarono da uno stregone e mi fecero giurare di restituire il costo del mio trasporto in Italia offrendo la mia anima come garanzia. Tradire il giuramento mi avrebbe fatto perdere la ragione o, peggio, perdere la mia vita o quella della mia famiglia. Io credevo nel giuramento, è la nostra cultura. Credevo che se fossi scappata o se avessi chiamato la polizia, sarei diventata matta o mi avrebbero uccisa. Mi fecero mangiare il kola nut, una radice dal sapore aspro e sgradevole, per suggellare il patto, ma ad altre presero pezzi di unghie o peli pubici. Era un modo per dirci che avevano una parte di noi, del nostro corpo nelle loro mani. Dissero che mi avrebbero pagato il viaggio e che sarei stata legata alla madame finché non si sarebbe estinto il debito. Non avevo consapevolezza di quanto fosse la quantità di denaro che avrei dovuto restituire. Pensavo di farcela in pochi mesi di lavoro.”
Ed invece, la quantità di denaro da restituire era un debito che poteva variare dai 30mila ai 50mila euro. Ma questo P. l’avrebbe scoperto solo dopo, molto dopo.
L’arrivo in Libia era stato il primo contatto con una realtà differente da quella che immaginava.
L’uomo che l’aveva scortata fino a lì, il boga, una delle figure chiave della tratta, una sorta di emissario che aveva preso in carico P. insieme ad altre ragazze, dando un numero di telefono da chiamare una volta arrivate nel centro, le aveva abbandonate in un posto che chiamava ghetto.
“I ghetti sono delle enormi abitazioni abbandonate dove si rimane anche per mesi, o anni. Dipende dal caso, da quando scelgono che potrai partire. – racconta P., mentre si tocca i capelli pensierosa – Io ci sono rimasta quattro mesi. Ogni giorno mi picchiavano, non facevo niente e mi picchiavano ancora. Alcune di noi dovevano fare sesso con gli uomini, senza alcuna protezione, ed io le vedevo. Non ero consapevole che in questo periodo di permanenza in Libia avrei vissuto questo. Quelle che di noi non potevano pagarsi il viaggio, finivano nelle connection houses, delle vere e proprie case chiuse, dove si prostituivano fino a che non erano in grado di raggiungere la somma richiesta.”
Secondo l’ultimo rapporto della Direzione Investigativa Antimafia, che si riferisce al primo semestre 2017, “i gruppi criminali nigeriani e del centro Africa continuano a distinguersi per le modalità particolarmente aggressive con le quali realizzano i traffici di stupefacenti e la tratta degli esseri umani, finalizzata alla prostituzione. Come già evidenziato nei semestri precedenti, in Italia opera il sodalizio nigeriano denominato black axe, una consorteria a struttura mafiosa ben radicata anche in altri contesti, il cui vincolo associativo viene, tra l’altro, esaltato da una forte componente mistico-religiosa. Il radicamento in Italia della criminalità nigeriana è emerso nel corso di diverse inchieste, che hanno evidenziato la natura mafiosa della consorteria, peraltro confermata da sentenze di condanna passate in giudicato. Il gruppo criminale in parola si sarebbe insediato principalmente a Torino, Novara, Alessandria, Verona, Bologna, Roma, Napoli e Palermo. […] Altrettanto articolate e connotate da particolare violenza, sono risultate le modalità con le quali viene gestita la tratta di persone e la prostituzione. Emblematica dell’azione di contrasto al fenomeno è risultata l’operazione Broken Chains, conclusa nel mese di gennaio dalla Polizia di Stato con l’arresto di sei nigeriani, facenti parte di un’organizzazione con sede operativa a Padova, ma attiva anche in Sicilia, che gestiva una tratta di connazionali, comprese minorenni da avviare alla prostituzione. Il gruppo criminale fungeva da ‘terminale’, per l’Italia e il Nord Europa, di un’organizzazione internazionale che sfruttava la Libia come ‘zona di stoccaggio’, da dove le giovani donne, trattate come merce di scambio e spesso vittime anche di violenze, venivano fatte partire previo pagamento di una somma di denaro”.
Una notte, un uomo la svegliò a calci per dirle che il tempo era arrivato. Un linguaggio diverso per sottintendere che il mare era calmo e si poteva viaggiare con i gommoni, alla volta di Trapani, in Sicilia.
P. era una ragazza esile, di appena diciotto anni, stanca e affamata, le sembianze di una bambina e ancora in tasca la povertà da cui fuggiva.
Si dimenticò immediatamente della paura, prese il numero di telefono della Madame italiana, e, durante i tre giorni di viaggio, anche di fronte alle violenze e alla gola arsa dalla sete, non smise mai di pensare allo studio, alla possibilità di imparare una nuova lingua, di lavorare, di rifarsi una vita. Era la promessa a mantenerla salda. Era la promessa di una vita diversa a non farla cedere nemmeno di un millimetro.
“Una volta in Italia, insieme ad altre due ragazze con cui avevo fatto il viaggio, abbiamo contattato la madame. Non ci venne nemmeno in mente di chiamare a casa, di dire che stavamo bene. Sapevamo che era la madame la nostra unica speranza, l’unico obiettivo da raggiungere. Allora le spiegammo dove eravamo. Ci disse che sarebbe arrivato un uomo a prelevarci e così fu. Arrivò di sera, verso le otto, noi ci allontanammo dal centro accoglienza e andammo via con lui. Prendemmo un treno verso Roma, ci fermammo a casa di un altro uomo per quasi due settimane, senza fare niente. Due settimane chiuse in una stanza. Poi vennero di nuovo a prelevarci e andammo a Napoli. La madame abitava lì, in una casa dove vivano anche il marito, la figlia e altre ragazze nigeriane.”
Da quel momento, la situazione fu chiara. Dopo molti giorni chiuse in una stanza, P. e le sue compagne vennero portate in una strada periferica di Napoli.
Consegnarono a tutte dei pacchi pieni di vestiti adatti, preservativi ed istruzioni precise.
Persino i posti erano assegnati. Le dissero: questo è il tuo lavoro.
Avevano paura, le ragazze. Paura della mancanza di documenti, paura delle conseguenze del rito juju, paura per le loro famiglie.
E solo allora conobbero l’entità del debito che avevano contratto. Un debito che costrinse P. a lavorare dodici ore al giorno, dalle 9:00 alle 20:00 e dalle 24:00 alle 06:00 di mattina, senza pausa. Riusciva a stare in piedi a causa di un mix di droga, alcool e qualcos’altro che le forniva la madame.
“Non era questa la vita che volevo, non era questo quello che mi aspettavo. Non il ricatto, non la vendita del mio corpo, ma solo un lavoro.”
P. è una delle poche ragazze che è riuscita a scappare. Grazie ad un contatto a Benevento, un ragazzo nigeriano che aveva affrontato il viaggio con lei e finito poi in uno SPRAR, e a una buona dose di coraggio, ha denunciato, mettendosi in salvo dopo l’inferno della nuova schiavitù.
Oggi P. è ospite di una struttura di accoglienza protetta dell’Associazione On the Road Onlus, dove sta proseguendo il programma di emersione, assistenza e integrazione sociale previsto dall’art. 18 comma 3 bis del dlgs 286/98 per le vittime di tratta.
Tale programma garantisce oggi a P. di fruire presso l’associazione di vitto e alloggio, assistenza sanitaria e psicologica, sostegno relazionale, supporto alla denuncia, assistenza legale e regolarizzazione, socializzazione alla cultura ospitante, attività educative e formative, corsi di apprendimento della lingua italiana, laboratori di creazione/produzione, orientamento al mondo del lavoro e avvio di percorsi di inserimento socio-occupazionale.
“Alla fine del percorso con noi, affiancate dall’assistenza legale e psicologica, nel tentativo di integrarle nella società, – racconta Roberta Spallone, psicologa della struttura – riusciamo nella maggior parte dei casi ad aiutarle a trovare un lavoro”.
Il centro Train De Vie è in via Enzo Ferrari, dietro la stazione centrale di Pescara, e di notte gira per lasciare alle ragazze in strada dei biglietti informativi, sperando di infondere lo stesso coraggio di P., che nel frattempo è una delle allieve più brave della classe di italiano e non ha smesso di sperare in un futuro migliore.
In via Enzo Ferrari altre ragazze nigeriane accompagnano il tragitto. Sono ai lati della strada, sorridono. Dodici ore al giorno, ogni giorno, con qualche anfetamina per tirare avanti.
Per ripagare un debito di cui non sono consapevoli e che, con tutta probabilità, non estingueranno mai. Un ricatto di cui si sentono vittime e complici allo stesso tempo, vittime di di una mercificazione del loro corpo, tra trafficanti nigeriani e clienti italianissimi.
PER SEGNALAZIONI: sottoricatto@gmail.com
*Martina Di Pirro. Laureata in Giurisprudenza, specializzata in Ordine Internazionale e Protezione Internazionale dei Diritti umani, ha lavorato presso il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale nell’ufficio Crisi ed Emergenze umanitarie. É attivista volontaria di Libera Contro Le Mafie dal 2012 e collaboratrice dell’ufficio comunicazione della Rete dei Numeri Pari. Ha pubblicato per il Manifesto, Brecha – Semanario (Uruguay) e Comune – info.
**Christian Elia. Condirettore di Q Code. Ha raccontato più di 40 paesi per più di 20 testate, per anni con PeaceReporter ed E il mensile. Si occupa di Mediterraneo, Medio Oriente e Balcani. E’ autore di libri, teatro, documentari e radio.