Appurato da tempo che il riscaldamento globale è, per ampia parte, causato da attività di origine antropica, e che i cambiamenti climatici sono ormai un fatto, i titoli sensazionalistici della stampa italiana non rischiano di trasformare la questione in uno scoop fasullo?
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/11/ValeB.jpeg[/author_image] [author_info]di Valeria Barbi. Ricercatrice per lavoro, viaggiatrice per vocazione e scrittrice per passione. Si occupa di politiche climatiche e tutela dell’ambiente. Ha molte passioni. Una di queste è dare sempre e comunque la propria opinione. Anche quando non è richiesta. Tende a non farsi condizionare dalle regole ma a vivere le proprie emozioni. Ha deciso di restare in Italia (per ora) per vedere chi la spunta tra la sua instancabile forza di volontà e questo Paese immobile[/author_info] [/author]
Un pianeta scosso da malattie, conflitti, eventi atmosferici estremi e tensioni sociali. Una sorta di scenario post nucleare come quello che gli appassionati del genere ricorderanno di aver visto più volte negli innumerevoli film, di produzione prettamente statunitense, usciti negli ultimi anni.
E’ questa la Terra del Futuro secondo un recente articolo, pubblicato da Repubblica, che prende spunto dagli scenari contenuti negli stralci della bozza dell’ultimo rapporto dell’International Panel for Climate Change (IPCC). Niente di più plausibile ma, allo stesso tempo, niente che un’ampia fetta della comunità scientifica globale – scettici del clima esclusi – non abbia già ampiamente riconosciuto con un grado di certezza superiore di anno in anno. O perlomeno dal 1988 quando, grazie all’iniziativa del World Meteorological Organization (WMO) e dell’United Nations Environment Programme (UNEP), viene fondato l’IPCC, il più autorevole foro scientifico globale permanente nato allo scopo di studiare le variazioni climatiche, il riscaldamento globale, le sue origini, i suoi impatti e le sue conseguenze socio-economiche.
A partire dal 1990, l’IPCC ha prodotto quattro rapporti di Valutazione (Assessment Reports – AR) che costituiscono, per la comunità internazionale, il perno delle conoscenze scientifiche relative al sistema clima e hanno un indubbio ruolo chiave nell’avanzamento dei negoziati sui cambiamenti climatici che si svolgono nell’ambito della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC), redatta nel corso della Conferenza di Rio sullo Sviluppo Sostenibile del 1992.
Quello che è importante notare è che l’IPCC non svolge direttamente attività di ricerca, monitoraggio o raccolta di dati, ma fonda le sue valutazioni sulla principale letteratura scientifica, tecnica e socio-economica prodotta a livello mondiale e pubblicata in seguito alla cosiddetta revisione paritaria (peer review). Il foro è costituito da tre gruppi di lavoro (Working Groups – WG): il WGI si focalizza sugli aspetti scientifici del sistema clima, il WGII si occupa degli impatti del cambiamento climatico, della vulnerabilità dei sistemi naturali e socio-economici e delle strategie di adattamento possibili, mentre il WGIII si occupa delle azioni di mitigazione possibili e dei fondamenti di questa strategia a livello scientifico, ambientale, naturale ed economico-sociale.
Fatte le giuste premesse, il punto della questione è il seguente: appurato da tempo che il riscaldamento globale è, per ampia parte, causato da attività di origine antropica, e che i cambiamenti climatici sono ormai un fatto inequivocabile – come spiegherò tra poco grazie ai dati della prima parte dell’ultimo rapporto dell’IPCC – i titoloni sensazionalistici tipici della stampa italiana non rischiano di trasformare la questione in uno scoop fasullo di cui il lettore medio è libero di dimenticarsi pochi istanti dopo aver finito l’articolo? Mi spiego meglio. Quello che sappiamo del sistema clima e della sua evoluzione è noto ormai da tempo. Ciò che cambia nei sette anni che intercorrono tra un rapporto e l’altro dell’IPCC è, di solito, il grado di certezza attribuito alle possibilità che determinati impatti avvengano in determinati luoghi e in un certo frammento di tempo. Per fare un esempio concreto, nell’AR5 la responsabilità umana nei confronti di quanto sta accadendo diventa al di fuori di ogni ragionevole dubbio.
Parlare di “notizia” quando si spiegano le conseguenze che l’attuale trend di emissioni di sostanze climalteranti in atmosfera potrebbero avere per il nostro pianeta, e tutta la serie di impatti che il cambiamento climatico avrà sulle nostre vite, è alquanto fuorviante e rischia di trasformare un serio e costante problema quotidiano in una notizia di moda che si reitererà ogni qual volta ci sarà bisogno di riempire un buco in una pagina, quando ci sarà l’ennesimo alluvione con le medesime devastanti conseguenze o quando i leader mondiali si riuniranno nell’ennesima conferenza internazionale. Un po’ come accade per la notizia dei pit-bull “assassini” tra maggio e luglio, o con le morti bianche sul lavoro tra agosto e ottobre.
Senza contare, inoltre, che tutto quello che viene scritto nelle bozze preliminari del rapporto sarà soggetto ad una severa revisione in sede di discussione con gli Stati. Di norma, infatti, i rappresentanti governativi tendono a ridurre le uscite sensazionali e più drammatiche.
Detto questo, passiamo alle evidenze scientifiche di cui siamo fino ad ora a conoscenza.
Il 30 settembre scorso, l’IPCC ha pubblicato il primo volume del quinto rapporto di valutazione dei cambiamenti climatici (AR5), ad opera di 859 scienziati facenti parte del WGI. Il rapporto espone le basi scientifiche del cambiamento climatico sulla base di oltre 9200 pubblicazioni scientifiche riguardanti le osservazioni di indicatori, modelli e proiezioni climatiche.
I principali risultati presentati nel rapporto sono accompagnati da una valutazione del loro grado di certezza scientifica, così come spiegato nella tabella riportata di seguito ed estrapolata dal Summary for policy makers del WGI:
- la “confidenza” nella validità di un’affermazione fornisce una indicazione della disponibilità delle evidenze e del livello di accordo nella letteratura e nella comunità scientifica. Il livello di confidenza è espresso in maniera qualitativa (molto basso, basso, medio, alto e molto alto) ed è basato sul livello di evidenze (robusto, medio e limitato) sull’accordo nella comunità scientifica (alto, medio e basso);
- la “probabilità” fornisce una valutazione quantitativa dell’incertezza tramite un’analisi statistica delle osservazioni e dei risultati dei modelli o tramite una valutazioni da parte degli esperti.
Come ribadito poco innanzi, i dati analizzati dalla comunità scientifica internazionale, e descritti nel rapporto, confermano che i cambiamenti climatici sono in atto e che il riscaldamento globale è inequivocabile. Inoltre, viene specificato chiaramente che è estremamente probabile (95-100%) che più della metà dell’aumento osservato nella temperatura superficiale dal 1850 al 1910 sia stato provocato da attività di origine antropica tra cui: emissioni di gas serra, aerosol e cambiamenti nell’uso del suolo (land use, land use change and forestry – LULUCF). In base ai quattro scenari presentati nel quinto rapporto, l’aumento delle temperature globali rispetto ai livelli preindustriali oscillerà tra i 2°C fino a superare i 5°C a fine secolo.
Per mantenere il riscaldamento globale al di sotto della soglia di sicurezza fissata a 2°C, target adottato unanimemente dalla comunità internazionale come obiettivo limite, è necessario che le emissioni cumulative di CO2 rispetto ai livelli preindustriali provenienti da attività antropiche, rimangano al di sotto dei 1000 GtC. Impresa ardua, a meno di un radicale taglio nell’utilizzo di combustibili fossili che sono responsabili, insieme all’industria del cemento, dell’immissione in atmosfera dell’89% delle emissioni. Senza contare il necessario blocco della deforestazione. Per farsi un’idea di come, in uno scenario di BAU, sia facile superare la soglia di sicurezza, basti pensare che è stato stimato che dal 1750 al 2011, le emissioni cumulative antropogeniche hanno raggiunto i 545 miliardi di tonnellate di carbonio (GtC) di cui 240 GtC si sono disperse in atmosfera, 155 GtC sono state assorbite dagli oceani causandone l’aumento dell’acidità, e 150 GtC dagli ecosistemi naturali.
Una serie di certezze scientifiche che aumenta di pari passo con l’incremento della temperatura terrestre ma che purtroppo non sembrano abbastanza forti da sbloccare la latente immobilità politica della comunità internazionale, troppo spesso invischiata in interminabili empasse negoziali e ostacolata da interessi politici di breve termine. Una dinamica, questa, piuttosto strana se si considera che a rigor di logica a maggior certezza dovrebbe corrispondere una più pronta azione.
Secondo l’IPCC, gli ultimi tre decenni sono stati i più caldi dal 1850 quando sono iniziate le misure termometriche a livello globale. Una notizia, questa, non precisamente nuova ma sicuramente basata su evidenze scientifiche più solide e robuste in quanto basate su una più vasta serie di osservazioni e su un’analisi più cospicua sia delle azioni dell’aerosol che delle nuvole e delle radiazioni cosmiche sul sistema climatico. Senza contare l’accumulo di conoscenze che abbiamo ora dell’impatto di fenomeni come El Nino e La Nina sui cambiamenti climatici su scala regionale. Inoltre, il rapporto di recente pubblicazione beneficia dell’utilizzo di una nuova e più ampia serie di modelli climatici, che includono anche la biologia degli oceani, i processi che si verificano nei suoli e la chimica atmosferica, nonché una serie di proiezioni climatiche di breve (2016 – 2035) e lungo (2086 – 2100) termine. Ad essere aumentata è anche la risoluzione considerata nei modelli che, se nel 1990 era di 500 Km, ora arriva ad un’approssimazione di 50 Km.
In base a quanto specificato nel rapporto, le emissioni di gas serra sarebbero destinate ad aumentare e provocheranno, come già ribadito a sufficienza, un ulteriore riscaldamento del clima. Quest’ultimo comporterà una variazione nella temperatura dell’aria e degli oceani, e nel ciclo dell’acqua. Ad aumentare sarà anche il livello del mare che, nel periodo tra il 1990 e il 2010 è cresciuto di 0.19 m ed è destinato, probabilmente, a crescere fino a raggiungere, nel 2100, un range di innalzamento oscillante tra i 0.41m agli 0.97m a seconda dello scenario considerato. Secondo tutti e quattro gli scenari dell’AR5, inoltre, gli oceani seguiteranno a riscaldarsi e a causa della loro capacità termica continueranno a farlo nei secoli a venire anche qualora le emissioni di gas serra diminuissero o le concentrazioni di gas serra rimanessero costanti.
Per quanto riguarda la criosfera, negli ultimi vent’anni, le calotte glaciali in Groenlandia e Antartide hanno perso massa ad un ritmo rispettivamente di 215 Gt/anno e 147 Gt/anno tra il 2002-2011 rispetto ai 34 Gt/anno e 30 Gt7anno tra il 1992-2001. I ghiacciai, inoltre, si sono notevolmente ridotti e la diminuzione stagionale estiva della banchisa artica sta aumentando.
Ma ancora una volta, lo scioglimento dei ghiacci non è una novità. Quello che cambia è l’urgenza con cui siamo chiamati ad agire. Arctic Dynamics, un rapporto di recente pubblicazione ad opera degli studiosi dell’Apollo-Gaia Project, ha fatto sapere che il primo settembre senza ghiaccio, nell’Artico, avverrà nel 2015. Senza contare che secondo James Overland, oceanografo del National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), già nel 2020 – e non oltre il 2050 – l’intera estate Artica sarà quasi completamente senza ghiaccio.
Un timore diffuso, condiviso e con innumerevoli conseguenze negative per il pianeta. Queste ultime vanno dal rilascio di enormi quantitativi di metano imprigionato nel permafrost fino al già ampliamente documentato innalzamento dei livelli di mari e oceani. Una bomba economica da 60 trilioni di dollari che esploderà in faccia alle nazioni sottoforma di costi.
Senza contare, poi, le dirette conseguenze per la fauna artica. Per le specie animali che abitano nell’Artico lo scioglimento dei ghiacci è una minaccia alla loro sopravvivenza. E’ stata diffusa quest’estate dal The Guardian, la notizia della la scoperta della carcassa di un orso di 16 anni che sembra essere morto a causa dei cambiamenti climatici. Lo scienziato Ian Stirling, che ha dedicato gli ultimi 40 anni della sua vita agli orsi polari, si è dichiarato convinto che lo scioglimento dei ghiacci ha costretto l’orso a spostarsi su lunghe distanze alla ricerca di cibo. Gli orsi polari si nutrono di foche e si servono delle calotte ghiacciate per la loro caccia. Con la progressiva diminuzione del ghiaccio, le distanze si fanno sempre più lunghe e molti orsi annegano o muoiono di fame.
Senza contare le tensioni geopolitiche tra gli Stati per l’accaparramento delle ingenti risorse di cui la zona artica è piena. Una vera e propria nuova corsa all’oro… nero. Questo avrà nuove e importanti conseguenze anche per le popolazioni locali. Nell’emisfero nord, ad esempio, la popolazione degli Inuit, ormai stanziale dal 1970, vive oggi nell’incertezza di un futuro condizionato dal problema di un’atmosfera sempre più satura di Co2 e dai rischi connessi con le future scelte economiche della comunità internaziona
Veniamo ora alle presunte conseguenze su intensità e tipologia di eventi estremi. Il report dell’IPCC ribadisce un probabile aumento delle possibilità che si verifichino eventi estremi in determinate regioni e una variazione nel loro grado di intensità. Nello specifico, le proiezioni climatiche evidenziano che le precipitazioni medie diminuiranno probabilmente in molte aree secche localizzate a medie latitudini e in molte aree secche subtropicali. Al contrario, in alcune aree umide situate a medie latitudini probabilmente aumenteranno entro la fine di questo secolo.
Quanto descritto fino ad ora avrà ripercussioni notevoli su ogni sfera della nostra vita: dalla scarsità di risorse (acqua e cibo), ad uno squilibrio nell’intero ciclo di quello che già da molti anni viene definito l’oro blu, dall’abbandono di territori agricoli alla volta delle aree urbane con un conseguente sovrappopolamento (con tutto ciò che questo comporterà), a danni diretti e indiretti sulla salute umana.
A tal proposito, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) già da molti anni parla di ondate di calore e aumento della mortalità dovute agli effetti dei cambiamenti climatici: malattie tropicali in Europa, ondate di caldo/freddo, allergie, asma, ricomparsa di malattie credute debellate…
Tutto questo, lo ribadisco, gli scienziati lo preannunciano già da tempo.
La tanto paventata guerra alle risorse non è notizia di oggi. Nel 1972, sotto incarico del Club di Roma, viene pubblicato il Rapporto sui limiti dello sviluppo, che denunciò i limiti della natura, non solo dal punto di vista della disponibilità di risorse, ma anche della capacità del pianeta di ammortizzare gli impatti ambientali. Quello che ne è uscito è un messaggio chiaro e sempre attuale: “non si può invocare una crescita economica infinita avendo a disposizione risorse finite”.
Nel 1987, poi, la Commissione delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo presentò lo studio “Our Common Future”, meglio conosciuto come “Rapporto Brundtland”, nel quale si definì il concetto di sviluppo sostenibile, inteso come la capacità di “soddisfare le necessità delle generazioni presenti senza compromettere le possibilità delle generazioni future di soddisfare le proprie”. Ciò nonostante, nel corso dello stesso decennio, le istituzioni finanziarie internazionali abbracciarono una nuova strategia economica nota come Washington Consensus la quale mise in primo piano il ruolo del mercato nel conseguire una più grande integrazione economica globale aumentando interconnessioni e interdipendenza. Avendo creato un mercato globale dipendente dalla produzione, dal trasporto a lunga distanza e dal consumo di volumi sempre crescenti di beni (meglio noto come consumismo), la stessa traiettoria economica ha portato a un crescente sfruttamento delle risorse naturali, alla scarsità di energia e a un sovraccarico del sistema ambientale naturale. Tutto ciò nel contesto di una crescita costante della popolazione globale che si accompagnava a flussi migratori interni e internazionali, diretti soprattutto verso le aree urbane, e che ha generato – e non smette di farlo tuttora – disgregazione sociale e conflitti quando la terra e le risorse vitali, come cibo e acqua, cominciarono a scarseggiare.
Gran parte della recente letteratura in materia considera i cambiamenti climatici una sfida alla sicurezza umana, focalizzandosi sul loro impatto sulle risorse naturali, l’acqua, i territori e la biodiversità. I cambiamenti climatici vengono analizzati come un processo che sta contribuendo al fenomeno della “scarsità di risorse” portando ad una serie di scenari che includono come esiti, tra gli altri, i conflitti violenti e le migrazioni di massa. A tal proposito sono interessanti gli studi condotti dal Center for Climate and Security, un think tank con sede a Washington DC che è stato tra i primi a denunciare la potenziale connessione tra cambiamenti climatici, impatti nel settore agricolo, innalzamento dei prezzi del grano e scoppio di quel fenomeno che dai media internazionali è stato identificato come Primavera Araba. Si veda, al tal proposito, il report “The Arab Spring and Climate Change. A climate and security correlations series”[1].
Un altro strumento utile, online dal 2009, è il sistema di mappe ideato dal Robert S. Strauss Center for International security and law dell’università di Austin, in Texas, che permette all’utente di visualizzare le correlazioni tra vulnerabilità agli impatti dei cambiamenti climatici ed episodi di conflitto, con un focus ben definito nel continente africano[2].
Considerato quanto appena detto, un numero sempre più vasto di analisti, tra cui J. D. Steinbruner, direttore del Center for International and Security Studies e Mike Hulme, professore all’University of East Anglia, si sta concentrando sulla cosiddetta “messa in sicurezza” dei territori contro gli impatti del cambiamento climatico e la conseguente scarsità di risorse come potenziale causa di conflitti.
La nozione di “messa in sicurezza” presuppone che il cambiamento climatico venga visto e considerato come una minaccia per la sicurezza e questo risulta vero soprattutto quando si parla di contesti urbani (sia in paesi industrializzato che in paesi in via di sviluppo). Per quanto riguarda i paesi sviluppati, è interessante l’analisi del National Research Council, commissionato dalla CIA, che spiega come gli eventi estremi e gli impatti del cambiamento climatico aggraveranno o causeranno situazioni di scarsità idrica, povertà energetica, crisi del settore sanitario e nei mercati del cibo.
A proposito dei paesi in via di sviluppo, poi, un recente report della FAO focalizzato sui contesti urbani del continente africano, spiega come entro il 2020 l’80% delle città con il più rapido sviluppo saranno localizzate in Africa peggiorando una situazione già al limite:
“more than half of all [African city] residents live in overcrowded slums; up to 200 million survive on less than US$2 a day; poor urban children are as likely to be chronically malnourished as poor rural children”.
Dopo aver scritto quello che somiglia più ad un flusso di coscienza che ad un’analisi, la domanda a cui mi resta da rispondere è la seguente: perché, allora, i media continuano a trattare i cambiamenti climatici come una bomba sensazionale da sbattere in prima pagina? La colpa, credo, è in parte di un’evidente mancanza di specializzazione dei giornalisti nel settore e, dall’altra, dell’incapacità latente del mondo della scienza di rendersi comprensibile e alla portata del “lettore medio”. Lungi dall’essere una severa critica ai mezzi di comunicazione che, come tutti, talvolta fanno quello che possono con gli strumenti di cui sono a disposizione, la presente vuole essere piuttosto una sorta di riepilogo degli eventi. Quel che è certo è che parlare in termini prettamente scientifici di clima non è facile.
Ma forse dovremmo provare a smetterla di scriverne solo in occasione dei grandi eventi, per farci leggere o per vendere di più. Forse dovremmo fare almeno il tentativo di capire più a fondo le dinamiche di un complesso problema che ci affligge tutti e che comprometterà, in misura sempre crescente la nostra vita quotidiana. In fondo, il giornalismo dovrebbe avere anche, o prima di tutto, un ruolo educativo e non solo sensazionalistico. Forse dovremmo provare, d’ora in avanti, a sentirci tutti almeno ogni tanto come Humphrey Bogart (alias Ed Hutcheson, direttore del quotidiano The Day in Deadline), spedire l’articolo e avviare la propria personale rotativa mentre nella nostra mente parte un trionfale “E’ la stampa, bellezza”.
[1] http://climateandsecurity.files.wordpress.com/2012/04/climatechangearabspring-ccs-cap-stimson.pdf
[2] http://ccaps.aiddata.org