Avere paura può durare un istante, o tutta la vita. La recensione dell’ultimo romanzo di Dima Wannous.
di Costanza Pasquali Lasagni
Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo personale
Nella lingua araba si usa prevalentemente la frase nominale, rispetto a quella verbale: il participio presente del verbo che indica l’azione è usato come sostantivo, soggetto. Questa costruzione permette di indicare sia il momento stesso in cui si compie l’azione, sia l’atto dell’azione stessa, sia uno stato di permanenza, come se l’azione penetrasse nel suo agente e diventasse la sua caratteristica, o identità, principale: star scrivendo, colui che in questo momento sta scrivendo, ma anche lo scrittore. Ecco perché il protagonisti del romanzo di Dima Wannous, “Al Khay’foun”, che danno il nome al titolo del libro (da “khawf” paura), non possono essere semplicemente “Gli Impauriti”, bensì “Quelli che hanno paura”.
Perché avere paura può durare un istante, o tutta la vita.
Chi è nato in Siria dagli anni Sessanta in poi è un “kha’yf”, una persona non solo impaurita, ma una persona vive nella paura. Di essere spiata. Arrestata. Paura di scomparire. Paura di pensare. Di decidere. Di prendere azione. Paura di non far nulla. Paura di quello che può succedere agli altri. Paura che qualsiasi cosa si scelga di fare, o di non fare, avrà delle conseguenze. Paura di sentirsi vulnerabile. Paura di avere paura. Un attacco di panico che dura una vita, che consuma energie, che annebbia le decisioni e tarpa il cuore.
Suleyma incontra Nassim nella sala d’attesa del suo terapista, il dottor Camille, con il quale da anni cerca di venire a capo del suo stato permanente di ansia e panico. Il padre di Suleyma, un medico, era fuggito da Hama all’indomani del massacro del 1982, dilaniato tra il suo dovere morale e professionale di soccorrere e curare i concittadini feriti e la necessità di salvarsi dalla repressione drammatica del regime, essendo di confessione alawita. Da allora, ha vissuto nel terrore di essere collegato agli eventi di Hama, tanto da aver appeso nel proprio studio medico un ritratto del Presidente, a scanso di equivoci. La moglie, donna sunnita decisa, gli ha sempre rimproverato la sua viltà, il suo tradimento al popolo di Hama, il suo asservimento ad un regime che si rese colpevole di tanta crudeltà, rinfacciandogli ogni giorno il suo silenzio. Suleyma, invece, ha sempre apprezzato la dolcezza e la delicatezza di suo padre, nel cui amore riconosce tutta la volontà di protezione dai fantasmi del passato, a lei oscuri. La loro carta d’identità, però, non nasconde la loro origine, geografica e culturale, etnica, religiosa.
Nassim è un medico, ma il suo alter ego è uno scrittore. Introverso, spigoloso e autolesionista, intravede in Suleyma molte delle dinamiche di ansia e paura a lui familiari, e nella curiosità della ragazza nei suoi confronti, uno spiraglio cin cui insinuarsi e finalmente dischiudere il suo universo interiore di tenebre. Nassim e Suleyma si ritrovano regolarmente a bere caffè o birra in silenzio, dopo le loro sedute, poi pian piano a condividere pensieri e quotidianità, e finalmente ad amarsi in una Damasco sull’orlo della rivoluzione, immersi nella paura di se stessi e delle loro ombre. Arriva la rivoluzione, e poi la guerra, e Nassim, dopo aver perso sua madre e sua sorella sotto le bombe, riesce a fuggire con il padre in Germania. Suleyma invece rimane a Damasco, ma suo fratello, che aveva partecipato alle manifestazioni pacifiste di protesta contro il regime, scompare.
L’incertezza sul suo destino, il non volersi rassegnare all’idea, per quanto drammatica ma almeno più rassicurante, della sua morte per mano dei servizi governativi, o peggio degli shabiha, avvolgono Suleyma e sua madre, ormai rimaste sole a Damasco dopo la morte del padre, in un velo di polverosa tristezza e lenta, deprimente quotidianità: la madre è ogni sera ferma alla pagina 24 del suo libro, mentre il tempo di Suleyma è scandito da pastiglie di Xanax, ingoiate metà alla volta, più volte al giorno.
La distanza geografica e affettiva tra i due amanti è parzialmente riempita da messaggi WhatsApp, quando la linea prende. Ma pian piano i contatti si fanno più radi, Nassim non sempre risponde, la sua insicurezza attraversa l’etere, creando ulteriore instabilità in Suleyma. A volte è invece un silenzio condiviso al telefono ad unirli. Finché Nassim non invia a Suleyma il suo ultimo manoscritto, che la ragazza inizia a leggere avidamente, risvegliandosi così dal torpore che l’ha accompagnata nei suoi ultimi anni. Leggendolo, in effetti, Suleyma si chiede se Nassim non abbia preso in prestito pezzi ed avvenimenti della sua vita per creare la protagonista, Salma, una ragazza alawita fuggita dalla Siria in fiamme, che vive nel lutto non accettato della morte dell’affettuoso padre, avvenuta dieci anni prima, che rientra periodicamente a Damasco per le sue sedute di psicoterapia dal Dr. Camille e per andare a trovare la madre ormai rimasta sola, che si guarda – anche lei – dentro le ombre e le paure, con le quali fa fatica a convivere.
Suleyma decide di aver bisogno di chiarezza, di capire chi è veramente Nassim, incuriosita prima, e sempre più decisa poi a scoprire se questa misteriosa protagonista dal nome così simile al suo esista davvero. Inghiottendo una pasticca di Xanax dopo l’altra, prende per mano le sue paure, realizzando la verità sui suoi sentimenti per Nassim, sul suo bisogno di amore e calore vero, venuto a mancare sin dalla scomparsa del padre, sull’assurda situazione in cui si è ritrovata, cercando prima prove nella casa dell’amico, tra vecchie fotografie e finti necrologi, ed arrivando, non senza rischi, a cercare la misteriosa Selma fino a Beirut, senza avere, alla fine, il coraggio di incontrarla. Cosa avrebbe infatti potuto dirle?
Nel romanzo di Dima Wannous, giovane scrittrice siriana trapiantata in Europa, il conflitto siriano non è, una volta tanto, il protagonista, ma l’imprescindibile contesto che crea lo stato permanente di paura, che cambia radicalmente le vite di tutti, le forme, gli orari, le abitudini, le strade, i destini, fino a diventare la paura più grande: quella di aver paura.
Protagonista è invece la vulnerabilità emotiva e affettiva di chi si ritrova, dalla nascita, a vivere avendo paura persino della propria ombra e dei propri pensieri. Protagonisti sono i ragazzi che ambiscono disperatamente alla normalità, invece di doversi districare tra lutti, check point, insicurezza fisica e psicologica e infine una rivoluzione perduta. E adulti che, nati e vissuti nel terrore di stato, avrebbero voluto un presente ed un futuro migliore per i loro figli, invece che vederli scomparire tra le macerie o, peggio, nelle prigioni sotterranee, senza rassegnarsi né trovare pace.
La paura non è la protagonista, ma dei protagonisti ne occupa le vite e le morti, fino a consumarle. E da più di sessant’anni, almeno tre generazioni di persone sono nate – e morte – nello stato permanente di paura in Siria. Finché non capiremo questo, noi dall’altra parte del confine siriano non saremo mai in grado di comprendere la profondità e l’estensione, fisica e culturale, della tragedia siriana, e della sua origine in un lento e meticoloso smembramento di ogni segmento della società civile, e delle vite individuali, tramite il controllo capillare e il terrore, fino a un punto di non ritorno. Come può un individuo sopravvivere a quel che rimane di se stesso se non anestetizzando il panico, creando una dimensione affettiva immaginaria più confortante della realtà stessa, oppure rinchiudendosi nella propria conchiglia o, peggio, immaginando la morte dei propri cari fino ad arrivare a scriverne i necrologi?
E quindi, cosa può Suleyma dire a Salma, seduta ad aspettarla in un bar di piazza Sassine?
A dividerle, un semaforo, e un abisso nel quale le vite sprofondano inghiottite dalle tenebre che le hanno sempre accompagnate. È in quel momento, fissando la sua sconosciuta antagonista, che Suleyma finalmente trova la compassione per se stessa che da troppo tempo non si concede, e l’improvviso quanto necessario bisogno di tornare ai suoi veri affetti, almeno quelli che le sono rimasti, e salvarsi dalla distruzione, interiore ed esteriore, che la avvolge. È così che, nonostante la paura, ferma un taxi direzione frontiera, e ritorna a Damasco, da sua madre, ancora ferma alla pagina 24, nell’unico luogo che in questo inferno di bombe e morte e sparizioni e paure e incertezze e lutti e nostalgie e rabbia e ansia e silenzi, può chiamare, in cui sentirsi, a casa.