Iraq, parte prima: Bassora

Si può affermare di esser stati in un posto anche se vi si è effettuato solamente uno scalo tecnico? In pratica, l’aeroporto di per sé vale, o no?

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/11/FacebookHomescreenImage.jpg[/author_image] [author_info]di Susanna Allegra Azzaro. Amo definirmi “cittadina del Mediterraneo”. Le mie origini si perdono tra Sardegna, Genova, Sicilia e Nord Africa, ma è a Roma che sono (casualmente) nata. Lavorare nella cooperazione internazionale mi ha dato la possibilità di vivere un po’ in giro nel mondo; la curiosità, invece, mi ha spinta a cercare di imparare il più possibile dalle culture con cui sono venuta a contatto. Tra il 2008 e il 2009 il lavoro mi porta in Medio Oriente e da allora esso continua ad essere una presenza costante nella mia vita. Recentemente vi sono tornata per approfondire i miei studi della lingua araba colloquiale “levantina”.[/author_info] [/author]

21 dicembre 2013 – Un giorno con degli amici si rifletteva su una questione banale: si può affermare di esser stati in un posto anche se vi si è effettuato solamente uno scalo tecnico? In pratica, l’aeroporto di per sé vale, o no?

Questa apparentemente innocua discussione ha fatto sorgere in me un dubbio: posso dire di essere stata veramente a Bassora?

I timbri sul passaporto dicono di si, tecnicamente sono anche uscita dall’aeroporto e vi ho soggiornato per alcuni giorni, eppure, io di Bassora non ho visto nulla.

Per due giorni la mia vita si è svolta all’interno di un perimetro limitato da aeroporto, base militare, all’epoca sotto l’esercito inglese, e adiacente campo attrezzato per noi civili.

Tutto ciò, notate bene, ben protetto dalle alte mura di recensione e dal deserto.

Impossibile vedere anche solamente uno squarcio di città dall’interno di quel forte.

Per motivi di sicurezza non mi era consentito uscire da quell’area protetta,  essendo gran parte l’Iraq altamente rischioso per occidentali e non.

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Il rapimento era, ed è tuttora, uno dei pericoli più temuti e, a seguito dal famoso episodio che vide protagoniste alcune cooperanti italiane nel 2004, lo staff internazionale delle maggiori ONG fu fatto sloggiare di corsa.

Esistono delle eccezioni, per esempio Erbil, città curda situata nel nord del paese, dove ho avuto modo di passeggiare liberamente e persino di uscire la sera.

Ma a Bassora si respirava nel 2008 tutta un’altra aria.

Se si voleva uscire dall’area protetta era consigliabile farlo con una scorta armata e, se non ricordo male, il costo di tale servizio variava dai 1.500 ai 2.000 dollari all’ora.

Non avevo un motivo reale che giustificasse l’onere di tale spesa, ero lì solamente per incontrare i miei colleghi iracheni e discutere di come stavano procedendo i lavori.

Se a me era precluso uscire dalla “gabbia”, a loro, invece, era concesso recarsi in aeroporto dove, dopo previa autorizzazione, utilizzammo un’abbandonata sala d’aspetto all’interno dell’area transiti come sede per il nostro meeting.

La desolazione che regnava in quell’aeroporto era agghiacciante.

Ormai circolavano pochissimi voli di linea che, per motivi di sicurezza, dovevano atterrare e decollare il più rapidamente possibile, al fine di ridurre il rischio di essere bersagliati da un cecchino malintenzionato.

All’interno della struttura molte vetrate erano martoriate da fori di proiettili, l’ampia sala degli arrivi era praticamente deserta, ma quello che mi colpì maggiormente fu l’immobilità del grande tabellone che una volta segnalava i voli in partenza.

Le sue grandi lettere bianche ancora parlavano di tratte che ormai non si effettuavano più in città, come Tokyo o Londra, capitali in un’altra galassia.

L’Iraq fa ormai parte di un altro mondo, quello in bilico tra il disastroso presente e il più ancora incerto futuro.

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Lasciandoti alle spalle l’aeroporto con un permesso difficilissimo da ottenere, ti ritrovavi nell’enorme campo militare all’interno del quale vi erano anche un paio di pub, vari punti di ristoro e persino un famoso fast-food.

Dei giovani militari inglesi correvano a torso nudo sotto il sole, c’erano quasi cinquanta gradi quel giorno.

Altri, giovanissimi, portavano giubbotto antiproiettile, casco e mitragliatrice.

Ragazzini che giocano alla guerra.

Non sapevo bene cosa aspettarmi da questa esperienza, non ero mai stata all’interno di un campo militare in assetto di guerra.

Sembrerà banale dirlo, ma io immagini del genere le avevo viste solo nei film, ed era esattamente così che mi sentivo in quel momento: in un mondo irreale, finto.

Non c’era una persona che ci rivolgesse la parola se non per chiedere i documenti, lascia passare e informazioni di ogni genere.

Di civili ve ne erano parecchi all’interno del campo, molti dei quali venivano dalle Filippine, Bangladesh,  India e svolgevano le mansioni più umili.

Molti sudafricani e americani lavoravano, invece, per imprese private di sicurezza, per intenderci, quelle che si facevano pagare 2.000 euro l’ora per scortarti in città.

C’erano poi alcuni impiegati dell’Ambasciata inglese e un paio di rappresentanti delle Nazioni Unite, uno dei quali, J, l’unica nota di normalità e umanità di quella realtà parallela.

 

Una sera J invitò me e la mia collega a prendere una birra in uno dei bar all’aperto nel campo e, mentre sorseggiavamo la bibita fredda indossando il giubbotto antiproiettili e il casco, J parlava di Pisa, della sua Inghilterra e persino di qualche conoscenza in comune.

Per un breve lasso di tempo sono riuscita persino a distrarmi e a estraniarmi da quel contesto, finché il cielo scuro non ha cominciato a tingersi di rosso e dei rumori inconfondibili mi hanno riportato alla realtà: qualcuno dall’esterno stava sparando al campo militare.

Tutti hanno continuato a bere la propria bibita come se niente fosse.

Ma come? Non ci avevano raccontato di aver “liberato” l’Iraq?

Non dicevano che tutti vi avrebbero vissuto in pace e armonia? E allora perché la gente spara a quelli che si professavano “salvatori del povero popolo iracheno”?

Perché è così tangibile l’odio nei confronti dell’Occidente?

Semplice.

Perché siamo stati capaci di far tornare il paese più avanzato del Medio Oriente al Medio Evo, li abbiamo ingannati facendo finta di preoccuparci per loro quando quello che ci premeva era solamente succhiare le loro risorse e ci siamo pure fatti beccare, se ne sono accorti anche quelli che una volta ci speravano nel nostro aiuto.

Dicevamo di voler portare la democrazia, ma siamo stati capaci addirittura di far rimpiangere il dittatore, proprio quello che sterminava i curdi e giustiziava i suoi avversari politici.

Mabrouk, complimenti.

Abbiamo invaso un paese che vantava una costituzione scritta, un tasso di istruzione tra i più alti nel mondo e molti diritti garantiti per le donne.

Lo abbiamo trasformato in una polveriera dove vige la shari’ha e l’odio settario.

Provo un disgusto enorme quando penso che anche il mio paese, quello che mi dovrebbe rappresentare, è stato complice di questo scempio.

Quello stesso schifo che provo da quando sono partita da Bassora, il giorno dopo la serata in compagnia di J, ogni volta che sento la parola Iraq.

Lasciandoci alle spalle la desolazione e Bassora (senza averla mai vista), abbiamo deciso che da lì in poi gli staff meeting sarebbero avvenuti a Erbil.

Quando il pilota dell’aereo ha annunciato che avevamo finalmente lasciato lo spazio aereo iracheno, involontariamente, tutti hanno cominciato a sorridere.



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