Il viaggio di Izdihar

Aveva solo 22 anni, una ragazza siriana in fuga dalla guerra stroncata a settembre durante la traversata dall’Egitto all’Italia. Il cuore della giovane donna, che soffriva di diabete, ha smesso di battere a causa di una violenta crisi provocata dall’impossibilità di assumere insulina

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/11/1458957_10202570753656160_311410547_n.jpg[/author_image] [author_info]di Gaspare Urso. Da dieci anni è un giornalista del Giornale di Sicilia. Vive e lavora a Siracusa dove si occupa di cronaca politica e nera[/author_info] [/author]

Su quel pezzo di legno di venti metri era salita spinta dal terrore della guerra con gli occhi pieni di atrocità e violenza. Ma c’era anche salita, insieme al padre e alla sorella, con la speranza di ricominciare nel Nord Europa, passando attraverso Siracusa.

Nel porto della città di Aretusa, però, è arrivato solo il suo corpo privo di vita, adagiato su un lenzuolo bianco, a bordo di una motovedetta. Aveva solo 22 anni Izdihar Mahm Abdullah una ragazza siriana stroncata a settembre durante la traversata dall’Egitto all’Italia. Il cuore della giovane donna, che soffriva di diabete, ha smesso di battere a causa di una violenta crisi provocata dall’impossibilità di assumere insulina.

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Mancavano tre giorni all’arrivo a Siracusa. Su un motopesca, in mezzo al Canale di Sicilia, Izdihar si è spenta tra le braccia del padre, che desiderava portarla in Europa per farla curare nella migliore maniera possibile, e davanti gli occhi della sorella. Ad assistere a quella scena altri 338 migranti, tra di loro tanti bambini e qualche neonato, assiepati su quello che per la ventiduenne è diventato un feretro galleggiante.

Ed è proprio di quel corpo avvolto in quel lenzuolo bianco che ha deciso di prendersi cura Siracusa, o almeno una parte di essa. Lo hanno fatto i volontari, i militari della Capitaneria di porto, il Comune, i sacerdoti della città e la comunità musulmana, gli scout. Tutti insieme hanno deciso di riunirsi nella piazza principale del centro storico di Siracusa, davanti quella Cattedrale che è un mix di storia e culture, dai greci, ai normanni, ai bizantini.

Di fronte quella chiesa, la bara di Izdihar è stata adagiata su un tappeto. Con lei non c’erano il padre e la sorella che, come quasi tutti gli oltre 13.700 profughi arrivati a Siracusa, in gran parte siriani, avevano lasciato la città diretti nel Nord Europa. Uno strappo necessario, per quanto doloroso, per proseguire verso quella vita inseguita fin dalla partenza dalla Siria. Ed è forse per questo che, per non fare sentire sola la ventiduenne, tutti quelli che hanno voluto riunirsi in piazza Duomo si sono stretti attorno alla bara.

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Tra di loro anche un piccolo con una mano stretta alla madre e l’altra tesa, per diversi minuti, verso Izdihar, quasi a volerla tranquillizzare. Tutto attorno sono risuonati i versi del Corano e le parole dell’Imam di Catania prima e dell’arcivescovo di Siracusa poi. E sono risuonate anche le parole di padre Carlo D’Antoni, da sempre sacerdote di frontiera e vicino a migliaia di migranti. “Il nome Izdihar – ha detto padre Carlo – significa sviluppo.

Il papà di questa ragazza l’ha tenuta tra le braccia per tre giorni ma ha poi trovato la forza e il coraggio di guardare il futuro con speranza. È proprio da queste persone che ho imparato la cultura della speranza”. Izdihar è stata seppellita al cimitero di Siracusa in un luogo, ha voluto sottolineare ancora padre Carlo D’Antoni “dove fermarsi a riflettere sulle cose brutte che accadono ma dalle quali rinasce sempre la speranza



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