Una terrazza su Beirut

Impressioni di un’economista in trasferta in Medio Oriente

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/08/Clara-Capelli-NFC-Tunis-2013-Picture.jpg[/author_image] [author_info]di Clara Capelli, da Beirut. Dottoranda in economia dello sviluppo con la passione per la lingua araba, si occupa di mercato del lavoro in Nord Africa e Medio Oriente. Ha lavorato in Cisgiordania, Libano e Tunisia, ma non ha ancora capito quale Paese le piaccia di più. [/author_info] [/author]

22 gennaio 2014 – “Ma perché sei venuta qui? Tutti se ne vogliono andare dal Libano, io me ne voglio andare. Cercherò un lavoro nel Golfo, lì c’è futuro, qui nulla.” Così mi accoglie Dina, la giovane segretaria del dipartimento di economia presso cui lavorerò per i prossimi sei mesi. Non si capacita di come di io – occidentale, europea, italiana –  abbia potuto accettare di venire a insegnare macroeconomia in una università di Beirut.

“Io mi occupo di economie del Nord Africa e del Medio Oriente, devo finire il dottorato e cercavo qualcosa per mantenermi, mi hanno offerto di tenere questo corso…e poi io ci sono già stata a Beirut, due anni fa…”. Non proseguo oltre. Come faccio a dire a una 24enne arrabbiata che a me la sua città e il suo Paese piacciono molto, che ho colto questa opportunità senza troppo pensarci su? Avevo voglia di vivere qui, confrontarmi con questa realtà “schizofrenica e spietata”, come la descrisse un mio amico due anni fa, all’inizio del mio primo soggiorno qui.

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Avevo voglia di vedere da me la Storia di questo Medio Oriente che cambia, anche – e forse soprattutto – in modo doloroso e drammatico. E avevo voglia di respirare a pieni polmoni l’energia di Beirut: chi ci ha vissuto sa a cosa mi riferisco, eppure non mi so bene spiegare con le parole.

Ma di fronte allo sguardo perplesso di Dina tutto il mio entusiasmo si frantuma contro un muro di imbarazzo. Lei è preoccupata perché le sue opportunità di carriera sono limitate, perché la società libanese è crudelmente individualista e competitiva, perché il traffico e le infrastrutture malandate rendono la quotidianità sempre più stressante, perché i tentacoli della guerra siriana si allungano sul suo Paese e chissà che cosa succederà.

La sera, dalla terrazza del mio appartamento, ripenso alle parole di Dina e mi guardo intorno. In linea (molto) teorica dovrei vedere il mare, ma un enorme palazzone modernissimo e disabitato – uno dei tanti che soffocano i quartieri più moderni di Beirut, risultato di una speculazione edilizia senza freni – occupa quasi tutta la mia visuale.

Appena più a destra c’è una delle case a mio avviso più belle della città, l’intonaco rosso, uno stile che mescola con grazia la tradizione ottomana con quella francese. Anche questa abitazione è vuota, probabilmente fu abbandonata durante la guerra civile, si vede chiaramente che sono molti anni che nessuno se ne occupa. A Beirut non ci sono tempo né voglia per prendersi cura di ciò che viene lasciato indietro, ognuno per sé, vinca il più forte e via di corsa verso il progresso. Come fa Dina, che vuole inseguire il sogno di opulenza del Golfo perché è convinta che quello sia l’unico futuro possibile.

Mi chiedo come si possa raccontare questa città, le sue bellezze che devi andarti a scovare e il suo avvenire fatto di lotte personali, violenza politica e un’economia dove non c’è posto per chi non regge le regole del gioco. Beirut è complicata, il Libano è complicato. È difficile capire qualcosa delle dinamiche che attraversano questa regione, ma mi piacerebbe tanto far arrivare un po’ di Medio Oriente in Italia, qualcosa di diverso da un bollettino dei morti o dai cliché su barbuti sanguinari e velate sottomesse.

Seduta sulla mia terrazza, mi viene in mente un libro che lessi due anni fa, Un balcon à Beyrouth di Richard Millet. Forse questa è una prospettiva adatta per guardare la città: si vede una buona porzione del puzzle, senza rischiare di farsi travolgere e confondere dai dettagli; eppure al tempo stesso non si è troppo distanti dai suoi protagonisti, si è in qualche modo parte della scena.

Il giorno dopo un attentato a matrice radicale sunnita in un quartiere sciita controllato da Hezbollah uccide quattro persone (forse di più, ancora non si sa). La Storia si fa sentire con prepotenza sul campo di battaglia del Medio Oriente. Intanto, alla mia università, gli studenti danno la caccia ai docenti per gli ultimi chiarimenti, a breve iniziano gli esami della sessione invernale. Dina mi chiede se sono spaventata. “No, per ora no”, le rispondo. “Bene, comunque il vicepreside ti vuole incontrare. Ti metterà in guardia sugli studenti. Sei nuova, giovane e loro sono squali viziati. Non sono come gli italiani”. Non sono per nulla convinta di ciò, ma non replico. Sono solo molto curiosa di cosa vedrò affacciandomi.



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