di Antonio Marafioti
Il prossimo 25 maggio l’Irlanda sarà chiamata a pronunciarsi sulla legalizzazione dell’interruzione della gravidanza. Sono 3,2 milioni gli irlandesi che parteciperanno a quello che si annuncia uno dei referendum più importanti degli ultimi anni: quello per l’abolizione dell’ottavo emendamento della Costituzione. Il quesito che gli aventi diritto al voto si troveranno davanti è semplice: “Intende abolire l’ottavo emendamento?”. La norma, introdotta sempre tramite referendum nel 1983, protegge il “diritto alla vita del nascituro” e lo parifica, di fatto, a quello della madre.
Detto altrimenti, l’ottavo emendamento vieta ogni possibilità di abortire in Irlanda.
Nel corso degli anni, e in seguito ai casi di Miss X, Savita e Miss Y, la normativa è stata leggermente alleggerita con due ulteriori emendamenti costituzionali che ammisero la possibilità di viaggiare all’estero anche in stato di gravidanza (prima vietato) e ottenere informazioni sulle pratiche abortive in Paesi esteri. Nel 2013 fu inoltre introdotto il “Protection of Life During Pregnancy Act”, una legge che permette l’aborto nei casi in cui la vita della madre è a rischio, compreso il rischio di suicidio. In tutti gli altri casi in Irlanda interrompere la gravidanza, diritto che in Italia è garantito dalla legge 194 del 1978, è considerato un reato punibile con sanzioni che arrivano fino ai 14 anni di carcere. La campagna per il “sì” all’abolizione è guidata dalla coalizione “Together for Yes” della quale fa parte anche il gruppo Merj (Migrant and ethnic minorities for reproductive justice) composto da donne migranti residenti in Irlanda, o da donne irlandesi che sono parte di minoranze etniche, come le donne Travellers. Abbiamo intervistato una delle italiane dentro Merj, Paola Rivetti, ricercatrice e docente presso la Dublin City University.
Partiamo da un’ipotesi. Una donna vuole interrompere la gravidanza in Irlanda. Che cosa deve fare?
Lasciare l’Irlanda per un altro Paese ed eseguire l’intervento all’estero. Di solito le donne irlandesi che possono permetterselo prendono un aereo o una nave e si recano nel punto più vicino che è Liverpool in Gran Bretagna.Altrimenti, ottenere illegalmente la pillola abortiva, se non si può viaggiare per problemi di visto o economici.
Pare che ogni anno siano circa 3500 le donne irlandesi costrette a vivere quest’esperienza.
Questo dato è una stima delle donne irlandesi che vanno in Gran Bretagna e, di fatto, conta solamente le donne che nelle cliniche e negli ospedali britannici forniscono un indirizzo irlandese. Ma non tutte le donne irlandesi che vanno in Gran Bretagna per abortire danno il loro vero indirizzo: alcune si limitano a comunicare quello del luogo dove decidono di trascorrere i primi giorni di convalescenza dopo l’intervento. Questo può essere un albergo, la casa di un amico o una struttura ricettiva all’interno del Regno Unito. Per cui quel dato tende a sottostimare la reale portata del fenomeno. Ci sono poi tante donne che non vanno in Gran Bretagna, ma si recano in altri Paesi che non comunicano dati, quindi quel numero è incompleto. C’è un gruppo su Facebook che si chiama “In her shoes” (nelle sue scarpe) che raccoglie storie di donne irlandesi e migranti che hanno abortito.
Una legislazione che vieta l’aborto, impedisce di certo anche l’acquisto delle pillole abortive.
Acquistarle comporta potenziali 14 anni di condanna, ma è possibile averle tramite internet.
Come?
C’è un’organizzazione che lo fa. Si chiama “Need abortion Ireland” che è stata fondata per questo motivo. Si può avere accesso in modo sicuro alla pillola abortiva tramite loro. Il problema è che se dovesse accadere qualcosa a chi l’assume sarebbe rischioso recarsi in un ospedale per farsi curare.
Quindi Need abortion è un gruppo clandestino?
Lo è nella misura in cui fa una cosa illegale, ma al contempo risolve un sacco di problemi. Hanno un sito internet molto semplice con un numero di telefono che si può contattare in caso di bisogno. Da lì scatta il loro intervento.
La loro funzione comporta dunque che siano semplicemente tollerati.
Esattamente.
Com’è formata la coalizione “Together for yes”?
È una coalizione nazionale che è stata lanciata due mesi fa che si compone di una ventina di realtà, alcune delle quali esistono da decenni, come ad esempio il Consiglio nazionale delle donne irlandesi e l’Associazione per il planning familiare. Accanto a loro sono schierati gruppi più giovani che si sono formati per sostenere le ragioni del “sì”. La coalizione si è modellata sull’esempio vincente della coalizione del “sì” per il referendum sul matrimonio gay. Oggi si tenta di replicare il modello cercando di avere una narrativa condivisa a partire dalla parola chiave “Yes” (il voto utile per abrogare l’ottavo emendamento). Anche a livello di strategia si è chiesto alle celebrità irlandesi di appoggiare la campagna.
Chi si è mosso con voi?
La campagna è gigante: ci sono dentro personalità internazionali come Bono degli U2 che ha annunciato il suo “sì”, così come l’attrice Saoirse Ronan. E poi ci sono personaggi poco noti all’estero ma molto popolari a livello nazionale come campioni di rugby o altri sport.
Chi fa pare del vostro gruppo, il Merj?
Il Merj è formato da donne non irlandesi che erano già attive in quello che è uno dei gruppi maggiori della coalizione “Toghether for yes”, ovvero il gruppo Arc (Abortion right campaign). Abbiamo tutte un backround migrante e, quindi, il bisogno di avere uno spazio che articoli in maniera distinta quelle che sono le implicazioni dell’ottavo emendamento costituzionale per le donne migranti.
Quali sono i maggiori problemi che le migranti sono costrette ad affrontare?
L’ottavo emendamento ha un impatto maggiore su di noi per tutta una serie di motivi. Il primo è una questione di visti. Per una migrante non è facile andare in Gran Bretagna o in altri Paesi per interrompere la gravidanza. Ovviamente non mi riferisco alle cittadine europee che, come me, vivono in Irlanda, ma alle donne extracomunitarie sprovviste del multi-entry visa. Questo è un visto che costa parecchio, ma che permette di lasciare l’Irlanda o di farci rientro una volta partite. Poi ci sono le donne che vivono in “direct provision”.
Che sarebbe?
È il sistema di accoglienza per i richiedenti asilo, Il governo garantisce l’accoglienza in centri speciali che sono sparsi in vari posti del Paese e in cui si provvede direttamente a tutti i bisogni delle persone: alcuni centri sono vecchie caserme, ex ospedali, conventi.
Sembra un buon sistema.
È altamente limitante delle libertà personali e civili. Ci sono diverse campagne e gruppi attivi per l’abolizione di questo sistema. Molto spesso è difficile per gli ospiti uscire da questi centri che solitamente sono organizzati in luoghi isolati e con pochi collegamenti a disposizione. Ai migranti è spesso vietato persino di cucinare. Le persone restano anche 15 anni in questi centri, aspettando l’esito della richiesta di asilo senza poter lavorare, studiare, nemmeno cucinare. Viene loro fornito un pocket money, ovvero un budget approvato dal governo di 21 euro al mese. Per muoversi in pullman si spendono non meno di 4 o 5 euro, il che comporta che si fa fatica a compiere la maggior parte degli spostamenti, per cui una persona che ha bisogno di accedere all’aborto e si trova in questa situazione è quasi obbligata a portare a termine la gravidanza.
Come è accaduto nel 2014 nel caso di Miss Y.
Quello di Miss Y è stato solo l’ultimo caso in termini di tempo a riaprire il discorso sul diritto di interruzione della gravidanza. Prima di lei ci sono state Miss X, rimasta incinta in seguito a uno stupro nel 1992 e alla quale fu impedito di abortire; e Savita Halappanavar che dieci anni più tardi morì a causa delle complicazioni di un aborto settico alla 17ma settimana di gestazione perché i medici le negarono un intervento. Altri casi hanno attirato meno attenzione mediatica, ma sono stati altrettanto cruenti, come quello di Miss C. Il caso di miss Y dimostra come questa materia sia estremamente complicata. Lei era una richiedente asilo arrivata in Irlanda già incinta in seguito a uno stupro. Appresa la notizia della gravidanza in Irlanda, in un primo momento la donna cercò di raggiungere la Gran Bretagna e abortire, ma fu arrestata e rimandata in Irlanda dove si dichiarò a rischio suicidio. La legge del 2013 era già entrata in vigore e, per mesi, Miss Y continuò a vedere specialisti, psicologi e medici che avrebbero dovuto certificare il pericolo di un suicidio. Ma i medici ritardarono la decisione portando la donna a iniziare uno sciopero della fame. Miss Y fu nutrita a forza per evitare rischi alla salute del feto. Le è stato poi praticato un cesareo prima del termine naturale della gravidanza e il bimbo è stato dato in adozione. Miss Y vive ancora in Irlanda, ma non si sa molto altro. Questa storia atroce mostra la violenza dei confini e delle leggi sulla migrazione, violenza a cui si sommano le implicazioni dell’ottavo emendamento.
Il 7 settembre 1983 il 67% degli irlandesi votò a favore del referendum che introduceva il divieto di aborto. Secondo gli ultimi sondaggi pare che la tendenza sia invertita. Come si vive questo cambio da donna e attivista?
Io ovviamente nell’83 non ero in Irlanda, ma studiando la situazione e ascoltando i racconti di chi al tempo c’era posso immaginare un cambiamento epocale. Ci sono tanti fattori che spiegano questa inversione di tendenza. Uno importantissimo è l’anticlericalismo sorto dagli scandali di pedofilia e corruzione che hanno coinvolto diversi sacerdoti negli anni Novanta. Dall’Italia si immagina l’Irlanda come un paese legato alle radici cattoliche come se fossimo ancora negli anni Sessanta, ma è una realtà totalmente differente. Un altro fattore che gioca a favore del “sì” è proprio l’impostazione della campagna per il “no” che è portata avanti con messaggi ultraconservatori e anacronistici. Me ne sono accorta partecipando a banchetti e facendo volantinaggio porta a porta. Lì ho incontrato persone le cui uniche ragioni per mantenere il divieto sono legate a scelte religiose come la paura dell’inferno.
Quindi, sostanzialmente, chi sono quelli schierati dalla parte del no?
Ci sono delle realtà sociali e politiche come alcuni centri di ricerca che sono notoriamente conservatori come l’istituto Iona di bioetica e l’istituto di ricerca per la bioetica. Quest’ultimo è quello che nelle ultime settimane ha portato le gigantografie di feti morti in giro per le città del Paese, arrivando perfino a esporle davanti a due ospedali della capitale. Poi ci sono molti cittadini statunitensi che stanno arrivando in Irlanda per appoggiare la causa anti-abortista. La loro azione ha sollevato non poche polemiche, dal momento che la legge irlandese sulla regolamentazione dei fondi esteri per le campagne, ha dei paletti ben precisi.
Qual è la posizione della Chiesa?
Il ruolo è fondamentale, ma la posizione non è così omogenea come si potrebbe pensare. Fuori da diverse chiese di Dublino campeggiano scritte che recitano “Pray for the eighth” (preghiamo per l’ottavo emendamento), tuttavia qualche domenica fa è uscito sull’Irish Times un articolo a firma di un’associazione di preti che analizza la campagna per il “no”. Questi sacerdoti hanno dichiarato che la chiesa intende fornire tutto l’appoggio alle persone perché prendano una posizione indipendente. Poi aggiungevano che pur trattandosi di una questione etica, l’aborto è anche una questione con risvolti sociali ed economici, lasciando così intendere che si comprende la complessità degli elementi coinvolti nella scelta di abortire.
Il fronte per il no è unito?
Non come quello per il sì. Ci sono due grosse campagne: “Love both” (ama entrambi) e “Save the eighth”. La loro campagna sfrutta spesso immagini e messaggi fuorvianti, oltre che insultanti, come quello che recita “no alla licenza di uccidere”: un messaggio devastante per una persona che ha bisogno di interrompere la gravidanza.
Il governo irlandese è preparato a una possibile vittoria del sì?
L’esecutivo ha già messo a punto una bozza di legge che dovrà essere discussa e, in caso, sostituire l’attuale normativa sull’aborto nel caso di vittoria del sì.
Che cosa contiene questa bozza di legge?
In linea di massima è molto simile alla legge italiana del 1978. Introduce le 12 settimane come limite massimo per abortire; l’obiezione di coscienza per il personale medico e, infine, un periodo di attesa di sette giorni tra la visita dal ginecologo e l’operazione di interruzione della gravidanza.
L’obiezione dei medici è un problema per Paesi che praticano l’aborto da anni.
Su questo punto la coalizione è in una fase di negazione psicologica totale. Non si comprende ancora che l’obiezione possa diventare un problema, nonostante decenni di paternalismo nei servizi medici e l’antiabortismo dominante, facciano pensare proprio il contrario. Penso che il problema sarà più contenuto a Dublino, ma più molto grande nelle comunità rurali e nei villaggi.
Quanto conta l’età dei votanti nella scelta?
Lavorando in Università devo dire che la popolazione studentesca è fortemente per il sì. L’unione nazionale degli studenti si è schierata apertamente con volantinaggi in tutti i campus. C’è però una buona fetta di studenti che si sta muovendo apertamente dalla parte del “no”. Quelli che io vedo più a rischio sono le persone di mezza età. Sembra che le fasce di persone sopra i 60 siano a favore della rimozione del divieto, mentre la fascia un po’ più ostica è quella tra i 40 e i 60. Probabilmente il primo gruppo sente meno pressione sociale rispetto alla loro vera opinione.
Siamo partiti da un’ipotesi, ora chiudiamo con un’altra. Che cosa accadrà se dovesse vincere il sì?
La lotta non finirà il 25 maggio, anzi, sarà molto più dura dopo quella data. Perché la coalizione “Together for yes” finirà di esistere alle 22.01 del 25 maggio 2018 e non so quanti gruppi sopravviveranno al referendum. Ma ciò che accadrà subito dopo il voto, se il referendum dovesse passare, è che avremo una legislazione problematica, con aspetti che ci lasceranno insoddisfatte. Le cose saranno ancora più complicate per quello che riguarda la condizione delle persone migranti, perché razzismo e confini continueranno a determinare la morte delle persone o a rendere loro la vita davvero difficile.
Sembra una visione abbastanza pessimista.
Una buona parte del personale medico è convinto che le donne di colore siano più resistenti al dolore. Alcune di queste donne, provenienti dal Brasile o dall’Africa, fanno parte di Merj e raccontano le difficoltà a essere credute negli ospedali. Ricordo il caso di Bimbo Onanuga, una donna di origine nigeriana, che hanno fatto abortire in Irlanda nel 2010 perché aveva una gravidanza extrauterina. Dopo l’aborto aveva cominciato a star male e a perdere sangue. L’hanno letteralmente lasciata morire dissanguata, perché nessun medico credeva ai suoi dolori. Episodi come questo continueranno a esserci dopo il 25 maggio perché non è ancora chiaro chi della coalizione sarà presente per lavorare su questi temi. Sarà una bella sfida.