L’autoradio dà le temperature della giornata: farà molto freddo. Le strade sono ancora deserte. Guido per miglia e miglia sui vialoni di Berlino senza incontrare un’anima. Guido e penso alla profezia meno riuscita su questa città.
di Nicola Sessa, da Berlino
«L’odore del sangue non ha mai lasciato questo luogo. Le urla strazianti rimbalzano ancora contro i mattoni rossi del muraglione di cinta». L’uomo dà fuoco a una sigaretta. Nel buio, per pochi secondi, la fiamma dell’accendino ne illumina il volto senza età. Cammina, aiutandosi con un bastone di legno chiaro. Si appoggia contro il muro imponente della prigione di Plötzensee, nel quartiere berlinese di Wedding.
«2.891!». «Tra il 1933 e il 1945, 2.891 dissidenti sono stati torturati e uccisi in questo carcere. Berthold Schenk Graf von Stauffenberg con il fratello Claus e altri sei ufficiali della Wehrmacht congiurarono contro Hitler: l’attentato nella Tana del lupo fallì. Roland Freisler, presidente del Volksgerichtshof – il tribunale del popolo – riservò un trattamento speciale a Berthold che fu appeso a un gancio da macello, torturato con strangolamenti multipli e poi ucciso. Là, oltre il cancello, a dieci metri dai miei occhi». L’uomo lascia cadere la sigaretta sull’umido pavé di porfido di Hüttigpfad, la strada angusta e opprimente rimasta pressoché identica dai tempi della Berlino prussiana. E il carcere, entrato in funzione nel 1879, è ancora un carcere.
Nocturne Berlin, part 1 from nicola sessa on Vimeo.
Vuoto. Spazio. Silenzio. Tempo. S’impossessano della notte di Berlino; sorprendono il visitatore che si attardi a girovagare per le strade della metropoli dal destino tragico che la condanna a un continuo divenire, a “non essere” mai. Lo scriveva Karl Scheffler nel suo libro Berlin. Ein Stadtschicksal (1910) e novant’anni dopo gli faceva eco Jack Lang: «Paris est toujours Paris, Berlin est jamais Berlin».
I suoni ritmati, polifonici dei mille cantieri scandiscono l’inesorabile mutare; ma di notte si può guardare, sentire, ascoltare i sussurri della storia, i gemiti di un passato brevissimo e travagliato. I racconti degli edifici che non ci sono più, dei fantasmi che si aggirano nelle strade, dell’eco flebile e lontanissima delle voci che l’hanno popolata galleggiano a mezz’aria, sospesi come una nebbiolina che penetra nel viaggiatore restituendo un’esperienza quasi medianica. A Berlino, si va a caccia di ciò che non è. Berlino stessa è ciò che non è più. In pochi altri luoghi al mondo, il vuoto è così ingombrante, l’assenza così presente, le tracce così evidenti.
[blockquote align=”left”]A Berlino, si va a caccia di ciò che non è. Berlino stessa è ciò che non è più. In pochi altri luoghi al mondo, il vuoto è così ingombrante, l’assenza così presente, le tracce così evidenti.[/blockquote]Rosso. Giallo. Verde. Anche a notte fonda, i semafori non passano mai a quella fase ipnotica di giallo intermittente. Sei solo, con le spazzole tergicristallo che vanno veloci, ad aspettare a un incrocio largo quanto una pista d’atterraggio per alcuni minuti interminabili, che il rosso ceda al giallo – ingrani la marcia – poi al verde. L’autoradio sui 91.4 spara a raffica successi pop degli anni Sessanta e Settanta: il soffio rauco del dj lancia Aber schön war es doch, di Hildegard Knef.
La macchina s’inchioda su Unter den Linden, la strada salotto del quartiere-distretto Mitte. Ancora quell’uomo, affacciato sul grande vuoto che giace di fronte al Lustgarten, all’isola dei musei e alle creazioni architettoniche di Karl Friedrich Schinkel. «Quando i berlinesi non sanno cosa fare di un pezzo della loro storia e il diritto a dimenticare si scontra nella lotta titanica con il dovere di ricordare, demoliscono, ci piantano degli alberi o ne fanno un parcheggio. E intanto discutono». Su quel pezzo di prato verde si ergeva il palazzo reale degli Hohenzollern che all’apice del suo splendore è arrivato a contare milleduecento camere. È stata la dimora dei re di Prussia fino al 9 novembre del 1918, quando il Kaiser Wilhelm II andò in esilio in Olanda e un infuocato Karl Liebknecht da un balcone del palazzo proclamava la Libera repubblica socialista di Germania. «Il 9 novembre. Data fatale per berlinesi e tedeschi: cinque anni dopo, il 9 novembre del 1923 veniva represso il putsch di Monaco, il primo atto della tragedia diretta da Hitler che esattamente quindici anni dopo, nel 1938 scatenava la Kristallnacht, il pogrom contro gli ebrei. Era ancora un 9 novembre, nel 1989, quando finalmente questa città sembra aver riacquistato definitivamente la sua serenità e grandezza».
[blockquote align=”right”] «Quando i berlinesi non sanno cosa fare di un pezzo della loro storia e il diritto a dimenticare si scontra nella lotta titanica con il dovere di ricordare, demoliscono, ci piantano degli alberi o ne fanno un parcheggio. E intanto discutono»[/blockquote]L’uomo continua nel suo racconto, lontano e ingovernabile come l’esperienza onirica. «Il 23 agosto del 1950 il partito unico della Ddr decise l’abbattimento del palazzo (di quel che ne rimaneva dopo i bombardamenti degli Alleati), ‘simbolo dell’aggressione e del militarismo prussiano’. Si decise per la memoria selettiva, la strada indicata da Nietzsche per superare il senso di impotenza nell’affrontare il destino della storia». Per quasi vent’anni, la spianata degli Hohenzollern servì come parcheggio per le colorate Trabant dei tedeschi d’oltremuro. Solo negli anni Settanta, si mise mano alla costruzione del Palast der Republik dove il parlamento condivideva gli spazi con una dozzina di bar e ristoranti, una discoteca, una concert hall e un bowling. «Il parlamento era del tutto inutile, ma Der Palast era diventato il luogo preferito d’incontro dei berlinesi». L’uomo riprende a camminare lentamente, appoggiandosi al bastone, accompagnando il suo racconto a un interminabile pianosequenza con il suo sguardo. «Anche questo palazzo, abbattuto. Dicono, per la contaminazione da amianto. E se fosse una vendetta postuma degli Hohenzollern?».
Ancora il vuoto.
In controluce, si possono immaginare le linee dei due palazzi simbolo di due epoche sovrapposte, alla stregua di due ere geologiche su un piano metafisico. Memoria o rimozione di essa. L’abbattimento di un simbolo rimane solo un’operazione superficiale. La Storia ha la sua potenza attrattiva e a Berlino ha un respiro lunghissimo. Non è servito smantellare la Cancelleria del Reich (i cui marmi sopravvivono nei memoriali sovietici o nelle stazioni della metropolitana). Nemmeno radere al suolo il bunker di Adolf Hitler che si estendeva tra Voss Strasse e Kolmar Strasse. C’è chi giura che, fermandosi nel parcheggio sorto su una parte del bunker, si possano percepire le vibrazioni del male; un sommovimento tellurico dell’animo provocato dal riflesso muto della (dis)umanità più dark.
Nocturne Berlin, part 2 from nicola sessa on Vimeo.
L’uomo della notte prosegue nel suo cammino. Attraversa Bebelplatz e si ferma sulla lastra di vetro attraversata da un fascio di luce fredda. «Era il salotto dell’illuminismo tedesco. Proprio di fronte alla Humboldt Universität, la culla di Marx, Engels, Feuerbach, Marcuse, Fichte, Einstein, dei Grimm, di Heine, Hufeland, Koch, Schopenhauer, Tucholsky, Mendelssohn, Hegel, Savigny, Benjamin. Il falò della vanità nazista, della brutale ignoranza». Il 10 maggio del 1933 le camicie brune diedero alle fiamme oltre ventimila libri considerati non germanici. «Almeno questo è un sollievo: il lato oscuro della Germania ha rifiutato e non ha trovato nessun tratto in comune con il pensiero libero europeo». L’uomo batte la punta di ferro del bastone contro il pavimento e sussurra, a ogni colpo, un nome a mo’ di peana: «Freud. Brecht. Bloch. Kafka. Mann. Proust. Remarque. Marx…».
Le pagine bruciavano, ma per quanto le fiamme si alzassero, le idee, i pensieri degli autori messi all’indice volavano più in alto, inafferrabili. Sotto i piedi del cursore notturno, scaffali vuoti, bianchi ospitano l’orma ipotetica di quei volumi. Come un’esplosione, la risata isterica dell’uomo dall’età indefinibile riempie l’intera piazza: «E adesso sai cosa? Presto costruiranno un parcheggio sotto i nostri piedi che circonderà questi scaffali vuoti. Parcheggi, sempre parcheggi. Una vera ossessione». Gli scaffali di Bebelplatz non sono i soli a essere rimasti vuoti: su Karl Marx Allee, la storica libreria aperta nel 1953 è stata costretta alla chiusura nel febbraio del 2008: i mandanti si chiamano privatizzazione (quattromila euro al mese erano diventati troppi per Erich Kundel che la teneva in gestione) e deculturazione: la lettura non ha più lo stesso peso che aveva nella Ddr. O forse Amazon è diventata una concorrente ammazzalibrerie. Della Karl Marx Buchhandlung rimangono l’insegna, gli scaffali di legno scuro e il meraviglioso odore dei vecchi libri che l’hanno abitata per mezzo secolo. Il passo diventa veloce. Il bastone sfiora appena la terra. «Non mi rimane ancora molto tempo».
Unter den Linden, Strasse des 17. Juni. Bismarckstrasse e la monolitica Deutsche Oper. Il palazzo dell’Opera. «Era il 2 giugno del 1967, verso sera. Io non ero ancora arrivato; la mia ora non era ancora arrivata. Lo Scià di Persia, Reza Pahlavi, si trovava in visita in città ed era nel palco d’onore. In programma c’era il Flauto Magico di Wolfgang Amadeus Mozart. La bacchetta era quella di Lorin Maazel. Fuori dall’opera un corteo di studenti protestava contro lo Scià, “schiavo dell’imperialismo americano” che affamava il suo popolo. Le guardie iraniane reagirono. Si scatenò il panico. L’ufficiale di polizia Karl-Heinz Kurras si mosse a grandi falcate verso uno studente». Il suo nome era Benno Ohnesorg. «Kurras prese la mira e sparò. Ecco, nel preciso istante in cui la pallottola lasciava la canna della pistola di Kurras, prima ancora che Ohnesorg fosse colpito a morte, la storia della Germania federale e dell’Europa occidentale cambiò: era l’inizio del Sessantotto. E del terrorismo».
Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen,
Tod und Verzweiflung flammet um mich her!
(La vendetta dell’inferno ribolle nel mio cuore, Morte e disperazione m’infiamman tutt’intorno!) canta la Regina della Notte nel Secondo Atto, Scena Ottava del Flauto Magico .
Kurfürstendamm, civico 141. Il nottambulo siede su una bicicletta parcheggiata di fronte al grande supermercato Kaiser. Tira fuori dalla giacca di montone una mela verdissima. Ci gioca, la lancia in aria e poi la riprende Si guarda la punta degli stivali e fa scivolare il bastone a pochi centimetri da una placca di bronzo piantata nel pavimento a pochi metri dall’entrata del Kaiser.
“Rudi Dutschke”.
Morde la mela.
«Josef Bachmann lo stava aspettando da molte ore. Sapeva che prima o poi Rudi il Rosso, lo sporco comunista, sarebbe passato alla sede dei giovani socialisti. Bachmann era seduto in macchina, giocava nervosamente con il cane della pistola. Lo tirava e lo disarmava. Aveva letto e riletto la prima pagina di un giornalaccio edito da Axel Springer. Lo vide arrivare. L’imbianchino Bachmann fermò con cortesia la corsa della bicicletta di Rudi: “È lei Rudi Dutschke?’’, “Sì, sono io’’. Bam, bam… Bam. Bachmann piantò nella testa di Rudi tre pallottole». Rudi non morì quella mattina dell’11 aprile 1968, ma undici anni dopo a causa delle gravi ferite riportate. «Ad armare la mano dell’imbianchino fu la campagna portata avanti dalla Bild e da altri giornali spazzatura pubblicati da Springer. ‘Fermate Dutschke, adesso!’ e ‘Non lasciamo che sia la polizia sola a doversi sporcare le mani’, sono solo un esempio del tenore degli attacchi». Berlino sa essere cinica e vendicativa: Axel Springer Strasse muore con una curva, inchinandosi, sulla Rudi Dutschke Strasse che ha preso il posto della Koch Strasse nella sua parte finale.
[blockquote align=”left” cite=”~Hausenstein, 1929″]“La teoria della relatività si esprime qui come in nessun altro luogo”[/blockquote]«Andiamo, voglio esaurire il poco tempo che mi rimane dov’era il mio regno quando Berlino era più moderna e lucente di Chicago, quando nessuno era al mio pari. E non lo erano le notti di Parigi o di Londra». Potsdamer Platz. All’inizio del secolo scorso, tutto girava intorno a “Potz platz”. Chi era in cerca del futuro era là a vedere le macchine, il primo semaforo d’Europa, le architetture che aprivano a una nuova epoca. Dinamicità, spazio, tempo. Nel 1929, Hausenstein scriveva: “La teoria della relatività si esprime qui come in nessun altro luogo”. «Poi le luci si spensero. Potz divenne un enorme buco nero senza vita. Vuoto. Un pesante, ingombrante vuoto. Ricordi Curt Bois, l’Omero di Wim Wenders che vagava nel prato a ridosso del Muro? Diceva: “Non mi do per vinto finché non avrò trovato la Potsdamer Platz”.
È quello che mi ripeto ogni volta anch’io. Non mi arrendo.
Aspetto che Potz riacquisti il suo carattere, che abbandoni la veste della controfigura con la replica del semaforo, con l’hotel Palast ingabbiato nel grattacielo della Sony, con i Caffè senz’anima».
È stato un attimo, il tempo di guardare a est la luce dell’alba che rompe l’oscurità. Dell’uomo senza età non v’era più traccia.
L’autoradio dà le temperature della giornata: farà molto freddo. Le strade sono ancora deserte. Guido per miglia e miglia sui vialoni di Berlino senza incontrare un’anima. Guido e penso alla profezia meno riuscita su questa città. Il comandante in capo della Raf, l’aviazione britannica, scriveva nel 1945:
“Le rovine di Berlino dovrebbero essere preservate come una moderna Cartagine o Babilonia. La città è deserta. Puoi guidare per miglia e miglia tra rovine fumanti e non scovarvi nulla di abitabile. Questa città non potrà mai essere ricostruita”.
Era ancora notte fonda e il giorno era lontano da venire.
[box] Notturno Berlinese è un reportage di Nicola Sessa, con foto di Gianluca Cecere pubblicato da E il Mensile nel mese di marzo 2012. E il Mensile ha cessato le pubblicazioni nel luglio dello stesso anno. [/box]
foto di Gianluca Cecere
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greta
Articolo interessante e colgo l’occasione per complimentarmi per questo sito! veramente ben fatto e con tanti articoli utili!