Un viaggio in bicicletta da Trieste a Sarajevo, una memoria che si nutre di luoghi, simboli, ricorrenze e di un futuro da scrivere
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/06/giuli_cemar2.jpg[/author_image] [author_info]foto e testo di Giulia Bondi. Nata nel 1976, dopo la laurea in Economia si dedica alla “lotta alla sfiga” raccontando storie dall’Italia e dal mondo. Come giornalista e videomaker ha pubblicato su Galatea, E il mensile di Emergency, Popoli, Liberetà, Terre di Mezzo, Internazionale.it, l’Espresso. Il suo blog è Gnomade[/author_info] [/author]
Questi “assaggi di Bosnia” sono frutto di un viaggio in bicicletta da Trieste a Sarajevo realizzato lo scorso agosto, più qualche giorno in automobile a ottobre. Si ringraziano l’associazione Viaggiare i Balcani e il compagno di pedalate Andrea Carrer, che li hanno resi possibili. Altri assaggi prossimamente su Q Code Mag.
10 novembre 2013 – La casa di Grof e quella di Gavrilo Princip a Bosasko Grahovo. Lo stlatko di prugne di Jasmina a Gorazde. I riccioli di Inga, studentessa di Mostar e rilevatrice del censimento. La determinazione di Maja, che ha riscoperto, nonostante tutto, la sua identità erzegovese. I murales con il volto di Ratko Mladic sulle pareti dei condomini a Gacko. I memoriali alle vittime musulmane nella valle della Una.
I manifesti 6×3 dei partiti nazionalisti, che con i colori delle bandiere ricordano l’importanza di fare la crocetta giusta, per “contarsi” nel primo censimento della popolazione dopo il 1991. Le bandiere bianche, rosse e blu che ogni tanto compaiono a bordo strada, in mezzo al nulla, per ricordare il confine tra le due “entità” e il passaggio dalla Federazione croato-musulmana alla Repubblica Serba di Bosnia. L’autunno precoce che colora di rosso e arancione le valli della Neretva, della Bosna, della Ljuta, e dei tanti fiumi che sono rimasti la più grande ricchezza della Bosnia Erzegovina, e fanno gola alle società straniere produttrici di energia elettrica.
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Vent’anni fa, il 9 novembre 1993, le forze croate distrussero dopo due giorni di bombardamenti il ponte vecchio di Mostar. “Il tragico evento”, ricorda Azra Nuhefendic su Osservatorio Balcani, “ci ha segnato così tanto che la maggior parte di noi ricorda esattamente dove stava e cosa faceva nel momento in cui aveva appreso la notizia”.
Poco meno di vent’anni dopo, la sera in cui la storica vittoria contro la Lituania porta la nazionale della Bosnia Erzegovina, per la prima volta, a qualificarsi per i mondiali di calcio, a festeggiare sono quasi solo i musulmani. Durante la partita, l’ansia è palpabile. I tavoli sono ingombri di boccali di birra, i posacenere stracolmi, gli sguardi fissi al televisore del bar. Al termine, un’esplosione di brindisi e bandiere: la gialla e blu della Bosnia e la mezzaluna rossa della Turchia, lo scudo blu con i gigli gialli che identificava l’esercito bosniaco e il verde oro brasiliano, in omaggio alla terra che ospiterà i mondiali.
Il benzinaio croato vicino Pocitelj, gioiello di arte ottomana una cinquantina di chilometri a sud di Mostar, ostenta disinteresse: il match storico non sa nemmeno a che ora si gioca. Invece Inga, che sta per iniziare un master in Diritti umani, ha anche “amici croati che hanno esultato per la partita”. Per lei, la città non è così divisa come si vuole credere: “ è così piccola – dice – che non ha senso dividersi”. La cameriera bionda del rifugio di montagna di Ruiste, trenta chilometri a nord della città, è musulmana, ma vive nella parte ovest di Mostar, al di là del Boulevard. Suo figlio, racconta mentre siede nell’auto che le dà un passaggio in città, è un calciatore professionista. Giocava nel Velez, poi è passato allo Zrinjski, la squadra croata: “è l’unica che paga a sufficienza”, spiega.
A Bosasko Grahovo, nella Bosnia occidentale, prima della guerra vivevano soprattutto serbi. La svolta, qui, è stata l’offensiva croata “Estate ’95”. Diciotto anni dopo, città e villaggi sono ridotti a circa un decimo della popolazione e nella maggior parte dei boschi i cartelli rossi con il teschio avvisano della presenza di mine ancora da rimuovere. Grof è un pensionato sessantenne appassionato di rock. Per tutta la vita ha fatto l’elettricista sui cargo della Jadrolinja. Senza figli, i risparmi li ha messi tutti in biglietti di concerti e per costruirsi una seconda casa, dove accoglie i viaggiatori di passaggio, unico dei dintorni dopo che ha chiuso anche il motel Gradiste. Sugli scaffali della libreria, tra i cd dei Led Zeppelin e il biglietto del concerto degli Stones a Belgrado, una foto mostra la casa negli anni della guerra, con la scritta “Hrvastka kuca”, casa croata, che Grof ha fatto cancellare appena ha potuto. “Ma non sono nazionalista”, dichiara, “anzi ho fatto anche un po’ di politica in un gruppetto che cercava di superare le divisioni tra le comunità”.
A duecento metri dalla casa di Grof c’è la casa natale di Gavrilo Princip, l’irredentista serbo che il 28 giugno 1914 assassinò a Sarajevo l’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando, nell’attentato poi riconosciuto come la scintilla che diede il via alla Prima guerra mondiale. La casa è difficile da trovare, e davanti non c’è nemmeno una targa.
“Qualche anno fa venne la responsabile di una grossa organizzazione americana”, racconta Grof, “e ci chiese se c’era qualche progetto che volevamo realizzare qui a Obljai. Le abbiamo chiesto di ripristinare la targa davanti alla casa di Gavrilo, distrutta durante la guerra”. L’interprete traduce, e l’americana sussulta: “Gavrilo Princip, the terrorist?”. “Ma quale terrorist, le abbiamo risposto, per noi è un narodni heroj, un eroe nazionale”. Questione di punti di vista, ma il finanziamento per la targa, naturalmente, non è arrivato.