Il prigioniero coreano

Un naufrago tra due mondi e due propagande

di Irene Merli

Il PRIGIONIERO COREANO, di Kim Ki-duk, con Ryoo Seung -bum, Lee Won-gun, Kim Young-min, Choi Guy-hwa. Nelle sale.

Kim Ki-duk è tornato. A cinque anni dall’ultimo film, il grande autore di La Samaritana e di Ferro 3 firma un’opera forte, dolorosa e radicalmente politica, un grido al mondo che la Corea è divisa in due dal 38esimo parallelo non solo da quando The Donald e Il Grande Leader si sono messi a litigare, ma da 70 lunghi anni di violenta e perdurante lacerazione di un unico popolo.

E lo fa raccontando la storia di un uomo semplice, Nam Chul-wo, un piccolo pescatore che abita proprio al confine maledetto.

Una mattina presto, in mezzo alla foschia, Nam sale sulla sua piccola barca per andare come sempre a guadagnare il pane per la famiglia. Ma quel giorno, lo avverte la guardia nel gabbiotto, la corrente va verso Sud, l’odiato Sud capitalista.

E manco a dirlo, la sua rete s’impiglia nell’elica, il motore va in avaria e la barca viene lentamente trascinata nelle acque territoriali nemiche.

Risultato? Lo sfortunato pescatore si sveglierà dall’altra parte del mondo, in un bianco seminterrato dove i servizi segreti sudcoreani lo tortureranno per cercare prima di fargli confessare che è una spia, e poi di forzarlo a “disertare”.

Percosso, offeso in ogni modo, il pover’uomo è infine lasciato in una strada del centro di Seul per “tentarlo” con vetrine, luci, donne del mondo democratico. Ma lui non cede: vuole tornare dalla sua famiglia, solo questo conta ai suoi occhi chiusi a ogni seduzione.

E quando tutto sembra andare per il meglio, perché per questioni di diplomazia tra i due Stati, Nam riesce a farsi scortare aldilà del 38esimo parallelo, il ritorno alla povera casupola non è affatto come lo avrebbe immaginato.

Una volta spenti i riflettori della televisione di regime che l’hanno accolto come un eroe nazionale, il pescatore dannato dalla sorte finirà in un tunnel speculare di irragionevole e umiliante violenza.

Solo che a fargliela subire saranno i corrotti funzionari del regime di Kim Jong. Un incubo, tanto quanto l’involontaria “fuga” al Sud, dove a cambiare sono solo gli interni – al Sud locali tirati a lucido, tecnologici, con rifiniture minimal, al Nord un sotterraneo scrostato con vecchi manifesti di propaganda – e le assurde accuse.

Quando Nam,invece, ha avuto una sola “colpa”: non ha abbandonato la barca al suo destino tornando indietro a nuoto, quella maledetta mattina, perché era il suo solo mezzo di sostentamento e ci aveva messo dieci anni a comprarla…

Il prigioniero coreano mostra nella carne e nel sangue di una persona comune cosa vuol dire vivere in una nazione divisa in due, costruendo un thriller dell’anima che lascia in sospeso fino all’ultimo sulle sorti del povero pescatore dilaniato dal lungo conflitto storico.

Con Il prigioniero coreano ho voluto dimostrare un paradosso, ha spiegato in un’intervista Kim Ki-duk. Guardate come sono simili Nord e Sud.

La c’è la dittatura, qui la violenza ideologica. E non si tollera che un povero pescatore del Nord, finito per caso fuor d’acqua, voglia ritornarsene a casa. Ma non si può demonizzare un intero popolo. La Corea del Nord non è solo la dinastia dei Kim: la gente viene prima. È il suo popolo, il nostro popolo”.

Il film del maestro che si definisce solo e semplicemente coreano, è quindi un’amara parabola di espropriazione di una vita che ci farà uscire dal cinema addolorati, ma più convinti che mai che a contare davvero sono le storie, non la Storia. Gli individui, le persone come Nam.