Anche qui è Istanbul

 Il punto di vista di una straniera, che non vuole avere punti di vista, su Fikirtepe

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/12/1474942_10152145986573982_1364540848_n.jpg[/author_image] [author_info]di Alessandra Mainini. Sono nata nel 1982 nella provincia di Milano, sono antropologa e faccio ricerca a Istanbul, dove ho vissuto per diversi periodi studiando e lavorando. Il mio punto di vista è visuale, ovvero: mi interesso di tutto quanto si rende visibile, l’apparenza come sostanza, lo stile come impronta. A Istanbul indago il modo in cui le persone che abitano mettono in scena il loro abitare, la casa essendo il luogo in cui si materializzano i valori, i sentimenti, le scelte morali e politiche in senso lato. Il blog: Kiz Reporter[/author_info] [/author]

18 gennaio 2014 – Non mi importa di parlare di niente. Non mi piace come scrivo, la scrittura cambia la realtà, non voglio fare l’antropologa né la giornalista nella vita. E in questo c’entra anche Yasin, che mi chiede di fargli vedere le note che prenderò dopo la nostra conversazione. E mi chiede che idea mi sono fatta di Fikirtepe, e mi annuncia che mi farà un’intervista “per conoscere il punto di vista di una straniera su Fikirtepe”, a me che ogni parola di questo annuncio mi dà ai nervi.

“Conoscere” è una grande parola, da una conversazione con una studentessa di antropologia un po’ sprovveduta non vedo che tipo di conoscenza possa discendere. “Fikirtepe” è un argomento? Si può avere un “punto di vista” su Fikirtepe? E perché il punto di vista di “una straniera” dovrebbe avere un’importanza in senso assoluto? Dalla mia fatica di vedere Fikirtepe come argomento, segue la mia difficoltà a farmi un punto di vista. In visita a dei famigliari della mia coinquilina, quest’ultima spiega che sto facendo una ricerca sul kentsel dönüşüm etc. E la zia, in modo del tutto spontaneo: –E che cosa hai scoperto?–

Sono rimasta bloccata e ho sparato la prima cosa che mi è venuta in mente. Non che non fosse vera, ma non era nulla in assoluto. Non era Fikirtepe in toto. Il fatto è che guardando sempre più da vicino qualcosa, come sempre è difficile vederne l’insieme. Provate ad immaginare di dover rispondere a una domanda del tipo “ Cosa pensi di Sesto San Giovanni?”.

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Chiaramente nella domanda di Yasin, giornalista amatoriale che ha la redazione del suo quotidiano on line su Fikirtepe sul banco del suo negozio di ferramenta, non c’era l’intenzione di sapere se trovo Fikirtepe bella o brutta, chiaramente si riferiva allo sviluppo del quartiere come un problema, e la mia impressione su di esso.

Che cos’è successo? Ha ristretto il campo, ha chiuso la visuale, ma non ha semplificato la composizione dell’immagine, non ha semplificato la domanda. Io non so rispondere. E se non so rispondere ho fallito. Ma nemmeno voglio. Eppure era quello che mi prefiggevo di fare. “Gli antropologi devono parlare alla gente” mi dicevo. Devono aiutare ad aprire gli occhi alle persone, renderli consci del cambiamento antropologico in atto, dare loro gli strumenti per farsi un’idea, per pensarlo.

Sono andata a Poyrazköy, per vedere la costruzione del terzo ponte sul Bosforo e la trasformazione del paesaggio che ne consegue. Ho preso un autobus da Ümraniye, due rioni più in là rispetto a dove abito. Ci sono rimasta sopra un’ora esatta. Avevo aspettato l’autobus per mezz’ora, accanto a una ragazza che insieme a sua madre andava a Kavacık, da dove dovevo salire su un altro autobus fino a Poyrazköy. Si ferma l’autobus con il numero che aspettavamo ma l’autista ci dice che abbiamo sbagliato lato, di aspettare sul marciapiede opposto. Un’altra mezz’ora. Dopo aver percorso lungamente Çavuşbaşı yolu, in un’Istanbul ancora rurale e lontana, l’autobus arriva a Kavacık.

Scendiamo e noi tre donne ridiamo, pur senza conoscerci. Ma quanto era lungo?! E adesso dove va? A Poyrazköy. E lei? Anche noi! A trovare una zia. E lei da chi va? Da nessuno, solo per fare un giro. Smettono di sorridermi. Non mi parlano più. Che cosa ci va a fare una ragazza da sola a Poyrazköy? Un’altra ora di bus. Di cui un quarto d’ora sulla costa, a Beykoz; un quarto d’ora fra colli coperti di boschi, qualche casa isolata e piloni della corrente. Un’altra mezz’ora nella foresta incontaminata e verdissima, colli e valli e un’unica strada. In cima ad un’ultima incredibile discesa-salita, appare una striscia rasata dalle ruspe, piloni dell’autostrada in costruzione, e a lato, il villaggio Poyraz, sopra e sotto, fino alla spiaggia.

Inequivocabili, nel cuore del panorama, i piloni del ponte in costruzione, di qua e di là del Bosforo. Le navi quando passano in mezzo fanno “Pooooo”. Salutano qualcosa che ancora non c’è. Però c’è. Faccio mille riprese a questo paesaggio incredibile. Non ho voglia di parlare con le persone, di cercare di capire. Capire cosa? Come cambia il mondo con il terzo ponte?

Solo al termine di una camminata gelida dal monte fino alla marina, fra mucche e galline, risalgo ed esco sulla rocca, guardo verso il mare. Alla sinistra ho il Bosforo, davanti il Mar Nero, costa buia e ventosa. Rimango ad inumidirmi i capelli all’incrocio dei mari. Poi mi rifugio in un caffè, sorpassando un matto con la faccia tutta rossa, un ghigno e gli occhi spalancati che urla – No, non uscire, non chiudere la porta, è pericoloso!–

Allora mi accorgo che hanno tutti l’accento del Mar Nero, e mi sento altrove. Mi chiedono da dove vengo. Rispondo: –Da Istanbul.–

Ridono. –Anche qui è Istanbul.–

Mi chiedono una lira per il té; protesto; mi fanno pagare 75 kuruş. Costava 50.

Vado all’autobus. Diamine, è appena passato. Il prossimo è fra un’ora. Ho fame. C’è un negozietto lì vicino. Il negoziante ha voglia di parlare. Io no. Gli chiedo pigramente se è contento del terzo ponte. Lui dice sbottando: ­––E che si vincono le guerre senza ponti e senza strade?! Un paese per vivere deve sacrificare le foreste.– Ha due stampelle e insiste per raccontarmi delle sue avventure amorose quando ha lavorato in Germania negli anni Sessanta. Preferisco il freddo e i cani randagi alla fermata. Finalmente arriva l’autobus. Di nuovo un tuffo nel verde scuro. Poi la città.

 



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