La poesia di Mahmud Darwish, tra politica, esilio e geopoetica
di Christian Elia
illustrazione di copertina di ©Vito Savino
Esistono silenzi che non possono tacere, esistono spazi che non si svuotano mai fino in fondo, riempiti delle parole e dei versi delle voci necessarie.
E’ questo il caso di Mahmud Darwish, voce di tutti gli esili, partendo da quello suo e del suo popolo, ma capace di fare della Palestina la metafora globale della resistenza culturale degli oppressi.
Grazie a Silvia Moresi, arabista a traduttrice, che ha regalato a Q Code Mag l’Atlante Letterario Arabo e aveva già tradotto un testo fondamentale di Nizar Qabbani, arriva in libreria Undici Pianeti, edito da Jouvence, per la collana Barzakh, diretta da Jolanda Guardi.
Approcciare Darwish è come visitare uno spazio, allo stesso tempo materiale e onirico, orientandosi tra metafora e politica.
Ciascuno può seguire il sentiero che lo mette più a suo agio, tra il grande poeta, la voce critica palestinese, il Darwish politico e quello artistico.
Le traduzioni di Silvia Moresi, per chi scrive, sono un viaggio nella visione di Darwish, quella globale, capace di sentire il dolore dei violati, degli occupati, dei cancellati, come un unico flusso di anime resistenti.
E allora tra un indiano d’America e la guerra del Golfo in Iraq nel 1991, tra la cacciata degli arabi dall’Andalusia nel 1492 e il tradimento degli Accordi di Oslo degli inizi degli anni Novanta, c’è un legame, un filo rosso.
Un filo rosso che Darwish arrotola con il fuso della poesia e dell’umanità, ma senza mai perdere l’ordito politico, che si srotola tra due poli chiave: la narrazione e la memoria.
Altri diranno del Darwish poeta, ma è potente il segno che il grande intellettuale lascia sul libro delle vite, quelle violate, quelle rimosse. Perché un’occupazione è un incendio, che divide e brucia la casa che un tempo è stata comune.
Manca a chi scrive la competenza per valutare la traduzione di Silvia Moresi dal punto di vista linguistico, ma è ben descritta nell’ottima postfazione la sua capacità di scegliere quale Darwish tradurre, come farlo, come entrare in sintonia con quegli anni Novanta del grande inganno.
Di muri che cadevano solo per lasciare posto a mura sempre più alte, di occupazioni e di accordi di pace che, senza giustizia, si preparavano ad annunciare solo nuove guerre.
Il 1492 come il 1992, se – come Darwish – ascolti il cuore della storia come un lamento corale di vite spezzate, dove l’unisono della violenza subita è tale da unire in un’unica nostalgia gli arabi e gli ebrei scacciati dall’Andalusia.
I poeti non devono dare soluzioni, ma emozioni. Quelle di Darwish hanno un sentire globale che, almeno in una delle mille possibili letture, diventano politica, sguardo e denuncia. E grazie a Silvia Moresi per averle tradotte, scelte e raccolte, mettendole a disposizione di tutti coloro che non vogliono restare indifferenti.