In Israele la musica ha il suono d’Oriente: la cultura mizrahi degli ebrei originari dei paesi arabi, da minoranza ghettizzata al successo internazionale.
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/01/sandra_haifa.jpg[/author_image] [author_info]di Alessandra Abbona. Classe 1968, press officer, giornalista free lance, è laureata in scienze politiche e poi in antropologia sociale, con particolare interesse per migrazioni, Mediterraneo e Medio Oriente. Ha sviluppato conoscenze sugli intrecci religiosi, sulle culture e subculture nei paesi del Mediterraneo. La musica è la sua passione. Da anni cura la rubrica musicale per Popoli, mensile dei Gesuiti. E’ inoltre una mamma ansiosa ed è allergica a chi non ha mai dubbi.
Il suo blog è http://notonlylanga.blogspot.
7 gennaio 2014.- Se c’è un luogo dove su una superficie geografica alquanto limitata esiste una grande varietà di culture quello è Israele. Lasciamo da parte pregiudizi e militanza e parliamo di musica. Perché è qui che si stanno sviluppando talenti e creatività, e non in talent show fotocopia in Europa o negli Stati Uniti. Nell’Israele di oggi – che è un paese frutto del cosiddetto myzug galuyot, melting pot, che costituisce il tessuto sociale israeliano contemporaneo – da tempo sta prendendo il suo spazio la musica e la cultura mizrahi, che significa orientale. Chi sono i mizrahim? Sono gli ebrei di origine maghrebina, mediorientale e asiatica (marocchini, algerini, tunisini, libici, egiziani, e poi greci, turchi, siriani, iracheni, quindi yemeniti, iraniani fino a quelli dell’Asia centrale). Quelli che in parte possono essere definiti – e non è una contraddizione – ebrei arabi.
Una popolazione che per millenni ha convissuto, intrecciando attività, relazioni, affari e persino legami familiari, con i vicini arabi. Fino a che, con la nascita dello stato di Israele, qualcosa iniziò ad incrinarsi. Si parla di circa 700mila ebrei arabi che lasciarono progressivamente i loro paesi, per dirigersi in gran parte in Israele, ma anche in Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Canada. Uno degli esodi più evidenti e massicci fu quello degli iracheni. Sono passati oltre 70 anni dal Farhud, la «Notte dei Cristalli» irachena, in cui nel 1941 centinaia di ebrei di Baghdad furono uccisi o aggrediti. Da allora qualcosa si infranse per sempre per i 150mila ebrei di cultura e lingua araba che popolavano il paese: fu l’inizio della fine della plurimillenaria comunità giudaica di Babilonia.
A partire dal 1948 iniziò un esodo di massa verso Israele, culminato nel 1951: abbandonati tutti i loro beni, si ritrovarono a vivere, spesso per anni, nei campi per rifugiati in quella che era la tanto sognata Terra Promessa. Poi giunsero meno drammaticamente, dopo le varie indipendenze dalle potenze coloniali, gli ebrei magrebini, quelli egiziani, libici e così via. Aveva il sapore di una fuga anche l’arrivo degli yemeniti, una comunità tra le più antiche, che aveva prosperato per millenni nelle montagne della penisola arabica, ma che ora rischiava il linciaggio e la morte. Ognuna di queste minoranze, che proprio tanto minoranze non erano, portò le proprie tradizioni ed in particolare un patrimonio musicale non indifferente.
Gli iracheni e gli yemeniti furono e sono ancora un serbatoio di eccezionali talenti musicali che hanno fatto la storia della musica israeliana. Per ebrei orientali la vita nell’Israele askenazita degli anni Cinquanta e Sessanta non fu facile. La lingua madre era sgradita e la loro cultura musicale, e non solo, considerata di serie B. La cultura dominante era quella di una giovane nazione bianca e di stampo nordeuropeo, fatta da pionieri che guardavano storcendo il naso quell’ondata di ebrei scuri, di lingua araba, che avevano invaso il paese. La comunità yemenita fu inizialmente tra le più emarginate: gli yemeniti si concentrarono in larga parte in quartieri popolari come Kerem HaTemanin a Tel Aviv o nelle sue città satellite. Stessa cosa fu per gli iracheni: inizialmente molti di loro si trasferirono nel quartiere di Hatikva, nella zona meridionale e più povera di Tel Aviv, trasformandolo in una piccola Baghdad.
Qui vissero anche i fratelli Daoud e Saleh Al Kuweiti, i più noti musicisti iracheni del XX secolo, autori – tra gli anni Trenta e Cinquanta – di centinaia di composizioni che hanno fatto la storia della musica araba. Nei confronti della loro opera, a partire dagli anni Sessanta, in Iraq fu messa in atto dal regime baathista una sistematica azione di rimozione: il loro patrimonio musicale fu arabizzato e i loro nomi cancellati dalla memoria collettiva. Pure in Israele per i due Al Kuweiti non furono rose e fiori: Daoud, il virtuoso di oud, e Saleh, il violinista (che composero per la leggendaria diva egiziana Oum Koultum, allietarono l’Iraq attraverso la radio di Stato e furono i musicisti prediletti di re Faisal) qui divennero due sconosciuti che si guadagnavano da vivere vendendo uova, occultando il loro talento musicale in una dimensione privata, esibendosi occasionalmente in ricorrenze famigliari o relegate tra mizrahim come loro.
A nessuno dei loro figli fu permesso di studiare musica e seguire la loro carriera: troppo dolorosa era la memoria della loro vita e dei loro successi in Iraq, per poterla ricordare e tramandare. Buon sangue, però, non mente. Il nipote Dudu Tassa, nato poco dopo la scomparsa del nonno Daoud nel 1977, è diventato una delle rockstar più note di Israele. Per anni Tassa ha convissuto con questo mito ingombrante, ma oscurato dalla famiglia stessa, del nonno e del prozio, senza sapere quanto fosse esteso il loro archivio musicale. Un tormentato viaggio alla ricerca delle proprie origini lo ha condotto a produrre un album straordinario – tutto in arabo (di cui aveva scarse reminiscenze e che ha dovuto imparare) – dove interpreta i loro successi e nel quale canta anche la madre Carmela (a cui il padre Daoud proibì ogni interesse musicale).
[sz-youtube url=”https://www.youtube.com/watch?v=GBR8E0qya3c” /]
Dal cd “Dudu Tassa and the Kuweitis” (2011) è poi nato un toccante documentario: «Iraq’n’roll». L’album racchiude i pezzi firmati da Daoud e Saleh divenuti ormai classici della canzone araba: Wen ya galoub (Piangi, cuore mio), Ruhi tlifat (Perdere l’anima), Tad’ini (Sto soffrendo). Chitarrista valente e songwriter, Dudu ha condito queste melopee mediorientali con ritmi rock, mantenendone però il pathos tutto levantino. Nel frattempo anche la municipalità di Tel Aviv nel 2011 ha riconosciuto i meriti dei due artisti, dedicando loro una strada. Il nome di risonanza araba, però, ha fatto storcere il naso ad alcuni abitanti della zona. Sembra non esserci pace per gli Al Kuweiti: troppo ebrei per gli arabi e troppo arabi per gli ebrei.
Numerosi furono i talenti musicali che emersero dall’area mizrahi, alcuni diventando delle vere e proprie leggende. Pensiamo alla yemenita Shoshana Damari, scomparsa ottuagenaria nel 2006 e “signora” della canzone patriottica (una su tutte “Kalanyot”, anemoni). Lo svilupparsi del suono mizrahi comunque ha inizio negli anni Sessanta con lo stile “Kasetot” (ovvero la musica registrata in audiocassetta), che era tipica dei mizrahim e che nacque dalla contaminazione con le sonorità pop rock.
Diversi furono gli artisti che iniziarono ad avere successo a partire dagli anni Settanta. Per esempio la famosissima Ofra Haza. Sulla sua storia ci sarebbe da scrivere un romanzo: proveniente da famiglia numerosissima, povera e religiosa, emerse per caso notata per la sua voce in un evento di quartiere. Poi arrivarono la tv, i dischi, il successo internazionale, l’amore e il matrimonio con l’uomo d’affari Doron Ashkenazi. Quindi la scomparsa per Aids in giovane età, su cui per molto è aleggiato il mistero: Ofra era un simbolo di purezza, intimamente legata alla sua famiglia così tradizionale, perché la sua immagine venisse offuscata da una morte portata da una malattia del genere. Le supposizioni su come avesse contratto l’infezione sono le più svariate e non staremo ad elencarle qui: basterà dire, però, che la figura di Ofra non fu mai intaccata da questo, anzi, rimane ancora oggi per i suoi fan la ragazza semplice, amante dei bambini, del sobborgo natio e delle antiche tradizioni rituali yemenite.
[sz-youtube url=”https://www.youtube.com/watch?v=s0BL6jD56BE” /]
Stesso background di partenza anche per Zohar Argov, l’HaMelekh, il “re” del mizrahi, dalla vita travagliata tra abusi di droga e violenze, culminata col suicidio in carcere nel 1987. Capace di incantare le folle con la sua voce duttile e la straordinaria dote di improvvisatore, Zohar iniziò ragazzino, cantando piyyutim (melodie liturgiche) in sinagoga. La tradizione corale, nelle comunità di fede giudaica, è una parte imprescindibile della vita religiosa, e molti degli artisti originari della penisola arabica hanno iniziato in questo modo.
Argov, come molti ebrei yemeniti, era dotato di una voce fuori dal comune.
Fu colui che sdoganò la musica mizrahi in Israele, fino ad allora dominata da stile ed artisti di origine askenazita, fortemente improntati ad uno stile occidentale e nordamericano. Il suo mito, piuttosto dannato (fu accusato di stupro e violenze, incarcerato e suicida), gli sopravvive ancora oggi. I suoi successi più emblematici furono “HaPerach BeGani”, “Mah Lakh Yaldah”, “Badad”.
[sz-youtube url=”https://www.youtube.com/watch?v=4lGLGv47gpA&list=TLXGIIN-oFOJmUqwuPE6HbSOeRXr0VNrHo” /]
Infine c’è quella che è stata l’artista donna più carismatica e originale di tutta la canzone mizrahi: la yemenita Ahuva Ozeri. La sua fu una voce inconfondibile cui il destino, nel 2005, ha voluto giocare un brutto scherzo con un cancro alle corde vocali. La Ozeri non si è rassegnata e si è dedicata all’insegnamento della musica, continuando a partecipare, quale virtuosa di bulbul tarang (un particolare strumento a corde indiano) in molti album di giovani artisti israeliani. La sua tonalità quasi maschile segnò tutti gli anni Settanta, Ottanta e Novanta: imperdibile è il suo “Tsiltsulei Pa’Amonim”, contenuto nell’omonimo album del 2003. Nonostante non possa più cantare, la tenace Ahuva ha realizzato nel 2013 un bellissimo disco di cui ha composto testi e musica, dal titolo “Maalei Demama”, le cui canzoni sono eseguite da artisti israeliani noti ed emergenti, con un risultato commovente.
[sz-youtube url=”https://www.youtube.com/watch?v=aQezteJGTvk” /]
Il silsulim, ossia il caratteristico vocalizzo che contraddistingue la musica mediterranea e araba, divenne il marchio distintivo del mizrahi, di cui però oggi non c’è più da vergognarsi o sentirsi inferiori: anzi, la gran parte degli artisti israeliani di successo vanta origini mizrahi o comunque miste. L’elenco sarebbe lunghissimo: l’intera famiglia Banai (iraniani), la giovanissima Riff Cohen (algerino-tunisina), Tomer Yosef (iracheno-yemenita), Yair Dalal (iracheno) e così via.
Niente è come sembra in Israele, dove le diagonali di storie di popoli diversissimi, ma uguali nella religione, sono le trame sottili che hanno tessuto questo paese.