Peperoni: Illuminazioni

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Sono passati almeno 10 anni dall’uscita di ognuno dei film che rivisiteremo in questo spazio, eppure, nel bene o nel male, nulla pare essere cambiato. Pare che le tematiche siano più attuali del previsto. Dunque, si ripropongono, proprio come i peperoni. Speriamo solo di digerirli il prima possibile. [/note]

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/07/Schermata-2013-07-12-alle-14.20.02.png[/author_image] [author_info]Alice Bellini. Scrittrice, si laurea in cinematografia tra Londra e New York. Non è una critica di nulla, ma le piace dire la sua, sapendo che, comunque, la risposta a tutto è inevitabilmente 42.[/author_info] [/author]

11 dicembre 2013 – Nel 1931 uno dei più grandi artisti che il mondo abbia mai conosciuto fece una scelta molto eloquente. Nel 1931 Sir Charles Spencer “Charlie” Chaplin decise che il suo film City Lights, Le luci della città, restasse comunque muto, nonostante nel 1928 era stato trovato il modo di produrre i film in sonoro.

Che sia stata una scelta dettata dallo scetticismo nei confronti delle nuove tecniche, o da preferenze artistiche, a più di ottant’anni dalla sua uscita è una scelta che comunque continua a parlarci e a rimbombare di un significato molto profondo, nonostante il suo “mutismo”. Non tanto perché le parole non servono: il fatto che un film sia muto non significa che sia privo di dialoghi. Quanto per quella scelta di azzerare il “rumore”, eliminarlo, lasciare che l’attenzione si focalizzasse solo sulle cose più importanti.

City Lights, uno dei film più poetici, commoventi e assolutamente imperdibili della storia del cinema, con la sua delicatezza e la sua potenza, non è una storia d’amore, né una storia di generosità. Non è la storia di un’amicizia, ma neanche quella di un povero straccione pieno di guai. City Lights è una storia di riconoscimenti: riconoscimento delle cose importanti, delle priorità, delle cose per cui vale la pena restare, del significato effettivo. È una storia di superficie e profondità. Di apparenza e realtà. Di cosa significa vedere e quanto differisca dal guardare. Per quella strana regola, che tanto bene descrisse Antoine de Saint-Exupéry, per cui spesso l’essenziale è invisibile agli occhi, perché non si vede bene che col cuore. E lo stesso vale per l’ascolto.

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Chaplin pare voler sottolineare che tra suono e rumore passa una linea sottile, come tra udire e ascoltare. Eppure, questa linea è sempre più difficile da valicare. Fatta di approfondimento, pensiero, alternativa, indipendenza, coesistenza, empatia e la necessità di un’informazione pulita, di una cultura forte e prioritaria. Tra suono e rumore passa un’interpretazione. Tra suono e rumore passa una riflessione.

Il rumore sono i poliziotti che il 9 dicembre si sono tolti il casco durante la manifestazione del Movimento dei Forconi. Il suono sono tutti quelli che non l’hanno fatto durante il G8 di Genova, la sera della Diaz, i giorni di Bolzaneto. Quelli che non l’hanno fatto durante la custodia cautelare di Stefano Cucchi, o quelli che non l’hanno fatto mentre fronteggiavano il “violento e invasato” Federico Aldrovandi. Quelli che non l’hanno fatto durante le manifestazioni NO TAV. Quelli che non l’hanno fatto durante tutte le altre manifestazioni pacifiche. Tutti quelli che però, stranamente, quando a manifestare sono le forze di estrema destra, o movimenti affini, non hanno mai motivo di scontrarsi con i manifestanti. Anzi. Si levano i caschi.

Il rumore è Berlusconi che per vent’anni ha disintegrato l’Italia. Il suono sono gli italiani che lo hanno votato. Quelli che hanno continuato a farlo. Quelli che ancora lo farebbero e che, può darsi, un giorno lo rifaranno.

Il rumore sono le guerre umanitarie, quelle per la pace. Il suono sono i milioni di morti civili.

Il rumore, ormai e purtroppo, sono le versioni ufficiali, le notizie sui giornali, quelle dei telegiornali. I programmi televisivi. Gli schieramenti politici. Quelli religiosi. Le opere di carità. Il benessere. La costante e ossessiva ricerca della felicità. La difesa dei diritti di chi i diritti li minaccia. La giustizia uguale per tutti.

Nel 2013, così come nel 1931, il bisogno di silenzio è paradossalmente assordante. Il bisogno di azzerare tutto per poi poter udire solo i suoni, distinguendoli dai rumori. Il bisogno di aprire gli occhi, di tornare a vedere, o meglio, di cominciare a vedere, capendo cos’è che abbiamo davanti agli occhi, cominciando a guardare. Nell’attesa che il mondo riconosca quella mano, Chaplin c’insegna che la cecità è della mente, del cuore e dello spirito. Che la verità è roba rara, prima vittima di un’apparenza che colpisce chiunque, anche i più inaspettati. Ma ci ricorda pure che la speranza non è mai da perdere, perché anche quando la superficialità è acquattata dietro l’angolo, quando pare che anche l’ultimo essere puro sia stato corrotto e sia pronto a schernire ciò che prima ringraziava, una luce si accenderà. E poi, forse, anche tutte le altre. Non per accecare, ma per illuminare, come l’illuminatissimo volto di Chaplin nell’ultimo fotogramma di questo capolavoro.

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